Videogiochi > Final Fantasy VII
Segui la storia  |       
Autore: Red_Coat    11/03/2015    5 recensioni
Questa è la storia di un soldato, un rinnegato da due mondi. È la storia del viaggio ultimo del pianeta verso la sua terra promessa.
Questa è la storia di quando Cloud Strife fu sconfitto, e vennero le tenebre. E il silenzio.
Genere: Angst, Guerra, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cloud Strife, Kadaj, Nuovo personaggio, Sephiroth
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Più contesti
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'L'allievo di Sephiroth'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CONNESSIONE …

Midgar
27 settembre 1996

9 anni, 14 notti e 13 giorni dopo la morte di Mikio Inoue, non c’era più nulla da dire in merito. A nessuno importava, a nessuno sarebbe mai più importato.
Un altro giorno era finito ormai da un paio d’ore salutando l’arrivo della mezzanotte, e la città continuava a muovere i suoi tentacoli nel buio nero del suo cielo d’acciaio, mentre la vita in essa scorreva forse anche troppo velocemente nel caos e nella confusione più totale. In superficie, oltre il piatto, sfilando furtivamente per le strade le poche figure ancora in giro a quell’ora apparivano e scomparivano dai vicoli come fantasmi venuti dal nulla, anime alla ricerca di un perdono. E nel mentre, la vita si tormentava nei meandri più scuri dei bassifondi, cercando conforto e spensieratezza in mezzo al degrado e al fumo velenoso di alcool e sigarette.

Bassifondi del settore 5
Ore 03.45 del mattino.

L’aria nel locale era appesantita dalla spessa foschia delle macchine per il fumo, che si mescolava a quello vero provocato dal tabacco e dagli spinelli sottobanco. Luci psichedeliche multicolore guizzavano sulla marmaglia che si accalcava ancora attorno ai banchi del bar e sulla pista da ballo, dove i più esibizionisti continuavano a lanciarsi in coreografie sempre più spericolate reggendo in mano una bottiglia di un qualche superalcolico o lasciandosi andare in movimenti decisamente troppo spinti con il proprio partner, mentre un’assordante e cacofonica musica martellante risuonava dagli altoparlanti posti in alto su impalcature d’acciaio, confondendo ancora di più i sensi e la mente stanca.
Alcuni ragazzi a bordo pista, palesemente zuppi di alcool, si divertivano ridendo a crepapelle di un altro loro compagno che - stringendo tra le labbra una sigaretta – con aria da figo si strusciava contro l’ennesima ragazza rimorchiata quella sera, esibendosi assieme a lei in una serie di indescrivibili movimenti provocatori e scoccando occhiolini ammiccanti agli spettatori. In particolar modo si rivolgeva ad un altro ragazzo, appollaiato su uno sgabello del bar con le gambe divaricate, profondissimi occhi cerulei lucidi d’alcool, una smorfia divertita e strafottente sulle labbra sottili e la mano sinistra sul bancone a stringere un bicchiere colmo di un liquido marroncino scuro. L’ennesimo cocktail.
Di bell’aspetto, viso allungato, pelle chiarissima, folti capelli corvini rasati sul lato destro della testa e sparati all’insù sul resto del cranio, una lunga frangia che dal lato raso partiva a sfiorargli la fronte fino a scemare appena sull’occhio destro, e folte sopracciglia ben curate. Aveva 16 anni ma ne dimostrava appena uno in più per la sua aria cupa, e il suo vestiario oltre a dimostrare una personalità aggressiva e ribelle rivelava di lui anche un altro paio di aspetti: La vanità e un forte egocentrismo.
Indossava una semplice maglietta color ocra sopra un paio di jeans neri, ma a risaltare di più era la sua giacca in pelle nera, dotata di spalline borchiate che lo facevano assomigliare ad un ufficiale di un qualche esercito e accessoriata con qualche catena argentata scintillante appesa sulla spalla destra, cerniere dipinte con la medesima vernice cucite sui lembi del risvolto e aperte sugli orli sinistri delle maniche, arricciate fin sotto i gomiti per lasciare scoperte delle braccia lisce e morbide e mani affusolate ricoperte di anelli di ogni tipo e dimensione. Per concludere il look, il giovane aveva inserito la parte finale dei jeans dentro robusti anfibi in pelle, ovviamente neri e ricoperti da cinturini sul lato davanti, quello dell’allacciatura. Sul polso destro portava un orologio elettronico nero che non aveva mai avuto neppure il minimo interesse a guardare, e tutto l’insieme era curato fin nei minimi dettagli, con una precisione quasi maniacale che rendeva impossibile credere al completo disinteresse che manifestava verso gli sguardi che ogni ragazza nella sala non aveva mai smesso di lanciargli, dal preciso attimo in cui era entrato nel locale. Continuava fumare a e bere, portandosi con nonchalance il bicchiere colmo di alcool alla bocca e buttando all’indietro la testa trangugiando tutto come fosse acqua fresca. Lo fece anche in quell’attimo, dopo aver risposto con un ghigno all’occhiata eccitata dell’amico, per poi sbattere nuovamente il boccale sul banco e schioccare la lingua al sapore amaro del cocktail fissando soddisfatto il soffitto.
Era distrutto, in tutti sensi. Aveva la nausea, pesante e forte, la mente e la vista ottenebrate dagli incalcolabili bicchieri di quella roba che aveva continuato a mandar giù nel disperato tentativo di spegnere i ricordi, i vestiti che puzzavano terribilmente di fumo e un forte magone adagiato in fondo al petto a fare da compagnia all’atroce mal di testa che aveva preso da circa un quarto d’ora a trapanargli la parte centrale del cranio e ora si era esteso a tutto il cervello.
Come se questo non bastasse, quell’ambiente aveva iniziato a dargli sui nervi, l’ultimo dei due pacchetti di sigarette che aveva portato con se era finito circa una mezz’ora addietro e l’aria si era fatta talmente densa e pesante da rendergli quasi impossibile continuare a respirare. Tabacco.
Aveva assolutamente bisogno di aria fresca e tabacco, si ritrovò a pensare curvo sul legno lucido del bancone, e stava valutando seriamente l’idea di uscire nell’aria gelida della notte quando sullo sgabello rosso di fronte a lui si materializzò la figura di una ragazza.
Capelli corvini come i suoi, tagliati in un caschetto sbarazzino e divertente che le sfiorava appena gli zigomi dolci del viso, e grandi occhi viola che lo fissavano con malizia e curiosità. “Eccone un’altra” pensò, alzando gli occhi al cielo e voltandosi per un istante dall’altro lato per ordinare un altro cocktail, che giurò a sé stesso stavolta sarebbe stato l’ultimo.

<< Oltre a non provarci … >> esordì lei << Sei l’unico ragazzo che conosco a rifiutare perfino
le avances! >> concluse, scuotendo il capo e sorridendo

Le labbra del giovane s’incresparono in un ghigno, e finalmente si decise e rivolgerle la sua attenzione. La squadrò, e si convinse che non sarebbe stato per nulla male concludere la serata con una come lei. Era molto bella e fisicamente mozzafiato, vestiva con una minigonna di pelle bianca che arrivava appena a coprirle i glutei, ed un top smanicato del medesimo colore. Ai piedi calzava un paio di anfibi a stivaletto neri, borchiati su un lato, e la pelle delle sue gambe e delle sue braccia era d’un rosa pallidissimo. Doveva essere anche morbida, e profumata di rose.
Avvenente e sofisticata, ma doveva essere poco più grande di lui, forse appena un paio di anni

<< Non tutte soddisfano i miei standard … >> le rispose, afferrando svogliatamente il nuovo
bicchiere che il barista gli aveva messo davanti e trangugiando un grosso sorso del
contenuto

La ragazza s’illuminò ammiccante, e scuotendo la sua chioma lucida chiese suadentemente

<< E io, li soddisfo? >>

Il giovane le lanciò un’occhiata distaccata, poi tornò a finire il bicchiere e dopo aver schioccato la lingua ribatté con un ghigno

