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Autore: emotjon    05/03/2015    4 recensioni
Lui, tuono e tempesta.
Lei, emozione e disincanto.
Insieme, un accordo di corde e suoni, pelle e sensi. un melodia che vibra sulle corde del cuore.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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3. La furia del violoncellista.



Avrebbe dovuto maledirsi in tutte le lingue conosciute, per essere entrata in quel teatro mentre lui suonava. Avrebbe voluto avere la forza di riaprire la pesante porta di legno, voltarsi e tornare il più velocemente possibile da dov'era venuta. Tornare in sala di registrazione, rimettersi le cuffie, isolarsi di nuovo e ricominciare a cantare come se non l'avesse sentito suonare e non avesse sentito quella rabbia e non fosse stata presa dalla sua solita curiosità, che come sempre la portava ad agire ancor prima di pensare.
Ma era sempre stata troppo curiosa ed era troppo impulsiva per essere fermata. Impulsivi i suoi piedi, che si erano mossi lungo il corridoio del piano terra dell'accademia quasi senza che lei lo volesse o almeno se ne accorgesse. Impulsive le sue labbra, che avevano preso a muoversi, intonando a voce appena udibile la canzone tanto familiare alle sue orecchie - impulsive anch'esse - che lui stava suonando egregiamente, ma forse con troppa forza, con troppa rabbia, furia, rancore. Impulsive le sue mani, che avevano spinto sulla porta senza che fosse loro richiesto, in uno stimolo tutto loro e impossibile da fermare.
Impulsiva lei, col respiro incastrato nei polmoni e il cuore in gola senza possibilità di ritorno.
A guardare lui, dal primo istante in cui mise piede in quel teatro e dai primi passi che percorse lungo il corridoio che divideva le poltrone le une dalle altre. In completo silenzio, con la paura anche di respirare, di interrompere la sua musica con un sospiro sfuggitole dalle labbra o inciampando nei propri piedi o svenendo direttamente, uccisa da tutta la rabbia che lui le stava scaricando addosso suonando e senza nemmeno saperlo. In silenzio per non interrompere, per non disturbare e soprattutto per non farsi scoprire.
A guardare lui, illuminato appena dalle luci non troppo intense del teatro e troppo impegnato ad abbracciare lo strumento che teneva tra le braccia per potersi accorgere di qualsiasi altra cosa. Tanto impegnato da tenere le palpebre abbassate e farsi trasportare dalla musica quasi come lui fosse un naufrago e le note che suonava fossero l'unica cosa che riuscisse ad impedirgli di andare a fondo senza possibilità di tornare a galla vivo. Tanto preso dalla musica da permetterle di arrivare alle prime file senza essere vista, posare la borsa carica di spartiti buttati dentro a caso su una poltrona con la mano che non riusciva a smettere di tremarle e il cuore che le batteva tanto forte nel petto da sentirlo rimbombare nelle orecchie.
Poltrone rosso porpora tutte uguali ma tutte diverse, ognuna con la propria storia da raccontare ma tutte con la stessa stoffa di velluto a ricoprirne la seduta e lo stesso odore di tessuto, di teatro e di musica. Poltrone spettatrici silenziose di uno spettacolo udito da molti ma visto da nessuno... unica spettatrice, Esme, che più lo guardava e più non riusciva a smettere di farlo e più lo ascoltava e più avrebbe voluto fare a meno del resto dei suoni, pur di continuare ad ascoltare il modo in cui l'archetto tra le mani di Zayn creava tutta quella meraviglia, apparentemente senza nemmeno sforzarsi.
Ma lo sforzo c'era eccome.
Esme poteva vederlo nella sua fronte aggrottata e nella piccola ma profonda ruga che gli si era formata tra le sopracciglia scure, e che gli tremava ad ogni movimento più intenso delle dita, ad ogni nota vibrata e ad ogni scarica di rabbia che sembrava fluire da lui e renderlo a mano più leggero, ma che non faceva comunque diminuire la forza con cui stava continuando a suonare, nè i movimenti violenti che le sue dita strette intorno all'archetto continuavano a produrre scontrandosi contro le corde. Movimenti obliqui, brevissimi, effimeri e che quasi sembravano non avere a disposizione abbastanza tempo per esistere davvero.
