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Autore: Marti Lestrange    05/03/2015    7 recensioni
[STORIA SOSPESA]
Long Bellarke {Bellamy Blake/Clarke Griffin}; modern!AU.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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AVVERTENZE PRELIMINARI: visto che nelle recensioni allo scorso capitolo mi avete detto che trovate i miei Bellamy e Clarke IC, ho fatto che togliere l'avvertimento OOC. Non sapete quale peso mi avete tolto! Grazie!

 
"Well, look who I ran into," crowed Coincidence.
"Please," flirted Fate, "this was meant to be."
 
 
fireproof
capitolo 2
master of fate/captain of soul
 
 
{Clarke}
Prima di oggi, non ho mai veramente pensato alle coincidenze. Da qualche parte, non ricordo dove, ho letto che "sono le cicatrici del destino", ma lì per lì mi sono fatta una mezza risata, arricciando le labbra e senza farci troppo caso. Ci sono persone, invece, che credono a queste cose veramente, giustificando ogni piega della vita con la banale scusa del "fato". "Si vede che era destino", dicono. Tutte cazzate. Non c'è nessun cammino già scritto per noi chissà dove. Ogni essere umano costruisce la propria storia, determina le sue proprie gioie e i dolori in eguale misura, forgia il proprio carattere e, di conseguenza, ogni nostra decisione è soltanto nostra, interamente. Non c'è nessun progetto celeste, nessuna divinità che scrive il libro della vita, siamo noi che possiamo decidere di vivere alla bellemeglio oppure soccombere sotto la nostra stessa stupidità. 
 
Ad ogni azione corrisponde una reazione, giusto? Forse siamo noi stessi a causare il nostro stesso male. Agendo come agiamo, abbiamo due scelte: farlo nel modo giusto oppure no. Nel primo caso, di solito va tutto bene. Magari non proprio come vorremmo, ma le conseguenze solitamente non sono poi così gravi. E almeno siamo apposto con la coscienza. Nel secondo caso, invece, sappiamo bene cosa succederà. Dolore, guai, problemi, punizioni, non necessariamente in quest'ordine. E il dolore, anzi, ci accompagna costantemente, sin da quando capiamo l'enormità del nostro sbaglio. Posso considerare il mio "crimine" come facente parte della seconda categoria di azioni. Sin da quando ho cominciato, già sapevo dove mi avrebbe portato. Rimbombava nel mio cervello una strana musica, come un martello che colpisce un muro di metallo. Il rumore che provocava mi rintronava le sinapsi e, mano a mano che il tempo passava, perdevo una parte di me. 
 
A quanto pare, oggigiorno, il nostro sistema giudiziario considera un reato aiutare i più deboli. Un reato gravissimo. Il mio status di minorenne mi ha salvato, e la Correction School mi ha accolta fra i suoi studenti come un porto sicuro. Lì, fra quelle quattro mura scrostate, non posso fare a meno di pensare che rifarei comunque tutto da capo, nonostante la punizione. Non c'è nulla per cui mi debba pentire o sentire spiritualmente contrita. Ho rubato medicinali dalle scorte dell'ambulatorio di mia madre e le ho passate illegalmente a tutti quei pazienti che non potevano permettersi l'assicurazione sanitaria. E l'ho fatto per un anno intero, prima di venire beccata. Per fortuna, mia madre è stata ritenuta "estranea alle vicende" e ha potuto così continuare ad esercitare. Da quel giorno, non mi ha più guardata allo stesso modo. 
 
All'improvviso, sono diventata Clarke l'Adulta, Clarke che fa delle scelte coraggiose e stupide nella stessa misura, Clarke che se ne frega del pericolo, che infrange le regole e ne paga le conseguenze in silenzio. Fino a quel giorno, per mia madre ero solo una bambina sconvolta che ha perso il padre, che sfoga il suo dolore facendo delle marachelle da poco conto, che si chiude in se stessa e che comincia ad aiutarla all'ambulatorio solo perchè costretta. Non ho mai fatto nulla contro la mia volontà, nella mia breve vita. Ho sempre aiutato mia madre perché volevo farlo. E ho fatto ciò che ho fatto ben sapendo di stare correndo un rischio immenso, ben sapendo che avrei potuto determinare la fine della carriera di mia madre, la dottoressa Griffin che aiuta gli ammalati e gli sbandati di Anacostia. Sarei finita sulla bocca di tutti, sarei stata descritta come una figlia incosciente e ingrata che agisce senza pensare. Invece, ora tutti mi rispettano. Apprezzano il mio gesto, nonostante non possano ammetterlo pubblicamente. Mi guardano come a voler dire "grazie, Clarke, per quel che è durato". Ed è per questo che lo rifarei. Ancora e ancora. 
 