<< Forse … hai una bionda, per caso? >> le chiese poi, dirottando repentinamente la
conversazione

Non era da molto che frequentava quegli ambienti, giusto un paio di anni, ma ci aveva messo relativamente poco a capire come funzionava la baracca, ed era così che gli piaceva fare, giusto per mantenere il controllo della situazione e rimanere con la sua dignità, seppure da ubriaco tendeva naturalmente a perdere di molto i freni inibitori. Ecco perché di rado accettava le avances, soprattutto quando era sbronzo. Tirarsela era la prima mossa per risultare attraenti, questo valeva per entrambi i sessi. E poi non gli piacevano le donne con troppa iniziativa.
Lei si sciolse da quella posa svenevole, e alzando in aria gli occhi in una finta smorfia seccata estrasse una sigaretta di quelle bianche e lunghe da una tasca interna dello stivale destro e gliela porse

<< Ottimo metodo! >> sorrise lui, accettandola

Poi tirò fuori un accendino dalla tasca destra della sua giacca, e dopo essersela accesa inspirò profondamente la prima boccata, riuscendo a non tossire e inebriandosi della sensazione di calma e rilassatezza che all’istante lo pervase. Era quella la sensazione che cercava.
Quel vuoto, l’assenza di pensieri ed emozioni che seguiva l’ultima sigaretta della serata passata a sbronzarsi. Poco importava se dopo, puntualmente, si ritrovava riverso sulla tazza del water con la testa in fiamme e il corpo completamente privo di forze. Bastava riuscire a non pensare, e lui non era bravo a non farlo.

<< Allora … >> iniziò nuovamente lei carezzandosi una ciocca di capelli, poi però
s’interruppe, alla ricerca di qualcosa

Il giovane sorrise

<< Victor … >> rispose << Victor Osaka.>>

La giovane annuì, compiaciuta e soddisfatta

<< Victor … >> ripeté, scandendo bene le sillabe e facendo somigliare la erre finale ad un
bieco ruggito, mentre lui la osservava divertito cercare di arrivare al dunque << Io sono
Mila. >> disse infine
<< E vorresti combinare qualcosa con me, stasera? >> le chiese quindi lui, rivolgendole un
lungo e vorace sguardo, mentre nuovamente i lembi delle sue labbra s’increspavano
impercettibilmente all’insù

Lei scosse le spalle, e sfiorandosi il mento dolce con le lunghe dita affusolate alzò il volto al soffitto, chiudendo gli occhi.

<< Potresti accontentarmi? >> chiese poi, tornando infine a guardarlo come se quella fosse
la conversazione più normale del mondo

Il giovane Osaka si alzò dalla sedia dov’era appollaiato, tirò un'altra boccata dalla sigaretta e porgendole una mano le rispose con sufficienza

<< Vediamo che si può fare. >>


 
***

Bassifondi settore 5, strada
Ore 04.15 del mattino

L’aria in quella notte di settembre si era fatta gelida, talmente tanto che ad ogni respiro una densa nuvola di vapore appariva e scompariva nel nero della notte. Le strade erano deserte, rimanevano solo qualche guardia cittadina a pattugliarne i vicoli bui e, a pochi metri da uno dei tanti locali notturni che aveva appena chiuso i battenti, un gruppo di ragazzini ubriachi, da qualche secondo concitati in un’accesa rissa.

Il ragazzo stava per rialzarsi da terra, un occhio nero e un dolore sordo al petto, quando un altro pugno del suo avversario lo mandò completamente al tappeto. Debole e male assestato, per via di tutto l’alcool aveva in corpo, ma tutti sapevano che non avrebbe dovuto provocarlo, perché la forza che i suoi muscoli possedevano pur non essendo allenati al combattimento, era spaventosamente alta. E lui più di tutti, avrebbe dovuto ricordarselo. Fu l’unica cosa che riuscì a pensare, mentre con un gemito si accasciò a terra rotolando a pancia in su, il sangue che cominciava a fuoriuscire dal setto e una sensazione di asfissia stretta in gola. Lui più di tutti.
Perché chi l’aveva conciato così era Victor Osaka, il suo migliore amico.
O almeno, così poteva classificarsi la loro relazione, visti i dodici anni vissuti a giocare nello stesso quartiere del settore 8 di Midgar, dov’erano entrambi nati.

<< Ora non parli più, eh bastardo? >> ringhiò il giovane Victor fuori di sé, mentre un paio di
altri suoi amici cercavano di trattenerlo riuscendo a stento a contenere la forza delle sue
braccia

Non era sempre stato così.
All’inizio, quando erano piccoli, anche loro giocavano ai Soldier come tutti i bambini nati sotto il segno della Shinra inc.
Victor, allegro e riflessivo al contempo, chissà perché voleva sempre fare il first class. I loro ricordi d’infanzia erano pieni zeppi di pomeriggi passati a ridere e scherzare spensierati, magari facendosi qualche dispetto ogni tanto per poi riderne subito dopo. Poi, un giorno dei suoi otto anni, la vita di Victor era stata sconvolta da una perdita enorme, e quel bambino spensierato aveva iniziato a scurirsi, a farsi sempre più incline al pianto e al riso incontrollato, soggetto a cambi repentini di umore e volte in cui anche solo parlare di ciò che lo angosciava aveva unicamente l’effetto di farlo uscire fuori di sé dalla rabbia. Le cose poi erano peggiorate ulteriormente con l’arrivo dell’adolescenza, fino a portarlo a ciò che era in quel momento, un sedicenne cupo e nervoso con una forza speciale nei muscoli e ira e frustrazione a battergli in petto, al posto del cuore.
Era così da nove anni ormai. Da quando Mikio Inoue se n’era andato.
La Shinra stava completamente distruggendo il pianeta, molta gente odiava i SOLDIER e per questo anche loro, dopo aver passato praticamente tutta un’infanzia ad emularli, si sentivano ora autorizzati a schernirli e disprezzarli, tanto per darsi un tono. Ma questo non doveva accadere di fronte a Victor Osaka, perché Mikio era stato suo nonno. Un SOLDIER 1st class. E insultare loro, equivaleva ad insultare la sua memoria. Uno sbaglio imperdonabile soprattutto per chi poteva dire di conoscerlo molto bene. Come lui, Kenta Nishisaki. Fosse stato sobrio e nel pieno possesso delle sue facoltà mentali non avrebbe mai rischiato tanto. Ma non lo era stato, dalla sua bocca era uscito un insulto e il gelo era calato nella comitiva prima che quel pugno lo atterrasse con violenza impressionante sull’asfalto scuro. Aveva tentato di difendersi, ma ovviamente non aveva potuto vincere contro una simile forza ed ora, mentre era al tappeto pensò che avrebbe potuto ritenersi fortunato se a salvarlo fossero intervenuti quelli del Reparto Sicurezza che pattugliavano la zona. L’unica volta in cui avrebbe ringraziato la Shinra di esistere.

<< Hey, che succede lì! >> urlò qualcuno in lontananza
<< C***o, le guardie! >> mormorò di rimando uno dei due ragazzi che fino a quel momento era
stato impegnato a trattenere Victor per il braccio destro, mollandolo e dandosi alla fuga

Kenta sospirò sollevato, e barcollando si rimise in piedi facendo per darsela a gambe come avevano fatto tutti gli altri. Ma proprio quando si voltò attuare i suoi piani di fuga, una mano lo bloccò costringendolo a voltarsi per poi afferragli il collo e stringerlo sempre di più, fino a mozzargli il fiato. Gli occhi intrisi di rabbia di Victor Osaka si puntarono dritti nei suoi, mentre agitandosi cercava disperatamente di staccare quella presa dal collo e di resistere al forte dolore che ne conseguiva e che gli offuscava perfino la vista

<< Io non ho paura, Kenta! >> sibilò quindi Osaka, e negli istanti che seguirono, nella nebbia
che stava iniziando a spegnere i suoi sensi il giovane Nishisaki fu quasi certo d’’intravedere
un ghigno sadico dipingersi sul volto del vecchio amico

Poi la voce che li aveva interrotti poco prima si fece di nuovo sentire, stavolta più vicina e chiara, e mentre uno scalpiccio di stivali sopraggiungeva, Kenta sentì i suoi occhi chiudersi e il respiro cessare all’istante divorato dal buio. Udì ancora quella voce che intimava a Victor di mollarlo, sentì la mano che stringeva la presa, poi il suo collo fu libero e lui cadde come un sacco vuoto per terra. E tutto tacque, all’istante.
***
Settore 8, casa degli Osaka
Ore 04.56 A.M.