Era visibile nel sudore che gli si formava sulla fronte e gli appiccicava i capelli alla pelle, o nell'eterno sospiro che gli si poteva veder scivolare via dalle labbra come a riprendere fiato tra un movimento e l'altro, come se stesse sussurrando il nome di un'amante facendoci l'amore o come stesse semplicemente mormorando tra sè le parole della musica che stava suonando, canticchiandole senza voce perchè lo strumento che teneva fermo tra le ginocchia faceva già tutto al posto suo. La fatica era in quelle ciglia scure che gli tremavano, negli occhi chiusi e nel naso leggermente arricciato, nella mascella serrata e nei muscoli del collo tesi. La fatica era nelle spalle contratte e brillanti di un velo quasi impalpabile di sudore.
Lui, era fatica. Sforzo fisico. Ma anche soddisfazione, che dopo tutto quell'esercizio e quella fatica e quello sforzo arrivava sui muscoli doloranti e le orecchie sensibili per la musica alta a posarglisi addosso come una pomata, a lenire tutto e donargli un senso di pace che solo la musica e il violoncello e quelle note violente sapevano dargli. La musica era sfogo e conforto dove niente e nessun altro sapevano arrivare, per Zayn. La musica lo rendeva libero di lanciare una vecchia felpa col cappuccio sul parquet fresco di cera e di suonare in canottiera senza che nessuno si lamentasse che quello non era l'atteggiamento giusto, per un musicista classico.
Beh, lui in quel momento era una rockstar, non un pomposo violoncellista classico.
Ed Esme era l'unica spettatrice di tale spettacolo, l'unica ragazza che avesse mai avuto il coraggio di irrompere in un teatro mentre lui si esercitava e senza sentirsi minimamente in colpa, perchè sentirlo suonare era un conto... ma vederlo era tutt'altra cosa. Vederlo suonare e muovere quell'archetto e accarezzare le corde con le dita; o vedere i capelli scuri sfuggire alla coda e cadergli sulla fronte; o vederlo mordersi le labbra e muovere il piede a ritmo sulla pedaliera e osservarlo muoversi in sincrono con lo strumento, quasi come se fosse vivo e ci stesse ballando o avesse la pelle morbida di una giovane donna e lui lo stesse accarezzando. Tutto quello, beh, era diecimila volte meglio che sentirlo suonare da dietro una parete.
Lei era l'unica ragazza che poteva dire di averlo visto suonare davvero, mentre si liberava di tutta la rabbia e di tutto il rancore repressi, senza freni e senza inibizioni. L'unica che lo stesse vivendo e guardando davvero, e l'unica che non riuscisse a smettere di farlo. Perchè smettere di guardarlo suonare sarebbe stato come smettere di respirare, in quel momento... sarebbe stato come farsi colpire in pieno dalla sua rabbia fatta musica, invece che provare a capirla. Smettere di guardarlo le avrebbe fatto a pezzi il cuore e l'avrebbe fatta sciogliere in lacrime, come cercava di evitare che succedesse ogni volta che lo ascoltava dal corridoio.
Una nota più potente delle altre la fece annaspare e chiudere gli occhi, irrigidendone i muscoli e facendone serrare le dita intorno al velluto della poltrona, mentre un sospiro più pesante dei precendenti le sfuggiva dalle labbra a rompere il silenzio e il segreto che aveva cercato di mantenere dal momento in cui aveva messo piede lì dentro. Rigida contro lo schienale, con gli occhi chiusi e completamente in balìa della musica, quasi non si rese conto di essere stata scoperta, e non si accorse che Zayn aveva appena sollevato le palpebre, puntando la proprie iridi scure sul suo viso.
Gli occhi del ragazzo, ora aperti, sembrava non riuscissero a richiudersi. Le sue iridi di solito color nocciola erano rese più scure dalla rabbia che gli montava dentro, ma più chiare a mano a mano che sfogava la propria frustrazione sullo strumento, meno arrabbiate a mano che l'archetto scorreva con la sua solita fluidità sulle corde. Fino a tornare ad essere del colore di sempre, quando le palpebre gli si sollevarono attirate da quel sospiro e si posarono prima con impazienza e poi quasi con timore su di lei.
Impazienza, perchè non credeva potesse essere proprio lei, nemmeno lontanamente. Poteva essere una delle ragazze che di solito si fermavano ad ascoltarlo suonare fuori dall'auditorio, anche se sospettava che nessuna di esse avesse il coraggio di intrufolarsi lí dentro con lui presente. Come sospettava, anche, che se fossero mai entrate si sarebbero limitate a nascondersi - nella penombra, o nelle ultime file, il più lontano possibile dall'essere viste, sentite o qualsiasi altra cosa. Impazienza, perchè odiava essere osservato o disturbato o interrotto mentre suonava. Impazienza, perchè se fosse stata una ragazza qualunque avrebbe smesso all'improvviso, l'avrebbe guardata col peggiore degli sguardi o l'avrebbe direttamente cacciata di lì urlando. Ne sarebbe davvero stato capace... ma lei non era una ragazza qualunque.