 
*
 
 
«Ciao, Clarke.»
«Raven.»
L'officina di Raven Reyes è sempre il solito caos. La mia amica è seminascosta sotto una macchina rossa, dalle quale spuntano solo le sue lunge gambe magre. La sua voce mi arriva attutita, come dall'interno di una bolla. 
 
«Come hai fatto a capire che ero io?»
Si fa scivolare da sotto la macchina e si mette a sedere, un sopracciglio inarcato e un leggero sorrisino ironico dipinto sul volto. È sempre abbronzata, Raven. Merito di un cocktail genetico proveniente da qualche paese del centroamerica. Si pulisce il viso sporco di grasso e si alza in piedi, stiracchiandosi.
«Riconosco il tuo passo, ormai. E poi la mattina arrivi sempre con una tazza di caffè, aroma inconfondibile. Non potevi che essere tu» spiega molto semplicemente. 
 
Le sorrido, scuotendo la testa. Le porgo la tazza fumante e lei l'accetta di ottimo grado. Sorseggia il caffè lentamente, mentre esamina con cipiglio professionale alcuni pezzi di ricambio poggiati sul tavolo da lavoro. 
«A cosa lavori?» le chiedo avvicinandomi. 
«Mi è stata portata questa vecchia Camaro del '70. Ha bisogno di una bella ripulita e le mancano alcuni pezzi interni. È una bella sfida, ma lavorare su automobili del genere è un privilegio.»
 
Io non capisco niente di motori, non riesco a comprenderne il fascino, ma cerco di immedesimarmi in lei e immagino me stessa quando aiuto mia madre all'ambulatorio, soprattutto in casi delicati. Tecnicamente, non potrei. Nel senso che la mia punizione implica non solo trascorrere almeno un anno della mia carriera scolastica alla Correction School, ma anche il divieto di aiutare mia madre e addirittura di mettere piede in ambulatorio. Né io né mia madre ci siamo scomodate a rispettare questa nuova regola. Continuo ad aiutarla regolarmente, checché ne pensino gli altri.
 
«Come stai?» mi chiede Raven riscuotendomi dalle mie riflessioni. 
Scrollo le spalle. «Al solito.»
Raven annuisce e poi torna a trafficare con i suoi "giocattoli".
«E tu?»
La ragazza alza il viso. Fissa senza vederlo un punto imprecisato della parete di fronte a lei, pensierosa.
«Sono andata a letto con Wick» butta lì. Io per poco non cado a terra, stecchita dalla notizia.
«Come, scusa?» esclamo.
«Hai capito» continua lei agitando una mano. «È successo l'altra sera. È venuto qui per chiedermi un aiuto su alcuni iniettori e sai... insomma... è successo e basta.»
 
Raven se ne sta appoggiata al tavolo e si dondola avanti e indietro. 
«Vi siete sentiti?»
Scuote la testa, mordendosi un labbro.
«Raven» sospiro scuotendo la testa a mia volta. «Lui ti piace. Tu piaci a lui. Non vedo dove sia il problema.»
«Il fatto è che... Insomma, tutta quella vecchia faccenda mi ha segnato. È stato il mio primo amore, Clarke, e l'ho perso. Mi ha lasciato una voragine dentro, un nodo di insicurezze che non accenna ad allentarsi.»
Annuisco in silenzio, ben sapendo a cosa si riferisca la mia amica. 
 