Yoshi Osaka smise di fissare torvo il paesaggio fuori dalla finestra del soggiorno e si alzò immediatamente in piedi, quando il suono del campanello riecheggiò nel silenzio della notte. Avanzò deciso verso la porta, mentre nel frattempo la luce della camera da letto si accese e da essa uscì precipitosamente sua moglie Erriet, aggiustandosi la vestaglia blu cobalto e raggiungendolo con un’espressione preoccupata in volto. Solo quando entrambi furono sulla soglia, l’uomo girò un paio di volte la chiave ed aprì.
Sulla soglia apparve la sagoma di un uomo della Sicurezza, nella sua uniforme blu e rossa con quel casco sempre piantato in testa a proteggerne l’identità e a rendergli migliore la visuale per mezzo dei raggi infrarossi. Stretto nella sua morsa c’era suo figlio, con lo sguardo basso e torvo, gli occhi lucidi, due profonde occhiaie, il naso insanguinato e vari piccoli lividi sulla faccia e sulle mani, le cui nocche erano macchiate di sangue. Yoshi gli lanciò uno sguardo carico di ostilità e rimprovero, mentre il soldato glielo restituiva informandolo

<< Stava tentando di ammazzare un suo coetaneo. Lo tenga al guinzaglio la prossima volta,
intesi? >>

L’uomo sospirò, afferrando il figlio per un braccio e spingendolo dentro con uno strattone per poi rivolgergli un altro sguardo di rimprovero. ‘Oltre al danno la beffa! Ora facciamo i conti, ragazzino! ’.

<< La ringrazio agente, faremo in modo che non accada più! >> rispose, malcelando il
disappunto
<< Me lo auguro! >>

Detto questo, si salutarono. Yoshi si voltò, lasciando che la porta sbattesse alle sue spalle, e puntò uno sguardo infuocato verso suo figlio, a cui una preoccupata Erriet stava prestando i primi soccorsi tra mille moine

<< Santo cielo, Victor! >> esclamò la donna, prendendo con una mano il mento del giovane che
si ostinava a non voler mostrare i danni subiti ed esaminandogli le ferite << Tesoro, cos’hai
combinato? >> gli chiese << Chi ti ha conciato così, eh? >>
<< Hai sentito la guardia, no? >> rispose Yoshi, al limite della sopportazione << Avrà fatto di
nuovo a botte con quei nulla facenti dei suoi amici, Erriet. E non c’è neppure bisogno di
chiedere il perché, mh? >> concluse rivolgendosi al giovane

Per tutta risposta, quello abbassò di nuovo il volto in una cupa ammissione di colpa e gli lanciò uno sguardo infuocato di sottecchi, senza proferir parola.

<< Senti che odore! >> fece poi la donna sempre più preoccupata, dando prova di non aver
neppure ascoltato le insinuazioni del marito << Sei pallidissimo! Ma dove sei stato fino a
quest’ora? >> chiese di nuovo, toccandogli la fronte

Victor non rispose, ma liberandosi dalle attenzioni soffocanti di sua madre corse in fretta a vomitare nel lavandino della cucina, mentre la donna gli carezzava preoccupata la schiena e continuava a manifestare la sua preoccupazione invocando il cielo con sgomento. Di rimando, Yoshi voltò il viso verso la finestra e sforzandosi d’ignorare il rumore del sangue del suo sangue che rovesciava tutto il contenuto dei cocktail che aveva trangugiato nel lavabo della cucina

<< A sprecare i miei soldi con l’alcool. >> rispose alla domanda di sua moglie, con un
contrariato brontolio

Un altro conato di vomito. Sulle labbra dell’uomo si dipinse una smorfia di palese disgusto, mentre chiudendo gli occhi scosse la testa, deluso ed esasperato

<< Va al diavolo, pa’! >> mormorò il ragazzo con le ultime forze rimaste, reggendosi al lavello

Yoshi si voltò di scatto, avvampando. Ma prima che potesse dire qualcosa, Erriet si voltò verso di lui e in tono supplicante gli chiese

<< Lascialo perdere, per favore. Ne parleremo dopo, ora non è in grado di affrontare una
conversazione! >>
<< Non sarà mai in grado, Erriet! >> sbottò infine l’uomo, sventolando accusatorio una mano
verso il figlio che si ostinava a voltargli le spalle, piegato in due sul lavello << Perché
continuerà a sprecare la sua vita così fino a rimanerci secco, e nel frattempo tu seguiterai a
difenderlo! >>

Erriet sospirò spazientita

<< Non lo sto difendendo! >> spiegò poi, in tono calmo << Sto soltanto dicendo che adesso non
è il momento di parlarne. È imbottito di alcool, ha la mente annebbiata, sarebbe comunque
inutile discutere. Lasciamo che torni in sé, poi affronteremo seriamente il problema, insieme.
Come persone civili! >>

Ma Yoshi non aveva intenzione di fargliela passare liscia. Non stavolta. Ignorando i buoni propositi della moglie, la superò e portandosi dietro il figlio lo strattonò costringendolo a guardarlo

<< Ma cosa credi, che tua madre non stia soffrendo per aver perso suo padre?>> sbottò,
attirandosi lo sguardo infuocato di entrambi << Anche lei prova dolore, lo sai? >>

Victor tremò, e sentì la rabbia e il dolore innescare la miccia.

<< Yoshi! >> sbraitò la donna, ammonitrice
<< Se un egoista e un viziato! >> continuò inflessibile l’uomo, ignorandola << Non puoi
continuare ad approfittare così del bene che ti vuole! >>

E mentre Erriet assisteva allibita, fu la volta di Victor che inalberandosi gli ringhiò di rimando

<< E tu sei un idiota, se pensi ch’io abbia perso anche solo un mezzo minuto ad ascoltarti! >>

Un secondo dopo, la guancia gli bruciò spaventosamente e la sua bocca si dischiuse in un’espressione stupita, mentre un sonoro ceffone da parte di suo padre gli arrivava dritto in faccia con una violenza tale da costringerlo a voltarsi per un istante mascherandosi il volto con una mano

<< Adesso basta! BASTA! Tutti e due! >> sbottò quindi Erriet, respingendo il marito e
frapponendosi tra di loro che oramai continuavano a lanciarsi sguardi carichi
d’astio << Victor, siediti immediatamente! >> ordinò prendendolo per un braccio e
spingendolo verso la poltrona poi, mentre il ragazzo obbediva in silenzio, si rivolse al
consorte << Yoshi, mi servono del disinfettante e una scatola di bende. Scendi a
comprarmeli e non tornare fino a che non ti sarai convinto a tenere la bocca chiusa! >>
disse, in un tono che non ammetteva repliche << Immediatamente! >> aggiunse poi, in un
sibilo

L’uomo lanciò un’occhiata irata prima a lei, poi al ragazzo che ora lo fissava con acrimonia coprendosi ancora la guancia con la mano destra. Lasciò cadere ancora per qualche minuto il suo sguardo severo e contrariato su quest’ultimo, poi sospirò e ribadì innervosito rivolgendosi alla moglie

<< Mentre tu lo assecondi e lo vizi, lui continuerà a prenderti in giro! >>
<< Fuori di qui! >> fu la risposta irata della donna, che subito dopo aprì la porta e lo spinse
fuori mettendogli in mano qualche gil per la commissione che gli aveva affidato

Poi la porta si chiuse con violenza e Yoshi rimase fuori al gelo, con indosso solo i vestiti della giornata precedente che per lui non si era mai conclusa, visto che per colpa di quel marmocchio viziato di suo figlio era stato costretto a rimanere alzato quasi fino all’alba.
E così, non potendo far altro che obbedire, voltò i tacchi e sbruffando si preparò ad una bella passeggiata al gelo per le strade di Midgar, per riuscire a sbollire. Tanto alla fine vinceva sempre lei.
Che si sarebbe accorta troppo tardi di che razza di persona era il figlio che avevano cresciuto.