Ed era proprio quello che lo intimoriva. Lei era la ragazza che aveva seguito, spiato e sentito cantare fino a sentire gli occhi chiudersi dal sonno; lei era la ragazza con la voce incredibile e le felpe con le maniche lunghe fino a coprire le mani - come in quel momento; lei era la ragazza che con la propria voce riusciva a trasportarti in un mondo e senza sforzarsi minimamente.
Lo intimorivano i suoi capelli ricci sempre un po' ribelli e le palpebre sempre abbassate a nascondere il colore delle proprie iridi; lo intimoriva quel piercing al labbro inferiore e le sue stesse labbra e la sua voce che senza troppa fatica avrebbe potuto rompere un bicchiere di cristallo e rimetterlo insieme come se non si fosse mai rotto; lo intimorivano quelle felpe che la coprivano come non avesse una forma, e quei jeans stretti e strappati che al contrario le facevano due gambe da urlo; lo intimorivano quelle scarpe da ginnastica distrutte dall'usura, perchè era evidente quanto ci avesse camminato e quanto in qualche modo che lui non capiva tenesse alla loro storia.
Lo intimoriva lei, dalla punta dei ricci alla suola delle scarpe.
E continuare a suonare con la stessa rabbia in sua presenza era impossibile, perchè sembrava semplicemente essere svanita nel momento in cui si era accorto di lei, perchè il suo sorriso era quasi più rassicurante di quanto non lo fosse mai stato la musica e perchè quasi si faceva schifo da solo, ad essersi mostrato tanto vulnerabile e arrabbiato davanti a lei.
Non restava che trasformare la rabbia in qualcos altro, cambiare in modo impercettibile l'inclinazione dell'archetto o la posizione delle braccia; bastava cambiare canzone all'improvviso per vederla irrigidirsi e trattenere il fiato; bastava che la rabbia si trasformasse in passione, perchè le sue ciglia sfarfallassero fino a farle risollevare le palpebre e le sue labbra si stirassero nell'ombra di un sorriso o le sue gambe si rilassassero sul sedile, meno attaccate al petto, come sentisse che non c'era più bisogno di proteggersi perchè non c'era più nulla di cui avere paura, in quel teatro deserto di persone ma carico di musica.
Era bastato poco, per guardarla finalmente negli occhi e vederci le foglie di primavera. Poco, per perdercisi e perdere un respiro e perdere il filo di quel che stava suonando, ma fortunatamente senza che lei se ne accorgesse o almeno senza che lei gli facesse capire che se n'era accorta. Poco, perchè lei si passasse la lingua sulle labbra e nascondesse un sorriso incastrando una mano tra i capelli. Davvero poco, perchè la rabbia che l'aveva mosso fino a lì svanisse come fumo di sigaretta nella brezza di aprile, quasi come se grazie a quegli occhi verdi, quelle ciglia scure e la spessa montatura di quegli occhiali il resto avesse semplicemente smesso di esistere, sostituito solo da lei e dalla sua espressione nel sentirlo suonare, dalle mani ancora strette sulle maniche del maglione che indossava e dal piercing al labbro che riusciva a brillare nonostante la pochissima luce presente.
Ed era bastato poco, perchè di riflesso la ragazza si perdesse negli occhi scurissimi del violoncellista, prima che lui riabbassasse le palpebre con l'accenno di un sorriso e finisse di suonare. Più lieve, meno violento. Ma pur sempre da far venire i brividi lungo la schiena e immaginare davvero che lui sfiorasse lei, al posto del violoncello. Più lieve e passionale... più lucide le sua labbra, più rilassato il volto, quasi travolto anch'esso come lei dalla potenza della musica, dal vibrare delle corde e dall'importanza di quel momento. Più lievi e meno violenti anche i suoi occhi, più limpidi a mano a mano che i secondi scorrevano inesorabili e meno arrabbiato il suo sguardo a poco a poco che guardava lei. Solo lei. Non riusciva a guardare nient'altro che non fosse il suo viso, in quel momento.
Così come lei, del resto, non riusciva a far altro se non guardare lui e cercare di capire di che colore fossero davvero, quegli occhi. Oppressa dalla loro oscurità, ma senza riuscire a desiderare di uscirne. Al contrario, col desiderio di vederli da vicino, di affogarci dentro, di calarcisi pian piano e tutto in una volta per scoprire chi fosse davvero lui e da dove provenisse davvero tutta quella rabbia che gli aveva sentito buttar fuori fino a qualche secondo prima, fino a che non aveva mosso delicatamente l'archetto ad accarezzare le corde per produrre l'ultima nota, quella che fece socchiudere gli occhi ad entrambi, chi con un mezzo sorriso, chi mordendosi un labbro per non rendersi ridicola sospirando.