Raven e io siamo diventate veramente amiche dopo la fine della mia storia con Finn Collins. Finn, l'ex ragazzo di Raven. Non sapevo nulla della loro storia, quando ho baciato Finn la prima volta. E nemmeno quando ho fatto l'amore con lui, alla luce delle candele, nella sua piccola stanza nei dormitori della scuola. L'ho saputo solo molto dopo, quando Raven è piombata nella mia vita all'improvviso, presentandosi come "la fidanzata di Finn". E lì mi è crollato il mondo addosso. Lì, credo che sia finita la parabola discendente che era sempre stata la mia storia con lui. L'ho lasciato e da quel giorno cerco di evitarlo: nei corridoi, in mensa, in giardino. Persino in giro per Anacostia. E Raven e io abbiamo riscoperto la bellezza di un'amicizia nata in circostanze strane e dolorose, quando entrambe ci siamo sentite prese in giro e usate, quando anche il più bello degli istanti trascorsi con la persona che credevi di amare viene contaminato dal germe della bugia. 
 
Da allora, Raven occupa il vecchio garage di mia madre, che è diventato la sua officina, e una delle stanze al piano di sopra che è riuscita a trasformare in un piccolo e modesto monolocale, perfetto per le sue semplici esigenze. Wick è una vecchia conoscenza di Raven, ben prima che si innamorasse di Finn. Ho sempre pensato che fosse innamorato di lei, pur non avendo la benché minima speranza. Da qualche tempo, invece, credo che Raven stia seriamente cambiando idea su di lui. 
 
«Chi meglio di me ti può capire, eh?» rispondo sedendomi accanto a lei sul tavolo sporco, incurante del grasso che potrebbe attaccarsi ai miei jeans. «Il ricordo di Finn - e della vostra storia - non dovrebbe in alcun modo alterare il presente, Raven. Non è giusto.»
«Hai ragione» concorda sospirando. «Ci penserò sopra.»
«Brava ragazza.»
Raven mi sorride, incerta. 
«Ora ti lascio al tuo lavoro. Vado a finire un saggio breve da consegnare domani e poi preparo il pranzo. Ti unisci a noi?»
«Non vorrei disturbare...»
«Nessun disturbo. La domenica si sta in famiglia» rispondo senza esitazioni. «Ed Abby sarà felicissima di vederti.»
 
 
* * *
 
 
{Bellamy}
«Mamma» chiamo a mezza voce.
«Mamma» ripeto alzandola di un tono.
Scuoto il corpo di mia madre, avvolto nel piumone, e lei bofonchia, infastidita. 
«Mamma!» esclamo infine, spazientito.
«Bellamy, si può sapere che c'è?» mi chiede, la voce impastata dal sonno.
«Volevo solo dirti che non torno a casa, dopo scuola. Vado direttamente all'ambulatorio Griffin per il volontariato.»
«Mhm-mhm» borbotta nascondendo la testa sotto le coperte.
Io sospiro ed esco dalla stanza.
 
Mia madre Aurora lavora all'Anacostia Market - il supermercato locale - praticamente da sempre. Ricordo ancora quando si portava dietro me e un'Octavia ancora neonata e ci metteva nel retro, negli spogliatoi femminili, perché non poteva permettersi una babysitter e doveva lavorare come una disperata per farci mangiare. Durante le varie pause, lei e le sue colleghe ci venivano a dare un'occhiata ed erano tutte premurose e gentili con noi "piccoli Blake". C'era chi ci portava la merenda o da bere o semplicemente ci faceva giocare almeno per un po'. Era bello. 
 
Quando io sono cresciuto quel tanto che bastava, venivo lasciato a casa con Octavia e ho sempre badato a lei come un perfetto fratello maggiore responsabile. Non sono mai stato all'asilo, dovevo badare a mia sorella, io. E ne andavo fiero. Octavia è stata la mia ancora. Quando è arrivato per me il momento di andare a scuola, però, mia sorella ha ripreso a frequentare il retro dell'Anacostia Market. 
 
Non siamo mai stati dei semplici bambini. Abbiamo imparato a cavercela da soli fin da subito. Mia madre lavorava - e lavora ancora - dieci ore al giorno e ultimamente, da quando il Market ha deciso di stare aperto ventiquattro ore su ventiquattro, fa anche il turno di notte, perché "la paga oraria è più alta e ci servono soldi".
Octavia e io abbiamo imparato a convivere con le sue lunghe assenze e con la sua tendenza a vuotare la bottiglia, soprattutto dopo una giornata particolarmente stressante. Sono presto diventato l'uomo di casa, da quando mio padre ci ha lasciati. Ero piccolo, Octavia era nata da poco e quel bastardo ha ben deciso di piantarci in asso, perché era stufo di "pulirmi il culo" e "farselo per mantenerci", quando tutto ciò che guadagnava lo spendeva in scommesse illegali e lo stipendio di mia madre copriva a malapena le spese. 
 