INTERRUZIONE DATI …


Toc.
Toc. Toc.

Tre colpi delicati e incerti sullo stipite delle porta in legno della mia stanza, chiusa ermeticamente a chiave. Riesco a sentirli appena, oltre il muro che in questo preciso istante mi divide dal mondo esterno.

Toc. Toc. Toc. Toc.

Altri quattro colpi, stavolta più rapidi e convinti, mi giungono ovattati. Poi la voce di mia madre

<< Victor, tesoro. Stai bene? >>

‘Ho bisogno di una sigaretta! ’ penso, mentre emetto un singulto cercando senza risultati di tornare a respirare. Voglio una sigaretta! Ora! Non me ne frega niente s’è passata un’eternità di tempo da quando ho smesso con quella roba, né della promessa che ho fatto alla donna che sta bussando alla mia porta. La mia mente è ancora invasa da quelle immagini terrificanti, il mio corpo si erge in posizione d’attacco e la mia mano sinistra ha afferrato l’elsa della mia katana e ora la sta stringendo così forte da tremare. Non voglio che Zack muoia. Voglio uccidere Cloud. Zack non deve morire, io ucciderò Cloud. Prima che sia troppo tardi. Prima che succeda. Prima che la bomba esploda.
Tic, tac. Tic, tac. Tic, tac.
Sentitela! Riuscite a sentirla? Continua a ticchettare. Sempre più vicina, sempre più forte, sempre più …

<< Victor! >>

D’istinto mi volto.
Stavolta la voce è più chiara, acuta. Sembra quasi uno strillo angosciato. Dovrei rispondere, far sentire che ci sono e che ho la situazione sotto mano. Ma riesco solo a sentire le mio pupille tornate feline che si dilatano per la paura, il petto che sobbalza su e giù in un sussulto e il guanto in pelle nera scricchiolare stringendo l’elsa della mia arma. E inizio a chiamarmi anche io.
Disperatamente, affannosamente. VICTOR! VICTOR! Torna in te! Controllati! PER L’AMORE DEL CIELO, CONTROLLATI O ANDRA’ A FINIRE COME L’ULTIMA VOLTA!
Ma non posso! Non posso perché ciò che ho visto è troppo.
Orribile, raccapricciante, atroce. E deve ancora succedere.
La nebbia che prende fuoco, le urla e i lamenti, e la Buster Sword immersa in una pozza di sangue. ‘Non deve succedere! Non deve e NON ACCADRA’! ‘
Dovessi trucidare un intero villaggio pur di salvargli la vita, farò in modo che Zack rimanga qui, con me, con noi. Qualsiasi sia il prezzo da pagare, ci riuscirò stavolta! Non ricadrò in quel baratro.
Sobbalzo, perché all’improvviso la maniglia della porta ha preso ad agitarsi freneticamente

<< Victor! >>

La voce prepotente e tonante di mio padre tuona da dietro il legno.
Mi sembra quasi di vedere il suo sguardo severo ed incupito, e sono sicuro che se solo non ci fosse la porta a dividerci verrebbe qui e mi mollerebbe un ceffone per intimarmi di smetterla, come faceva quando ero appena un adolescente. Adesso mi servirebbe davvero, uno di quei ceffoni. Ah, se mi servirebbe!
‘Merda, papà! sfonda quella c%&*o di porta, ti prego! Sfondala dannazione, sono totalmente privo del controllo! ’.
Ma sono passati già un paio di minuti, quando m’accorgo di essere ancora solo nella stanza e di non aver ancora dato una risposta. Così, rendendomi conto che mio padre non verrà qui a salvarmi con le sue drastiche maniere, costringo me stesso all’ordine e cerco di tornare lentamente in me.
Inizio col muovermi, ma è un’impresa titanica, perché ho i muscoli talmente irrigiditi che ad ogni minimo movimento inizio a tremare spaventosamente per lo sforzo, e sono allibito, perché all’improvviso è come se il mio corpo non fosse più mio. Non riesco a controllarlo, sono completamente in balia della mia mente e delle sensazioni che quel sogno terrificante mi ha lasciato. Ma devo rispondere, anche se non ho più aria nei polmoni.
Devo tornare in me, devo rientrare in quello ch’è Victor Osaka, in ciò che mi sono ripromesso di essere. Dannazione, non posso permettermi più di perdere il controllo come mi succedeva da adolescente!
Continuo a ripetermelo, ad ammonirmi con vigore mentre un gesto dopo l’altro sussultando inizio a riappropriarmi delle mie membra impazzite. Prima una gamba, poi l’altra, scuoto piano la testa e cerco di scacciare quelle immagini regolarizzando il respiro. Il braccio destro, quello sinistro e infine mi costringo a spalancare le dita della sinistra, per lasciar andare la mia arma.
Ma non è così facile. I muscoli delle dita e del braccio oppongono resistenza, ricominciano a tremare violentemente. La voce di mia madre si fa sentire nuovamente alla porta.
Sospiro, traendo lunghe boccate d’aria, e alla fine riesco finalmente a dire

<< Sto bene! >>

Non sono molto convincente. La mia voce è strozzata, gemente.

<< Sei sicuro? >> mi chiede infatti lei, premurosa

Ma riesce solo a irritarmi ancora di più

<< Si! >> sbraito, agitando il braccio che stringe la katana ed accorgendomi solo dopo di esser
stato nuovamente troppo brusco, quasi sull’orlo di una crisi di nervi

Mia madre tace per qualche secondo dietro la porta, e pentendomi subito per il tono che ho usato aggiungo la prima cosa che mi passa in testa e che possa suonare come una scusa a quegli interminabili minuti di silenzio

<< Ho solo bisogno di farmi una doccia! >>

Mi guardo allo specchio. Una doccia.
Non sarebbe male come idea, davvero no. Ho ancora indosso la divisa da 1st, l’odore della polvere da sparo e dello zolfo di Ifrit, del sudore adrenalinico della battaglia che ho combattuto a Junon. Dove ho perso un uomo … tranciato in due da una orrenda copia di Genesis corazzata, come fosse un panetto di burro.
Il suo sangue.
Il dolore.
La rabbia.
Ed ecco che il respiro mi si mozza nuovamente in gola e la mano che non si è mai staccata dalla katana ritorna a stringerla ancora più forte. Il rumore della pelle del guanto che scricchiola e il sapore dolciastro del sangue che improvvisamente torna a riempirmi la bocca mi aiutano a risvegliarmi ancora una volta.
Scuoto rabbiosamente la testa, e nel mentre quasi senza pensarci lascio andare la katana indietreggiando. Basta! Decido dentro di me, mentre sento il picchiettio metallico della lama schiantarsi al suolo e adagiarsi fino a fermarsi del tutto.
Solo allora, quando il silenzio è tornato a regnare nella stanza e lo specchio mi restituisce di me l’immagine così sconsolante e triste di un soldato sull’orlo di cadere in ginocchio perché completamente privo di forze, riprendo il controllo di me stesso, mi strappo di dosso gli spallacci della divisa e gettandoli sul letto avanzo verso la porta situata a pochi passi dalla finestra, e spalancandola accedo al piccolo bagno di cui la stanza è dotata, pronto a levarmi di dosso quell’odore nauseabondo.
Di morte, di incubi e di ricordi raccapriccianti.
***