Tanto profondi, quegli occhi, da non riuscire a distogliere lo sguardo. Esme infatti sembrava come incatenata a lui, in quel momento. Tanto presa da quelle iridi scure - tanto diverse da quelle che aveva amato un tempo - da non accorgersi di quanto stesse diventando insistente il suo sguardo su di lui. Tanto presa da lui da non rendersi conto di quanto forte si stesse mordendo il labbro inferiore, almeno finché non sentì il sapore rugginoso del sangue sulla lingua. Tanto presa da quel momento da farsi scappare un sospiro lievissimo, con le mani che le tremavano come quando era entrata lì dentro ed era stata colpita da quell'uragano di musica e rabbia che le era piombato addosso senza nemmeno pensare di chiedere scusa.
Rilasciò il labbro inferiore dalla trappola dei denti, insieme a quel sospiro, appena in tempo per accorgersi di quanto imbarazzante stesse diventando guardarlo senza riuscire a dire nulla, guardare in quegli occhi e aspettare che come per magia essi parlassero al posto suo - e c'era una scintilla, che sembrava davvero sul punto di voler dire qualcosa ma che alla fine non riuscì a dire nulla in più dello sbattere veloce delle palpebre, che le fece finalmente distogliere lo sguardo da lui e da quel mare color nocciola versato nei suoi occhi.
Rilasciò il nervosismo sotto forma di una risata, Esme.
Una risata che arrivò alle orecchie del ragazzo sotto forma di note scritte di fretta su un pentagramma e impresse a fuoco nella sua mente. Come avesse voluto riprenderle, poi, e riprodurre quella risata - arrivatagli alle orecchie come un coro di campanelle - al violoncello. Una risata che si perse nella grandezza di quello spazio, scemando a poco a poco fino a scomparire nel vuoto, tra le luci che provenivano dall'alto, le pareti insonorizzate e il velluto color porpora delle poltrone. Una risata che le orecchie di Zayn catturarono e tennero con sè come fosse il loro piccolo segreto, di cui nessuno doveva venire a conoscenza.
E applaudì, Esme, tornando a guardarlo e facendolo scoppiare a ridere con lei, che anche se imbarazzata non riusciva nè a smettere di sorridere come una stupida nè a smettere di riascoltare la sua bellissima risata. Bellissima come le nuvole che nascondono il cielo sopra Londra, come i palazzi riflessi sul Tamigi e come camminare per la città di notte e immaginare di dirigere le luci dei semafori come stesse dirigendo un'orchestra. Bellissima come un'alba, la sua risata. Unica come ogni goccia di pioggia che si schianta violentemente sull'asfalto e unica come l'arcobaleno che la seguiva.
Applaudì senza riuscire a smettere di ridacchiare, anche se tentata di scappare da lì e tornare a far finta che lui non esistesse. Tentata di alzarsi mentre lui riponeva il violoncello nella sua custodia. Tentata di evaporare come neve al sole, pur di non affrontarlo - anche se lei non era mai stata il tipo di ragazza da farsi intimidire da un ragazzo, tantomeno uno strumentista, per quanto dotato potesse essere e per quanto potesse farle venire i brividi anche solo guardandola di sfuggita.
Tentata di scappare, ma fermata dai suoi occhi di nuovo sul proprio viso, fermata dalla vista delle sue mani inanellate incastrate tra i capelli, a tirarli indietro per legarli alla meno peggio. Distratta da lui, dal suo modo di scendere i pochi gradini che dividevano il palco dalla platea, dal suo modo di camminare e rinfilarsi la felpa col cappuccio che fino a qualche istante prima giaceva buttata a caso sul pavimento di fianco alla custodia dello strumento, come se prima di iniziare a suonare se la fosse sfilata con rabbia e l'avesse gettata a terra con noncuranza, quasi con rancore. Distratta dal suono del suo respiro affannato sempre più vicino, Esme non riuscì a muoversi se non per seguirlo con gli occhi e continuare a stringere i polsini del maglione tra le dita.
Sempre più vicino, il suo respiro. Sempre più vicino lui e sempre più vicino il suo forte odore di tabacco e di sudore. Sempre più vicino il colore dei suoi occhi ma sempre meno il coraggio della ragazza di guardarci dentro e sentirsi tirare giù fino a soffocare. Tanto vicino da sentirne il battito velocizzato del cuore e sentirne quasi il calore della pelle sulla propria, oltre al suono del respiro che di secondo in secondo sembrava quasi entrarle nelle orecchie.