Ricordo ancora le cene a casa di Atom, che abita a due numeri di distanza da noi. Quando non c'era abbastanza da mangiare, venivo spedito lì ad orari tattici, in modo che la madre del mio amico mi invitasse a rimanere con loro. Ho sempre pensato che sapessero tutto, i genitori di Atom, e che tacessero perché in fondo mi volevano bene, mi avevano visto crescere e comprendevano la tragica situazione in cui versava casa mia. Non è mai stata un luogo adatto ad un bambino. I litigi furiosi dei miei genitori mi tenevano sveglio per delle ore e mi addormentavo solo per sfinimento, dopo l'ennesimo pianto silenzioso e disperato. Le porte sbattevano, si lanciavano piatti e si urlavano insulti di ogni genere. Mi tappavo le orecchie, ma quei pochi centimetri cubici di pelle e nervi non riuscivano mai a metterli a tecere. Li sentivo rimbombarmi nelle orecchie anche quando ormai tutto si era spento e la casa soffocava nel buio di notti incerte. 
 
Da quando mio padre se n'è andato, ce la caviamo. Sopravviviamo, come tutti qui ad Anacostia. Galleggiamo in quest'aria rarefatta, veniamo sospinti dalla corrente e cerchiamo di affiorare in superficie - cerchiamo di stare meglio. Cerchiamo di vivere davvero.
 
 
*
 
 
L'ambulatorio Griffin è uno dei luoghi più puliti che io abbia mai visto. Pareti bianche, pavimento verde pallido, quadri e fotografie alle pareti. All'ingresso c'è una piccola scrivania che funge da reception, con alle sue spalle alcuni vecchi schedari e, di fronte, le sedie che compongono la sala d'attesa. In quel momento c'è soltanto una donna, che attende lì seduta, così mi siedo anche io e aspetto che la dottoressa Griffin mi riceva. Tengo in mano il modulo che mi ha dato Kane, che ho compilato soltanto da qualche minuto, in tutta fretta durante la colazione. Me n'ero dimenticato e l'ho ritrovato soltanto per caso, sotto una t-shirt abbandonata sul mio letto. 
 
Non sono propriamente agitato. No. 
Diciamo che rapportarmi con persone come Abigail Griffin mi crea sempre qualche problema. Di solito ho a che fare con elementi peggiori, come i miei amici a scuola o le persone che bazzicano intorno a casa mia, in quella parte di Anacostia che è meglio non osservare. 
Sono stato all'ambulatorio solo un paio di volte. La prima quando avevo cinque anni: mi sono sbucciato un ginocchio al parco e la madre di Atom ha insistito a farmi disinfettare - mia madre mi avrebbe lanciato la bottiglia dell'alcol da medicazione che teniamo nell'armadietto in bagno e mi avrebbe detto di arrangiarmi. La seconda soltanto un paio di anni prima. Con Atom, Muprhy e gli altri ci siamo tipo ubriacati, nel giardino sul retro a casa mia, e abbiamo poi vomitato tutta la nostra misera cena sull'erba mal curata. Peccato che io sia stato male più degli altri, che hanno quindi deciso di portarmi all'ambulatorio. Esito: una bella colica renale. Non dimenticherò mai quel dolore. 
 
Entrambe le volte, la dottoressa Griffin è stata gentile. Ovviamente, la prima ha usato una premura che durante la mia seconda visita ha pensato bene di moderare. Mi ha seriamente rimproverato, ha chiamato mia madre, ma lei si è limitata a dirle di "lasciarmi tornare a casa che sicuramente non era niente di grave". Tipico.
 
La porta si apre e Abigail Griffin esce accompagnata da una bimba. Avrà sì e no sei anni e ha gli occhi rossi di chi ha pianto tanto. La donna mi lancia un'occhiata prima di rivolgersi alla madre della bambina, la donna che attendeva in sala.
 