Sono solo adesso. Veramente solo.
Sotto la pioggia scrosciante e gelida dell’acqua ch’esce dal soffione appeso a qualche centimetro sopra la mia testa, ogni ricordo o pensiero se ne va via da me, il ticchettio si confonde col rumore delle gocce d’acqua che si schiantano sul fondo metallico della vasca e i miei muscoli tornano a rispondere agli stimoli, tremando e sciogliendosi sempre più col passare dei minuti. Rabbrividisco di piacere mentre l’acqua quasi ghiacciata penetra la mia pelle, la mia carne, e avanza incontrastata fin dentro alle mie ossa, purificandole da ogni altro dolore. Perfino la mia mano destra adesso sembra aver ripreso vigore. Perché il freddo anestetizza, annulla, cancella e arresta qualsiasi dolore. Un po’ come il fumo delle sigarette, ed è per questo che da quando ho smesso d’imbottirmi di quella roba o di ricorrere all’alcool questo è l’unico metodo che ho a disposizione per riprendere il controllo di me stesso. Un tempo, quando l’astinenza era ancora forte, facevo anche più d’una doccia gelata al giorno per darmi una scrollata e ricordare a me stesso che non ero più quel ragazzino sbandato che affogava il suo dolore nell’alcool e nel tabacco. Poi mi sono arruolato, ho avuto un nuovo motivo per andare avanti e la situazione ha continuato a migliorare. Fino a questo giorno.
Sono passati tre anni e mezzo dall’ultima volta in cui mi sono ritrovato in queste condizioni, in cui ho ascoltato lo scrosciare di questa pioggia gelida anestetizzarmi il cuore per evitare di crollare nuovamente, e stavo cominciando davvero a credere di essere riuscito a venirne fuori. Ma … è bastato un sogno … la prospettiva di una vita senza … il sorriso di Zack … le sue parole … una vita senza … di lui. Ho visto ciò che sono realmente.
Ciò che Zack e SOLDIER hanno fatto per me.
Da quando ho incrociato la loro strada, la mia vita è cambiata, io sono cambiato. In peggio forse, ma è sicuramente molto meglio di ciò che sono stato. E Sephiroth è stato la mia ricompensa.
Perciò … non posso ricadere in quel baratro. No, non posso.
Non deve accadere nulla di ciò che ho visto. Io farò in modo che non accada. Non so come, non so neppure quanto tempo ancora dovrò aspettare perché il mio sogno inizi a manifestarsi nella realtà, né in che modo lo farà. So soltanto che le cose non cambieranno. La storia si fermerà, e Zack rimarrà tra noi. Con me. Perché io non starò qui fermo ad aspettare che accada come ho fatto con Angeal. Stavolta agirò.
Butto all’indietro la testa, lasciando che la cascata d’acqua mi scorra direttamente in viso, e chiudendo gli occhi passo la mano sinistra nei capelli, usando le falangi delle dita come fossero i denti di un pettine e misurandoli nella loro lunghezza, mentre lascio che le lacrime inizino a solcare il mio viso mescolandosi all’acqua della doccia e scivolando con esse sulla mia pelle gelate e nuda fino a scomparire nel sifone. Sono cresciuti troppo in fretta. Come me.
Rimango così a lungo. Lascio che il mio bisogno di piangere si sfoghi, senza impedirlo come mi ha chiesto di fare Zack, e nel frattempo cerco di pensare al vero motivo per cui non l’ho mai fatto prima, per cui ho sempre represso questo dolore inglobandolo in una bottiglia zeppa d’alcool.
Forse … perché dopo la morte di mio nonno ho sempre cercato di fare ciò che tutti mi chiedevano: dimenticare. E il primo passo per farlo era far finta che non fosse mai accaduto.
Anche se poi, quando mi guardavo intorno nella speranza di rivedere un suo sorriso, m’accorgevo che non ci sarebbe mai più stato. Per me, per mia madre, per tutti noi … perché mio nonno se lo era preso il pianeta. Da un giorno all’altro, senza chiedere niente a nessuno. L’aveva creato e poi distrutto quando non gli piaceva più, come con un castello di sabbia. Ed era inutile aspettare che tornasse, era inutile perfino ricordarlo …
A questo punto però, sarebbe stato meglio che non fosse mai esistito, perché così almeno quei ricordi non avrebbero potuto farmi così male. O magari chissà … qualcos’altro avrebbe preso il loro posto, cambiando la mia storia e permettendomi di essere un Victor Osaka diverso, più simile a mio padre magari, più forte e ligio alle proprie responsabilità. Un Victor che non ha paura di piangere. Quello che sto diventando adesso con l’aiuto di Zack, dopo anni passati a non chiedermi nulla e a non fare domande per evitare di pensare.
Fossi nato già così … Magari non avrei avuto bisogno di deludere nessuno con i miei sbalzi d’umore e i miei vizi, e sarei stato il figlio che ogni genitore sogna di avere.
Chissà … se la vita fosse andata diversamente.
Quest’ultimo pensiero sciama rapidamente dentro di me, mentre a poco a poco riemergo dalle mie riflessioni e riacquistando coscienza sento il mio corpo avvolto da un leggero e pizzicante formicolio, e il mio animo un po’ più in pace di qualche minuto fa. Decido che può bastare.
L’acqua gelida ha fatto il suo effetto, quindi lavo il mio viso passandoci su un’ultima volta la mano sinistra e sciacquandolo abbondantemente, poi spengo il getto e afferro l’accappatoio bianco appeso alla mia destra. Mi ci avvolgo, e alzo il cappuccio sulla mia testa per poi sfregarlo contro i capelli bagnati, frizionando per bene ogni singola ciocca fino ad asciugarli quasi completamente. Quindi, mi dirigo di nuovo in camera mia.
Ho bisogno di uscire, di sfogare la forza adrenalinica presente nei miei muscoli contratti con una lunga camminata e cercare di dirottare la mia mente su qualcos’altro prima che l’incubo ritorni. Quando stavo con Hikari, al lago, c’era lei a tenermi compagnia.
Ma adesso … devo cavarmela da solo.
Così indosso nuovamente la mia solita t-shirt bianca assieme a jeans dello stesso colore, poi sostituisco gli stivali di SOLDIER con un paio di sneakers a stivaletto nere con i lacci dello stesso colore del completo, infilo il mio trench coat corto fatto di leggero pile nero e senza neanche preoccuparmi di abbottonarlo afferro dal cassetto del mio comodino uno dei vecchi guanti in pelle della divisa da 1st di mio nonno e lo indosso a coprire la brutta cicatrice della mano accidentata, mentre esco finalmente dalla mia stanza e a mia madre che si preoccupa premurosamente rispondo con un sorriso e un abbraccio, prima di afferrare la maniglia della porta d’ingresso e tirarla verso di me

<< Sto bene, davvero! >> le dico, con l’aria più rassicurante che riesco a trovare, e la vedo
aprirsi in un sorriso mentre mi accarezza la guancia << Ho solo bisogno di fare quattro
passi! >> aggiungo oltrepassando l’uscio senza neppure curarmi di lanciare un’occhiata a
mio padre e al suo sguardo severo che mi scruta dalla poltrona

Ho solo bisogno di riflettere. Di lasciare la mia katana e la mia divisa da 1st rinchiusi nel mio armadio assieme a tutti i miei doveri e le mie colpe, per darmi qualche ora di tregua e progettare un piano per ciò che ho in mente. Cambiare la storia. E salvare Zack, prima che sia troppo tardi per entrambi. Anche se non so ancora come.
***