«Niente male, per essere uno strumentista», minimizzò la mora, reprimendo l'istinto di scoppiare a ridere, vedendolo spostare la tracolla sul sedile accanto e occuparne il posto con un sospiro e un sorriso insieme. Inarcò semplicemente un sopracciglio ma non disse altro che potesse distrarlo dalle proprie parole. Niente male. Bugia. Era chiaro come il sole quanto davvero l'avesse colpita, bastava sfiorarle le guance leggermente macchiate di rosso con lo sguardo, per capirlo.
«Nemmeno tu sei male...».
«Esmeralda, piacere».
La giovane gli porse la mano - quel giorno con le unghie smaltate di rosso ma che già stava andando via. Assaporò il contatto con la mano di Zayn in punta di dita, sfiorandone i polpastrelli, i leggeri calli che li ornavano, la lunghezza della dita affusolate e il calore della sua mano. La strinse appena, quella mano, accennando un debole sorriso quando lo sentí ricambiare la stretta, spiazzata da tanta forza e delicatezza insieme. Era come se stesse ancora stringendo l'archetto, anzichè la mano di una ragazza; era come volesse stringere quanto bastava per sentirla davvero ma non abbastanza da farle male; come stesse stringendo tra le dita una farfalla in fin di vita, invece che la mano di Esme.
«Zayn, piacere mio».
Appena fuori dal teatro, i capelli rossi di Roxanne venivano addomesticati alla meno peggio in quello che avrebbe dovuto essere uno chignon, ma che in realtà vedeva parecchi ciuffi ribellarsi e andare per conto loro - frangetta a parte, quella era sempre perfetta comunque la mettesse. Appena fuori dal teatro, Roxanne canticchiava appena, con le labbra strette su un insieme di spartiti che non aveva saputo come altro reggere, avendo le mani impegnate. Appena fuori dal teatro, ripassava il testo di una canzone passeggiando avanti e indietro, pur di non passare la serata in camera con la propria coinquilina che, malauguratamente, suonava la tromba e si sarebbe esercitata fino a non aver più fiato.
Con lo sguardo concentrato sui listelli di parquet scuro che ricoprivano il pavimento e le mani ancora impegnate a tenere fermi i capelli, non si accorse del ragazzo biondo che le arrivò addosso spuntando all'improvviso dalle scale che portavano al piano di sopra e ai dormitori, oltre che ad altre aule di musica e agli uffici dei professori. Biondo. E con la chitarra acustica tra le mani. Con gli occhi celesti sgranati dalla sorpresa di essersela trovata di fronte all'improvviso e col timore di averle fatto male a far capolino nelle stesse iridi, mentre lei lasciava andare i capelli e schiudeva le labbra rosa abbastanza da far scivolare fino a terra gli spartiti che tenevano strette.
«Io... scusami... non volevo venirti addosso».
«No, io... scusami tu, dovrei guardare dove vado», mormorò la ragazza, stranita dal colore di quelle iridi che mai erano state tanto vicine e mai l'avevano guardata davvero, non in quel modo. Si passò la lingua sulle labbra secche - facendolo deglutire - prima di trattenere una risata imbarazzata e abbassarsi a raccogliere gli spartiti, nello stesso momento in cui al biondo venne la stessa identica idea. Testa contro testa, quindi, prima che entrambi scoppiassero a ridere mel corridoio deserto e si porgessero la mano, quasi in sincrono. «Roxanne, piacere», riuscí a dire, ancora con la propria risata in gola e quella del ragazzo a risuonarle nelle orecchie.
Come la canzone dei Police, avrebbe voluto dire lui, ma non ne ebbe il coraggio.
«Niall, piacere mio».
E le strinse la mano come fosse una canzone, piano, come la stesse accarezzando con le corde della propria chitarra fino a plasmarla e renderla la cosa più bella che avesse mai suonato. Le strinse la mano indugiando sulle sue dita, sul calore della sua pelle, marchiandola coi piccoli calli che gli ricoprivano le dita, marchiandola con se stesso, mentre lei ricambiava la stretta quasi senza riuscire a respirare. La strinse come pensava che lei volesse essere stretta, mentre la sua risata ancora gli girava nelle orecchie e sembrava non volersene andare.
Le strinse la mano beandosi della nascita di un sorriso sulle labbra di Roxanne, rendendosi conto di aver pensato anche se solo per un attimo di voler essere lui, la causa di quel meraviglioso sorriso e di quelle iridi scure che avevano preso a brillare come piccole luci al led in un corridoio buio.