«Si rimetterà» le dice. «Il dolore è passato, ma le darò qualcosa per spegnere l'infiammazione, d'accordo?»
La donna annuisce abbracciando la figlia.
La Griffin si dirige alla scrivania e scribacchia qualcosa su un blocco bianco. Poi strappa il foglio e lo porge all'altra. 
«Grazie, dottoressa Griffin.»
«Dovere» replica. Poi si alza e si inginocchia di fronte alla bambina, che stringe spasmodicamente la mano della madre. «Starai bene, okay? La mamma si prenderà cura di te.»
Le da un buffetto sulla guancia arrossata e poi le osserva uscire, come faccio io. La bambina mi lancia un'occhiata e io piego la bocca in una pallida imitazione di un sorriso. Non mi riesce bene.
 
«Tu devi essere Bellamy Blake.»
Mi riscuoto e osservo la dottoressa Griffin. Indossa il camice e tiene i capelli raccolti dietro la nuca. È seria.
Mi alzo in piedi e mi avvicino.
«Dottoressa Griffin» borbotto.
Le porgo il modulo, così lei smette di osservarmi per leggere il foglio spiegazzato. Poi lo poggia sulla scrivania e torna a guardarmi, le mani puntate sui fianchi.
«Vieni con me» dice.
 
La seguo oltre la porta dalla quale l'ho vista uscire solo qualche minuto prima e mi ritrovo nello studio medico vero e proprio. Ed è proprio come lo ricordavo, anche se vagamente. Un lettino, alcuni tavoli con sopra attrezzi medici di varia natura, credenze addossate alle pareti e un'ampia finestra proprio di fronte alla porta. Sulla destra, un'altra porta conduce all'ufficio privato di Abigail Griffin. Intravedo una scrivania, più elegante di quella nell'ingresso, una poltrona e altri mobili in legno di pregiata fattura. 
 
«Mettiamo subito in chiaro una cosa» comincia la donna. Io mi fermo di fronte a lei, in silenzio. «Non ho davvero bisogno di un assistente o di un aiuto. Come tutti sanno, nonostante mia figlia Clarke abbia ricevuto il divieto di aiutarmi, continua a farlo. Tutti sanno anche che è molto occupata con la scuola, la Correction School la impegna molto più che un normale liceo. E ho accettato di averti qui perché conosco Marcus Kane e il preside Jaha e ho voluto far loro un favore. Nessuno ha accettato di averti come assistente, Bellamy. Nessuno, in questa città. Tranne me.»
 
Le sue parole non mi colpiscono più di tanto. So bene di non essere amatissimo e di dare fastidio a molte persone.
 
«Come dicevo, nonostante questo ho accettato. Ti parlo con franchezza perché hai praticamente la stessa età di mia figlia e perché ti ho conosciuto da bambino e conosco tua madre, seppur non strettamente. Ti meriti una seconda possibilità. Tutti noi la meritiamo. E mi aspetto che tu non mi deluda, Bellamy. Siamo intesi?»
 
Annuisco, attento. Non pensavo si ricordasse di me e della mia prima visita al suo ambulatorio. Nessuno si ricorda mai dettagli così insignificanti.
 
«Mi dica solo cosa devo fare» dico io. In fondo, collaborare risulta essere la via più facile. Portare a termine questa prova mi serve per andarmene finalmente dalla Correction School e, chi lo sa, magari dalla stessa Anacostia. Abigail mi osserva per un momento e poi mi sorride. Ha capito che l'aiuterò e può permettersi di abbassare la guardia almeno un po'.
 
«Per adesso, comincerai ordinando tutti gli schedari che si trovano di là» e indica la sala d'ingresso. «Non ho mai tempo per farlo e ti sarà utile come lavoro di classificazione.»
«D'accordo, comincio subito.»
 
La dottoressa mi accompagna nella stanza accanto e mi fa sedere alla scrivania. 
«Se squilla il telefono, rispondi e poi passami la chiamata sulla linea interna due, è quella del telefono dell'ufficio. Okay?»
«Ricevuto.»
«Se entra qualcuno, invece, fallo accomodare e vieni pure a chiamarmi.»
Annuisco.
«Non appena avrai finito qui, comincerai nell'assistermi. Affiancherai Clarke e farai quello che lei ti dirà di fare. Dopo di che, forse potrai aiutarmi direttamente, senza la sua intermediazione, dipende da come te la cavi.»
«Va bene» rispondo solo. Penso a Clarke Griffin. Non le ho mai parlato, da quando è arrivata alla Detention. Certo, io e Murphy e gli altri le abbiamo combinato qualche scherzo, ma erano tutte cose innocenti. 
 