Ho fatto bene ad indossare il cappotto, perché l’aria è abbastanza frizzantina stasera. Sono le 20.46, e inseguendo i miei pensieri vuoti mi ritrovo a passeggiare lungo la piazza a pochi passi da casa mia, ascoltando lo scroscio pacifico della grande fontana posizionata al suo centro e il chiacchiericcio di qualche passante ogni tanto. A quest’ora della sera, questo è uno dei posti meno popolati di Midgar. Faccio un giro su viale Loveless, scrutando atono le vetrine e soffermandomi ad osservare per qualche istante la grande insegna che pubblicizza l’omonimo spettacolo tratto dal poema. Le mani in tasca e il naso puntato in su, non posso fare a meno di pensare a Genesis e a ciò che quel posto ha rappresentato e rappresenterà per sempre nelle nostre menti. Me lo figuro con indosso il suo caratteristico soprabito rosso e ancora tutti i capelli del loro colore naturale, mentre ammira sognante e con un ghigno affascinato l’insegna luminosa, magari con Angeal al suo fianco in attesa del peggio, dover passare l’ennesima serata seduti su una poltroncina a sorbirsi tutti i quattro atti di quell’opera che ormai entrambi conoscono a memoria.
Angeal … mi sembra passata un’eternità dall’ultima volta in cui ci siamo incontrati, di sfuggita nei corridoi del piano SOLDIER.
Mi ero ripromesso di ringraziarlo, se mai fossi diventato un first, ma … ora non ha più importanza. Ed ecco che le lacrime tornano a pungere i miei occhi. Scuoto la testa scacciando quel pensiero e riprendo a camminare, ma mentre mi dirigo verso le scale che portano alla stazione mi guardo intorno e non riesco ad evitare di chiedermi se esista davvero, un posto oltre questa vita. Perché in questo caso, potrebbe essere possibile che proprio adesso, in questo preciso istante, Angeal mi stia guardando, magari assieme a mio nonno.
Si saranno conosciuti, e avranno parlato assieme di me, di Zack, della nostra amicizia e di loro. Dei loro sogni … del loro onore.
Di ciò che io e Zack siamo diventati grazie a loro. E ridendo si saranno scambiati piccoli aneddoti di questa vita trascorsa con noi, ad insegnarci come usarla al meglio fino all’ultimo istante.
Mi blocco all’improvviso, mentre un magone di lacrime mi si stringe in gola.
Un piede su un gradino e l’altro su quello più in basso, punto gli occhi verso il cielo nero di Midgar e cerco d’immaginare le stelle, nascoste dall’abbagliante splendore cupo della città. E, oltre quelle, tutti coloro che ho conosciuto seduti a godersi lo spettacolo e ad osservare la vita che va avanti. Mentre loro, immortali, continuano a rimanere per sempre come l’ultima volta in cui li ho visti. Deglutisco a vuoto, il gozzo carico di commozione mentre una lacrima scivola veloce e ribelle sulla mia guancia fino schiantarsi sulla pietra scura sotto i miei piedi. Fino a poco tempo addietro, Angeal era con noi … avrei tanto voluto dirglielo … dirgli grazie. Ma non ho potuto … non potrò mai più. Ed è un dolore che mi frantuma il cuore

<< Angeal … >> mormoro in un soffio impercettibile, quasi senza pensarci << Angeal,
grazie! >>

Ecco.
Ora, mi rimane solo questo. Poter mormorare le mie preghiere al vento, e sperare che quel mondo oltre la morte esista davvero. Forse è solo un illusione. Anzi, molto probabilmente lo è. Ma è la mia unica salvezza. L’unico modo che ho per sentirli ancora vicini.
Sento di avere di nuovo bisogno di piangere, ma con estrema difficoltà mi costringo a scacciare quelle riflessioni via da me e mentre riprendo a camminare mi ritrovo a chiedermi quanti altri ancora dovrò vedere morire, fino a che continuerò a rimanere in SOLDIER. Quanti compagni ha visto morire Mikio, senza poter far nulla per impedirlo com’è accaduto a me?
Quando ero piccolo e lui mi parlava del suo lavoro, delle missioni che aveva portato a termine e dei luoghi che aveva visto, c’era sempre qualcosa che non andava nel tono della sua voce e nell’espressone dei suoi occhi, quando ogni tanto era costretto a fare il nome di uno dei suoi commilitoni. Le pupille troppo lucide, la voce troppo flebile e tremante.
Allora non capivo, ma adesso … riconosco in quei ricordi le immagini di un dolore ch’era troppo grande per essere raccontato ad un bambino, e al contempo troppo forte per essere celato.
Ed è da quei ricordi che traggo la mia risposta.
Anche mio nonno, come sta accadendo a me, ha dovuto sopportare il peso delle sue scelte. Con responsabilità, tenacia, onore. E sono sicuro che, se fosse stato ancora qui con me, avrebbe saputo riconoscere e curare i sintomi di questa tristezza inevitabile che cambia, fortifica, e ristagna nell’animo di ogni soldato, consumandolo lentamente.
Ma Mikio non è più qui assieme a me. Così come non lo è Angeal, né lo sono Zack o Hikari o mia madre.
Sono solo e mi chiedo se, prima o poi, tutto questo non riuscirà a consumare anche me, battaglia dopo battaglia e morte dopo morte.
Mi ridesto nuovamente vibrando, per paura, o forse semplicemente per il freddo che non cessa di avvolgere tutto con il suo intenso abbraccio. E continuo a camminare, ora per le strade dei bassifondi, così famigliari al Victor di un tempo, quello della mia prima adolescenza.
La maggior parte dei miei vecchi amici vivevano qui, prima di scomparire nel nulla divorati dalla loro insulsa paura e dalla vita di tutti i giorni. Osservo il degrado, le vetrine malconce e male illuminate di qualche negozio ancora aperto e loschi figuri che passeggiano per le vie. In fondo a un vicolo, uno dei pochi ben illuminati, un membro del Reparto Sicurezza sta svolgendo il suo dovere. Un ghigno mi dipinge il volto.
È strana la vita. Solo qualche anno fa, proprio uno di loro mi sorprese a fare a botte col mio migliore amico e mi riportò a casa malconcio e ubriaco. Chi l’avrebbe mai detto che, sette anni più tardi, io sarei diventato non solo un membro di SOLDIER, ma addirittura l’unico allievo del grande Sephiroth e alla fine anche un 1st class.
Annuisco divertito, e il sorriso si allarga sul mio viso. Scherzi infami e divertenti del destino.
Riprendo a camminare svoltando a destra ma, proprio quando sto per rituffarmi nel filo confuso dei miei pensieri altalenanti, una voce fin troppo famigliare attrae la mia attenzione da una vecchia porta in ferro impolverata e socchiusa, situata al pianterreno di un vecchio edificio abbandonato e malconcio nel bel mezzo di un vicolo buio. Voce di ragazzo

<< Ho rischiato grosso per portarteli, Ivy. >> dice, e sembra anche piuttosto innervosito,
anche se c’è una nota di disperazione nella sua voce

Ci metto pochi secondi a capire che chi sta parlando è niente poco di meno che il fante coraggioso che per primo mi ha risposto con un tonante “Si, signore!” dopo il mio discorso alle reclute.
Non dovrei farlo. Ciò che fanno le reclute fuori dal loro orario di lavoro non è affar mio, ma qualcosa mi sprona ad avvicinarmi di soppiatto e pormi in ascolto.
Sbircio oltre la soglia, attraverso la fessura tra lo stipite e la porta semichiusa, e vedo il ragazzo ancora nella sua divisa ma senza il casco, in piedi di fronte ad un malandato bancone di legno – ch’è l’unica cosa che riesco a intravedere per colpa della flebilissima illuminazione fornita da una vecchia lampadina penzolante dal soffitto al quale è appesa per mezzo di fili elettrici scoperti -.
Dietro di esso, una donna sulla settantina, dai capelli castani ingrigiti e la schiena ricurva, sta esaminando tra le mani quella che ad occhio e croce sembra … una materia!
Si, è una materia dell’elemento fuoco, e sul bancone ce ne sono altre quattro tutte diverse! Blizzara, Thunder, Firaga e Drain. Sono sbalordito, e fisso scioccato il ragazzo che nervosamente afferra quest’ultima in mano e ponendogliela di fronte agli occhi la implora disperatamente

<< Questa soprattutto! Sai quanto tempo ci mette il reparto scientifico per fare una di
queste? Ti prego, per favore Ivy, alzami la posta. Mi conosci, non ti prenderei mai in
giro! >>

Ma dove accidenti le ha prese? E soprattutto, cosa cavolo crede di fare? Non solo ha rubato delle materie che ora sta tentando di rivendere, lo sta facendo con ancora indosso la divisa per giunta! Ma perché?