Le strinse la mano, Niall, mentre poco lontano Esme si alzava dalla poltrona color porpora su cui era ancora seduta senza riuscire a trattenere un sorriso e si sporgeva oltre Zayn per recuperare la propria tracolla. Tanto vicina da sfiorargli il viso coi ricci, tanto vicina da respirarne l'odore e lasciarsene penetrare in modo indelebile le narici e tanto vicina - per quell'istante effimero in cui prese la borsa e tornò indietro - da sentirlo respirare nel proprio orecchio come fosse un segreto. Tanto vicina da sentirselo quasi sorridere contro la pelle.
E non disse una parola, mentre lo superava e tornava sui propri passi. Sempre più lontana da lui, dal suono della sua risata, dal suo sorriso, dalla sua pelle lucida di goccioline di sudore e dalla scia del suo profumo. Sempre più lontana ma sempre col sorriso, mentre prendeva a fischiettare proprio la canzone che lui le aveva suonato proprio prima. Lo fece scoppiare a ridere e probabilmente scuotere la testa, cosa che la fece voltare prima che potesse spingere la porta ed uscire, allontanandosi definitivamente da lui.
Non disse una parola nemmeno a sentirlo ridere, quando in realtà avrebbe voluto dargli addosso e dirgli di smetterla picchiandogli il petto, perché quella risata era davvero troppo per essere sopportata e non reagire. Quella risata, la sua risata, chiedeva almeno di sentir ridere in risposta. Non disse nulla, la lingua paralizzata dal suo sguardo che le trapanava la schiena come volesse passarle attraverso e leggerle dentro - come volesse spogliarla, con quello sguardo.
Non avrebbe voluto allontanarsi da quella risata, per nessun motivo al mondo.
Cosí, pur di non scomparire troppo in fretta, si voltò di nuovo verso il palco, tornando indietro di qualche passo e facendo incastrare i loro sguardi, riuscendoci anche nella penombra. Pur di non lasciar andare quel momento, lo guardò stringendo di più la presa sulla tracolla della borsa, prima di dire le uniche parole che le vennero in mente di cui non si sarebbe mai pentita, nemmeno fosse cascato il mondo.
«Suoni divinamente quando ti incazzi, sai?».
Qualche altro passo verso Zayn, mentre lui si alzava come di riflesso e le andava incontro senza riuscire nè provare a fermarsi. Con lo sguardo scuro e divertito rivolto verso il basso, a sollevarsi lungo le sue gambe a mano che le si avvicinava, a mano che ricominciava a sentirne il profumo di fiori e il sentore di menta che sembrava portarsi dietro ovunque andasse - anche se lui ancora non lo sapeva.
«Chi ti dice che fossi incazzato?», la provocò lui inarcando un sopracciglio.
«La musica...», gli rispose semplicemente, arrivando dritta al punto. Di nuovo tanto vicini da respirarsi, abbastanza da allungare la mano e sfiorarsi. E fu quello che fece lei, senza nemmeno starci a pensare troppo su; allungò una mano verso il suo viso, catturando una ciocca di capelli umida di fatica sfuggita alla coda improvvisata e portandogliela dietro l'orecchio. Indugiando sulla sua pelle, sul freddo metallo del piercing al sopracciglio. Indugiando su di lui, in ogni particolare, fino ad imprimerselo in mente. «Mi ha detto più lei di quanto non mi avresti tu se te l'avessi chiesto», mormorò, a voce tanto bassa da far fatica a sentirla, non ci fosse stato il silenzio più completo.
«Magari ti sbagli». Non ti sbagli. Sei l'unica che se ne sia mai accorta davvero.
«Certo... ma magari invece no, perchè io sento nello stesso modo in cui senti tu». Sentiamo tutti nello stesso modo, Esme. Avrebbe voluto dirlo, urlarglielo contro la pelle, distruggerla con quelle poche parole che nemmeno lontanamente avrebbe potuto considerare vere, ma non poteva spezzare un legame appena nato come il loro. Non si sarebbe spezzato. E non voleva spezzare lei, era tanto fragile che non si sarebbe aggiustata... e vederla in pezzi, stranamente, era l'ultima cosa che voleva. «Dovresti averlo intuito, a forza di sentirmi cantare», aggiunse la mora con l'accenno di un sorriso, più compiaciuto che davvero irritato come avrebbe voluto sembrare.