All'improvviso ricordo di averla vista l'ultima volta alla festa che Octavia ha organizzato a casa di Lincoln, il suo ragazzo. Se ne stava da sola, in disparte e ogni tanto chiacchierava con mia sorella o con qualche altro presente. Non da confidenza a nessuno e credo che in questo mi assomigli molto.
 
«Per qualsiasi chiarimento o domanda, io sono di là. Su quel mobile trovi del caffè, prendine pure quanto vuoi. Buon lavoro, Bellamy.»
Abigail Griffin mi lancia un sorriso e sparisce oltre la porta dello studio medico. Io osservo il primo schedario e sospiro.
 
 
* * *
 
 
{Clarke}
Scendo le scale di casa velocemente, una pila di garze appena lavate stretta fra le braccia. Il solito cicaleccio proveniente dallo studio medico comincia a farsi più intenso. So già che mi aspetterà una giornata piena, oggi. Lo sento dalle voci che arrivano alle mie orecchie e da quella più alta di mia madre che da indicazioni.
 
Spalanco la porta che collega l'ambulatorio alla nostra abitazione al piano di sopra e scopro che quello che all'apparenza mi era sembrato un piccolo caos è in realtà soltanto la famiglia Morgan, che ha accompagnato il più piccolo di casa a fare il vaccino. Tutti e sette i Morgan affollano la piccola sala d'attesa. Individuo mia madre in mezzo alla mamma e alla nonna del piccolo, che sorride in piedi accanto a loro. Il bimbo si tiene una mano sulla spalla, quindi vuol dire che ha già fatto la puntura, ma non sembra dare segni di fastidio. È sempre stato coraggioso. 
 
Dapprima non lo noto. È soltanto una presenza ai margini del mio campo visivo, una presenza che all'inizio tendo ad ignorare. Poi gli lancio un'occhiata. Sta in piedi "dietro" la scrivania, le mani su alcuni fogli, e osserva la scena. Bellamy Blake.
 
Forse captando il mio sguardo, si gira verso di me. Stringo forte le garze al petto. Cosa ci fa qui Bellamy Blake? Guardo mia madre, che sta salutando i Morgan, che si avviano rumorosi verso l'uscita. Si volta e incontra i miei occhi sbarrati, la mia aria interrogativa e sorpresa, quasi scocciata. 
 
«Bellamy starà con noi per due mesi, per la sua prova finale. Bellamy, conosci mia figlia Clarke, vero?»
 

 
NOTE
  •  La citazione iniziale l'ho trovata su Google, non so a chi sia attribuita. Se qualcuno lo sa, sarei felice di specificarlo qui nelle note; il titolo è liberamente tratto da una più ampia citazione di William Ernest Henley e significa letteralmente "maestro del fato/capitano dell'anima".
  • La frase citata da Clarke, "le coincidenze sono le cicatrici del destino", è tratta dal bellissimo "L'ombra del vento" di Carlos Ruiz Zafon.


Ebbene, ce l'ho fatta. Sono finalmente riuscita a scrivere e postare il secondo capitolo. Avevo promesso notizie dopo il mio rientro dalla Francia il 17 febbraio, ma per un po' ho sofferto di quella diffusa forma di malattia che si chiama "malanno da post rientro". Insomma, mi mancava Parigi e non riuscivo a scrivere una riga. Inoltre sto lavorando alla revisione e riscrittura di una long sulla New Generation di Harry Potter e sono SOMMERSA. Per cui vi chiedo scusa. Spero di essermi fatta perdonare e che il capitolo vi sia piaciuto. Nel finale assistiamo al primo incontro faccia a faccia fra i nostri eroi, proprio all'ambulatorio Griffin. Nel prossimo capitolo ovviamente avremo la loro prima interazione. 
Detto ciò, vi saluto e vi lascio come sempre il link al mio gruppo Facebook dedicato agli aggiornamenti/spoiler:
https://www.facebook.com/groups/159506810913907/

A presto, Marti.

ps ringrazio tutte le belle anime che hanno recensito lo scorso capitolo: lilyhachi, Ally M, Emma Bennet, Helena Kanbara, MelBlake e tfpeel. E tutti coloro che leggono silenziosamente <3
   
 
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