<< Mi spiace, Nigel. Anche considerando il valore di questa. >> dice la vecchia, prendendo
in mano la Drain << Non posso farti più di 300 gil, ed è comunque un prezzo
esagerato! >>

Il ragazzo sospira, e si china sul bancone, sconfitto. Sembra davvero senza speranza

<< D’accordo. Prendile e dammi i soldi! >> risponde alfine, con una nota d’angoscia nella
voce

E proprio nel momento in cui la donna sta per agguantare le preziose materie, decido di farmi avanti. Spalanco la porta ed entro senza dire una sola parola, ergendomi prepotentemente su di loro e sulle espressioni sorprese che immediatamente si dipingono sui loro volti stupiti.
Non appena scorge il simbolo della Shinra sulla manica destra del mio cappotto, Ivy indietreggia colta dalla folle paura di essere stata scoperta. La ignoro, e fisso torvo il ragazzo che a bocca spalancata e labbra tremanti sembra essere diventato all’istante una statua di sale

<< Capitano … >> mormora flebilmente, strozzato

E vedo il terrore dipingersi nei suoi occhi.

<< Mi devi delle spiegazioni, soldato! >> dico, intimandogli con un veloce movimento della
testa di uscire fuori assieme a me

Lui deglutisce un paio di volte a vuoto, poi tremante recupera le sue materie e portandosi di fronte a me le restituisce al mio palmo che si è aperto in attesa. Attendo fino a che anche l’ultima materia non è rientrata nelle tasche del mio trench, poi lancio un’ultima severa occhiataccia alla donna dietro il bancone e trascinandomi dietro il ragazzo chiudo la porta alle mie spalle, rivolgendomi completamente a lui.
Abbassa lo sguardo, umiliato

<< Allora? >> chiedo, severo
<< Era … per un buon motivo! >> bofonchia lui, continuando a fissarsi gli stivali
<< Lo spero. Qual è? >> ripeto, perentorio

In quanto a severità, mio padre e Sephiroth sono stati dei validi maestri.

<< E’ una storia complicata. >> mi dice, scuotendo il capo

Sospiro, e mi guardo intorno ricacciando le mani gelate nelle tasche zeppe di materie. Ci deve pur essere un posto tranquillo in cui parlare, a quest’ora della sera. Ma certo, la fontana! Col suo scrosciare rilassante, la piazza deserta, l’ambiente pulito e qualche guardia a sorvegliare la zona.

<< Non mi sembra di avere alcun impegno per stasera. >> rispondo, e lo vedo tornare a
scrutarmi con attenzione e un barlume di speranza a illuminargli di nuovo gli occhi

Gli schiocco un occhiolino, poi mi volto e iniziando a camminare gl’intimo di seguirmi. Quello obbedisce solerte, e in un attimo siamo seduti uno di fronte all’altro, sul freddo marmo del bordo della fontana al centro della piazza.
Il ragazzo sta torturandosi le punte le punte del guanto marroncino che ricopre la sua mano destra per poter tenere lo sguardo basso ed evitare d’incrociare il mio, quando senza preamboli io esordisco con una domanda a bruciapelo

<< Per chi lavori? >>

All’istante, i suoi occhi grigi si piantano nei miei, spalancandosi in un’espressione sconvolta

<< Come? >> chiede con voce tremante, quasi incredulo di aver udito una simile domanda

Sospiro. Dalla fine della guerra con Wutai, Midgar è piena di copie di Genesis e spie wutaiane che puntano a saccheggiare e indebolire ancor di più la Shinra. Ma forse questo una giovane recluta non lo sa … a meno che non sia anch’essa una spia sotto copertura. Il che potrebbe anche spiegare la sua determinazione a voler fare bella figura con me rispondendo subito al mio ordine

<< Sei una spia di Wutai, o stai con qualche altro movimento antishinra? >> ribadisco
nuovamente, lapidario e sempre meno interessato all’uso della discrezione perché
qualunque sia la risposta, quello che ho appena visto non è solo una seria infrazione alle
regole, ma anche un’azione profondamente disonorevole per la divisa che sta
indossando

La gente non ci vede di buon occhio, e di certo metterci a defraudare la Shinra rubando le materie e rivendendole per quattro soldi non aiuterà a migliorare la situazione.

<< No, no! >> si affretta a rispondere lui, agitando le braccia in avanti e affannandosi a
scuotere la testa << Non è come pensate, ho fatto tutto da solo! >> aggiunge poi,
abbassando nuovamente il viso sulla punta dei suoi stivali << Non posso aspettare di
ricevere il mio stipendio, quei soldi mi servivano adesso! >>

Okkey, adesso sono davvero sull’orlo di una crisi di nervi. È evidente ch’è sincero, ma

<< Perché? >> chiedo, rendendomi subito conto di essere stato troppo veemente.

Così traggo un lungo sospiro, appoggio il braccio destro sul cornicione in marmo della fontana e rivolgendogli tutta la mia attenzione con uno sguardo sinceramente interessato aggiungo con più calma

<< Hai detto ch’era una storia complicata. Sono qui ad ascoltarti e ho tutta la serata. Forza,
racconta! >>

Lo vedo scrutarmi, titubante. Spero che i miei abiti informali lo aiutino a vedermi più nelle vesti di amico o semplice confidente occasionale che in quelle di 1st class.
Finalmente lo vedo annuire rassegnato, e mentre lui si china in avanti posando i gomiti sulle ginocchia e le mani unite a mezzo metro dal suolo, io mi preparo ad ascoltare una storia che, già dalla prime righe, suona triste e dolce al contempo

<< Mi chiamo Nigel Newell, ho ventiquattro anni, sono il primo di due figli e … da quando i
miei genitori sono morti, sedici anni fa, mi prendo cura di mio fratello Jonathan. Da
solo … senza l’aiuto di nessuno. >>

Bene. Ora sono io a rimanere senza parole, mentre il ragazzo torna a rivolgermi uno sguardo carico di tristezza, come se si aspettasse di vedere quell’espressione sconvolta che si è dipinta sul mio volto adesso. Diciassette anni sono tanti … troppi. E dopo un rapido calcolo, questo può solo voler dire che, mentre io iniziavo a sprecare la mia vita con l’alcool per la morte di mio nonno, quel ragazzo aveva già cominciato, all’età di sette anni appena, a prendersi cura del fratello più piccolo. Che stupido …
Dannazione, mi sento un patetico idiota!

<< Tuo fratello … >> mormoro sgomento, nel tentativo di riprendere coscienza di me << Era
la recluta con cui parlavi sull’elicottero durante il viaggio di ritorno? >> chiedo, cercando
di sostenere un po’ di più la mia voce traballante per l’emozione

Lo vedo annuire in silenzio, tornando a tormentarsi le mani.