Esme fece schioccare la lingua contro il palato, trattenendo l'ennesimo sorriso, che però era troppo spontaneo per essere nascosto, quando vide Zayn mordersi il labbro e subito dopo passarci sopra la punta della lingua ad inumidirlo, come fosse appena stato colto in flagrante. E lei davvero non sapeva se esserne più lusingata o... spaventata. C'era davvero motivo di esserne spaventata? In fondo lui l'aveva solo ascoltata cantare, come prima di lui avevano fatto altre decine di persone. Era solo strano, per Esme, che lui non l'avesse fatto alla luce del sole come tutti gli altri.
Era solo strano, e non potè trattenersi dal ridere scuotendo appena la testa, prima di scostarsi da lui, voltarsi ancora e tornare per la seconda sui propri passi, diretta lontano da lui e dal suo sguardo terribilmente affascinante.
Di nuovo vicina alla porta, con la mano già sul legno lucido e freddo, quasi non si accorse di essere praticamente investita dalla porta stessa e dal ragazzo che dall'altra parte stava spingendo per entrare, con più di quanta non stesse mettendo lei per uscire. E da essere contro la porta si ritrovò ad essere contro un ragazzo e la sua chitarra, contro il profilo familiare e il petto ampio di Niall. Il biondo la afferrò per un gomito ridacchiando prima che potesse cadere, salutandola poi come se si conoscessero da sempre, cosa che era più o meno vera, se un anno poteva considerarsi tale.
Ma lo sguardo di nuovo scuro di Zayn le avrebbe detto più di quanto stesse dicendo il ragazzo con la chitarra che ancora la teneva per il gomito, se solo lei se ne fosse accorta. Sembrava gelosia, forse, ma nemmeno il violoncellista poteva esserne sicuro... non era geloso da così tanto che non ne ricordava più neppure la sensazione sulla pelle, nelle iridi, sulla nuca; non era geloso da quando lei se n'era andata, e Esme non era lei, era solo una bella voce di cui non riusciva a fare a meno.
Paradossalmente, proprio come lo era stata lei.
Solo che quello sguardo Esme non lo vide mai, come non si accorse della nascita di quella gelosia nei suoi occhi. Non si accorse del dolore, dei ricordi riaffiorati. Troppo impegnata a salutare Niall, non si accorse del tumulto di Zayn nè di null'altro. Fuori dal teatro, interrotta dal salutare il moro ancora dal chitarrista che «Ti si sente dal piano di sopra, Zay», prima che scoppiasse a ridere come faceva sempre, facendo sorridere l'altro anche se aveva ancora lo sguardo fisso su di lei. Fuori dal teatro, voltatasi per salutarlo, riuscì a farlo solo con un sorriso, una strana luce negli occhi verdi e un gesto delle dita, mentre le sue labbra mimavano un "ciao" e sparivano dalla sua vista come ghiaccio che si scioglie al sole.
E lei era già lontana, quando lui vide qualcosa di metallico brillare appena sulla moquette scura. Era già troppo lontana per poterla raggiungere, chiamare o fermare, quando si chinò per raccogliere la collana che doveva esserle caduta nello scontro con Niall. In fondo, avrebbe dovuto ringraziarlo, anche se continuava a ridere di lui e del suo comportamento... c'era da aspettarselo però, lui era fatto così - e aver conosciuto Roxanne lo rendeva anche più allegro ed entusiasta del solito, ma il moro non poteva saperlo, nè se ne curò più di tanto, se non sorridendogli e dandogli un'ironica pacca sulla spalla.
Esme si addormentò tardi quella sera, tenuta sveglia un po' dal pensiero di Zayn che suonava a pochi metri da lei - facendole rivivere fino a notte fonda ogni movimento del suo archetto e ogni sospiro che gli era uscito dalle labbra suonando - e un po' dalla sensazione che le mancasse qualcosa. Solo, non era riuscita a capire cosa nemmeno mentre crollava tra le lenzuola, ancora con una matita incastrata tra i capelli a tenerli fermi e in mente il pensiero di quel ragazzo che era riuscito a farla sospirare solo suonando, senza nemmeno sfiorarla.
Si addormentò tardi, dormì male e venne svegliata anche troppo presto, per essere sabato mattina. Mugugnò qualcosa nel cuscino, prima di lanciare un occhiata alla sveglia sul comodino e imprecare a voce alta. Le otto del mattino di sabato. No. Cioè, no. Non poteva credere che qualche coglione stesse davvero bussando alla porta della sua stanza a quell'ora nell'unico giorno in cui avrebbe volentieri dormito tutto il giorno senza nemmeno alzarsi per mangiare o andare in bagno. Non poteva credere che quello stesso idiota continuasse a bussare ridacchiando dopo averla sentita imprecare con la voce ancora decisamente impastata dal sonno. Risata terribilmente familiare, ma che appena sveglia Esme non riuscì a collegare a nessun volto, nè a nessun paio di occhi castani in cui solo il giorno prima sarebbe affogata senza nemmeno pensarci.
«Arrivo... porca puttana, oh...».
Imprecazioni ferme in gola.
Respiri ancora bloccati nel polmoni.
Battiti del cuore congelati ancor prima di diventare vita.
La porta della stanza aperta con troppa forza, abbastanza da farla sbattere contro l'armadio e far schiudere le labbra di uno e dell'altra in sincrono, chi per fingersi stupito e chi per dire qualcosa ma non riuscire poi a dire nulla. Un paio di occhi verdi sgranati per la sorpresa di vedere proprio quel coglione, davanti alla sua porta. Un paio di occhi castani che luccicavano di malizia e divertimento insieme, al sentirla imprecare e al vederla in quello stato - in pigiama, se così potevano definirsi quella maglia sformata e quel paio di slip neri. Un paio di labbra ancora secche dal sonno che si aprirono e chiusero più volte, prima che potesse anche solo formulare un pensiero concreto di fronte a lui.
Lui, che la anticipò con un mezzo sorriso, tirando fuori da una tasca la sua... collana. Quella che non toglieva nemmeno per dormire o per lavarsi o per fare l'amore, perchè era parte di lei praticamente dalla nascita e non se ne sarebbe separata nemmeno sotto tortura. Quella per cui viveva e che stringeva quando la forza sembrava mancarle e faceva fatica a respirare. La sua collana, tra le sue mani. Sembrava uno scherzo del destino... lui aveva stretto tra le mani un pezzo di lei senza nemmeno sapere quanto potesse essere intenso e importante, quel pezzo.
«La mia...». La ragazza si toccò improvvisamente il collo, spaesata.
«Ti è caduta ieri, uscendo dal teatro».
«Beh...», mormorò lasciando che inaspettatamente lui gliela rimettesse al collo, facendole sentire di nuovo il leggero peso del metallo proprio dove stava il cuore. Ecco cosa le era mancato e le aveva tolto il sonno. Le mancava quel cuore formato dalla chiave di basso e dalla chiave di Sol legate insieme, sul proprio, a renderla completa. «Grazie, sei stato gentile», aggiunse passandosi una mano tra i capelli e sfiorandosi la collana con le dita dell'altra, senza però smettere di guardare lui e i suoi capelli tenuti sciolti, i suoi occhi che sembravano oro fuso e quelle labbra che... nemmeno Esme sapeva di preciso cosa si sarebbe fatta fare, da quelle labbra carnose e leggermente screpolate. Tutto, probabilmente.
«Avevi ragione, ieri... ero incazzato».
E lei annuì con un mezzo sorriso, anche se lo sapeva già, l'aveva sentito dalle prime note che le erano arrivate alle orecchie il giorno prima e non ne erano ancora uscite. Cercò di nascondere un sorriso più ampio in uno sbadiglio che più finto non sarebbe potuto essere, quando subito dopo lo vide sollevare divertito il sopracciglio col piercing. Quasi un gesto di sfida nei suoi confronti, che però non era riuscito a fermare.
Così come la ragazza non riuscì a fermare l'acidità con cui gli rispose, anche se gli strappò la più bella risata che avesse mai sentito nascere dalle labbra di qualcuno. «Lo so, Zayn... e sarei curiosa di sapere perchè, ma ora come ora sono davvero tentata di prenderti a sberle e tornamene a letto». E quella risata, davvero, era talmente assurda e meravigliosa da far sorridere anche lei. Quella risata, con quella mano passata divertito tra i capelli lunghi, le fece quasi fermare il cuore da quanto le entrò dentro in un lampo - come un pugno nello stomaco, ma con un dolore decisamente diverso, più piacevole in un certo senso.
«E se ti offrissi la colazione?».
«Mh...». La mora fece finta di pensarci, picchiettandosi un dito sulle labbra senza smettere di guardarlo negli occhi, tirando appena l'anellino di metallo che glielo ornava un po' a provocarlo e un po' a nascondere una risata che se fosse stata un'altra le sarebbe sicuramente scappata - isterica, probabilmente. «Allora potrei anche trovare la forza e infilarmi qualcosa addosso».
«Per me puoi anche scendere così».
E dopo avergli chiuso la porta in faccia, Esme quella risata non la trattenne più.
Come Zayn non trattenne la propria, a poca distanza da lei.






 
   
 
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