<< Com’è successo? >> domando quindi, curvandomi con le braccia sulle ginocchia come lui
e lanciandogli un lungo sguardo affranto

So che forse non avrei dovuto chiederlo. So che questi argomenti sono troppo dolorosi per riuscire a parlarne col primo che capita. Ma so anche che, proprio per questo, ci sono molte probabilità che anche lui, come me abbia cercato di dimenticare. E non si sia mai concesso il tempo di poterci piangere su. E mentre lo vedo scuotere le spalle con falsa noncuranza e ascolto la sua risposta, capisco ch’è proprio come immagino

<< Mia madre era malata, sarebbe morta comunque. >> mi risponde, la voce ferma e gli
occhi che all’istante si riempiono di lacrime << Mio padre l’ha seguita due giorni dopo,
aggredito da un mostro sulla strada che portava alla periferia. Era uscito per comprare
qualche medicina per John che aveva la febbre, e non è più tornato. >>

La sento. Quella tristezza profonda. Quella voglia di piangere che sale su incontrollata e respinta dall’ostinato sforzo dell’orgoglio di noi, stupidi esseri umani. E anche io, nel disperato tentativo di rimandare quel momento, mi costringo a chiedere

<< Siete dei bassifondi? >>

Nigel sorride, amaro, e annuisce scuotendo la sua chioma castana

<< Una vecchia casa abbandonata sulla strada che porta al mercato. >> mi risponde,
continuando a fissare i suoi stivali << Siamo nati e cresciuti lì. >> aggiunge poi, senza
ch’io abbia bisogno di fare altre domande << Dopo la morte di papà, io rubavo e
rivendevo, o facevo qualche commissione a quelli della Sicurezza per compenso, come
la maggior parte di quelli cresciuti per strada. Ma Jonathan aveva appena due anni ed
era cagionevole, e i soldi che riuscivo a ricavare servivano a malapena a pagare le spese
della casa. Stavamo morendo di fame e lui avrebbe fatto la stessa fine di mia madre,
prima o poi. Non potevo lasciarlo solo, così dovetti smettere di andare a scuola e
cercarmi un lavoro che mi permettesse almeno di sfamarci. >>
<< Quindi, lui non è mai andato a scuola. >> osservo, sempre più sconvolto

Ma che razza di adolescente sono stato, io? Forse aveva ragione mio padre … ero solo un viziato.

<< Gli ho insegnato io a leggere e scrivere. >> mi risponde Nigel << Abbiamo potuto tornarci
solo quando il direttore Lazard ha iniziato a devolvere una somma per tutti i disagiati dei
bassifondi. >>

Lazard? Aveva la reputazione di essere un brav’uomo, ma non sapevo si occupasse anche della vita dei bisognosi nei bassifondi. Lazard … ha voluto che fossi promosso a 1st, cosa che molto probabilmente ora sarebbe stata molto difficile, se non addirittura impossibile. E grazie a lui, Nigel e suo fratello sono riusciti ad aver un’istruzione adeguata. Chissà dov’è adesso? Perché è sparito? A Midgar mancherà, un uomo come lui. E se non a tutti … quanto meno a ragazzi come quello che ho di fronte. Non so perché, ma non posso fare a meno di chiederglielo

<< Lo hai conosciuto? >>

Finalmente, un sorriso commosso increspa le sue labbra mentre lo vedo annuire alzando il volto sul panorama di fronte a sé, uno scorcio di Viale Loveless.

<< E’ venuto a trovarci, un paio di volte. >>

Non mi viene difficile immaginarlo. Vestito con quel completo gessato e quella leggera sciarpa di seta bianca, che si aggira per i meandri dei bassifondi e chiacchiera allegro e tenero con i bimbi sperduti che vi abitano. Lazard … direttore di SOLDIER e benefattore dei bassifondi …
Cosa è accaduto, poi?

<< E’ per questo che ti sei arruolato? >>

Anche questa domanda, sembra nascere spontanea dalla dolcezza e la tragicità che questa storia hanno acceso in me.

<< Anche … >> risponde Nigel, tornando serio << Ma soprattutto perché dopo la sua
sparizione quei soldi cessarono di arrivare … e io persi anche il poco lavoro che ero
riuscito a trovare. >>

Facile intuire il resto, penso annuendo. Entrambi sono entrati nell’esercito per sfamarsi, ma nell’attesa di ricevere il primo stipendio rimaneva il problema di un pasto caldo la sera. Un soldato non può certo pretendere di farcela con lo stomaco vuoto da giorni.

<< Così sei tornato a rubare, mh? >> dico, con la stessa espressione di un adulto
premuroso intenerito dalle marachelle ingenue di un bambino

E lo vedo contrirsi di nuovo, sospirando e tormentandosi le mani

<< Io … l’avrei fatto per l’ultima volta. >> mormora, la voce incrinata dallo
sgomento << Solo fino a quando entrambi avremmo avuto abbastanza denaro per poterci
permettere un pasto come si deve. >> conclude poi, e lo vedo trattenere
improvvisamente il respiro mentre ora i suoi occhi si chiudono alle lacrime

Basta così. E’ evidente che questa situazione non ha fatto altro che far male solo alla sua dignità, ed è inutile che io gli ribadisca il rischio che ha corso nel tentare di defraudare la compagnia. È disperato, questo è palese. Ed io non me la sento di lasciarlo lì così.
Per questo mi alzo in piedi, e mentre traggo fuori dalla tasca sinistra del mio jeans il mio portafoglio di cuoio scuro e ne estraggo parte del contenuto posandolo sulla mano destra inerte, concludo con noncuranza

<< Va bene, farò finta di non aver visto nulla. Prendi questi, dovrebbero bastare fino alla fine
del mese. >> concludo quindi, porgendogli 3100 gil e scrutandolo mentre i suoi occhi si
puntano stupiti sul denaro e il suo respiro si blocca all’istante

Sorrido. Perché la gente si stupisce sempre, quando faccio qualcosa per loro?

<< Su, prendili! Te ne servono ancora? >> lo incoraggio

Lui scuote frettolosamente la testa, e alza le mani per accettare ma sembra ancora troppo incredulo per riuscire a farlo

<< No, io … io credo di no, ma … >> bofonchia, alzandosi in piedi e prendendo a
tormentarsi freneticamente la stoffa verde chiaro del pantalone della divisa
<< Oh, poche storie soldato! >> ribadisco quindi io, continuando a
sorridere << Prendili, è un ordine! >> concludo, tornando serio e continuando a
porgergli le banconote

E lui, diligentemente e con un grosso sorriso ad illuminargli il volto, obbedisce. Per poi profilarsi in mille frasi cariche di gratitudine

<< Non so come ringraziarla, Capitano. Sul serio, io e John le dobbiamo la vita. >>

Scaccio l’aria con la mano destra, mentre la sinistra ricaccia il portafoglio dentro la tasca. Quei soldi sono solo un quarto dei miei risparmi, e li avrei usati per comprarmi un pacchetto di sigarette di quelle eccellenti e un paio di bottiglie di roba buona da tenere sottobanco al bisogno, per poi ricadere nel tunnel della dipendenza. Servono decisamente molto di più a lui.

<< Cerca di non farti ammazzare, tanto per cominciare. >> rispondo, con un ghigno
impercettibile a colorarmi le labbra << Iniziare ad esercitarti con la spada in sala di
simulazione sarebbe un buon metodo prima della tua promozione a 3rd. >> concludo, e
nel dirlo, gli schiocco un occhiolino complice

Penso che abbia colto il sott’inteso, perché il suo sorriso si allarga mentre portandosi una mano alla fronte lui si esibisce nuovamente in un marziale “Si, Signore!”.
Ora che non abbiamo più niente da dirci, sento che concentrarmi sul risolvere i problemi di qualcun altro mi ha rinfrancato e fatto dimenticare per qualche secondo la mia tristezza e la mia rabbia. Così, mentre inizio a prendere in considerazione la possibilità di praticare una qualche forma di volontariato, mi volto e faccio per andarmene. Ma all’ultimo minuto il vetro freddo a contatto con la mia pelle mi rammenta di una cosa.
Estraggo dalla tasca destra del mio cappotto due delle quattro materie, e volgendomi nuovamente verso di lui chiedo

<< Sai usarle? >>

Il ragazzo scuote le spalle e la sua chioma color nocciola

<< Non troppo bene. >> mi risponde

Perfetto. Mi avvicino, e gliele ficco in mano

<< Allora datti una mossa. >> gli consiglio, schioccandogli un altro occhiolino

Poi, senza aspettarmi una risposta, faccio dietrofront e mi avvio verso casa con le mani in tasca e qualcosa di nuovo nel cuore. Forse Zack ha ragione … dovrei smetterla di tormentarmi così tanto.
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Final Fantasy VII / Vai alla pagina dell'autore: Red_Coat