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Autore: Macy McKee    11/03/2015    2 recensioni
[Ambientato durante Mockingjay; Finnick & Katniss friendship]
Nelle fiabe, quando due creature ferite s’incontrano e si aiutano a vicenda, imparano insieme a guarire le proprie ferite e tutto torna com’era prima. Ma nella vita reale non funziona così. Nella vita reale ci siamo io e lui, sull’orlo del baratro, che lottiamo e ci aggrappiamo l’uno all’altra per non perdere l’equilibrio. Sapendo che, se uno di noi vacilla, nessuno ci salverà dalla caduta.
Genere: Angst, Introspettivo, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Finnick Odair, Katniss Everdeen
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo IV

 
 Nothing will be enough
For the ones Who keep on stumbling
In the garden of withering trust
Without the courage to leave

Face of God - H.I.M.
 
Finalmente, veniamo entrambi dimessi dall’ospedale. La mia gamba è guarita, e credo che mia madre pensi che trattenere Finnick in ospedale non lo stia aiutando a guarire.
Quando viene personalmente ad annunciarci la nostra appena riconquistata libertà, credo che voglia chiedermi di continuare a tenere d’occhio Finnick, ma non lo fa.
Ho seppellito l’immagine di Peeta su quello schermo sotto una barriera di rabbia. Più le ore passano e nessuno sembra voler parlare di lui, più coltivare la collera diventa semplice.
Dopo una settimana di inattività, ho bisogno di cacciare. Porto Finnick con me.
Riusciamo ad abbattere un cervo, e con lui la rabbia si dirada un po’. Come siamo arrivati al punto che tutti tranne Finnick mi mentono, mi tengono all’oscuro, mi manipolano?
Se questo è il prezzo dell’essere la Ghiandaia Imitatrice, non sono sicura di volerlo pagare.
I giorni successivi sono una nebbia di rabbia e noia e fastidio che si accumulano ai lati del mio cervello.
Assisto a qualche allenamento, faccio visita a Beetee che sta perfezionando un nuovo genere di filo tagliente da utilizzare come arma, mi siedo di fronte agli schermi e guardo i pass-pro senza vederli davvero.
Mi sembra di vagare in una foschia di attesa irritata, mentre aspetto e aspetto che qualcuno dica qualcosa, qualunque cosa, e il tempo continua a passare senza che questo accada. Le ore si ammassano, e insieme a loro si accumula la mia irritazione.
È come correre e correre, continuando ad accelerare, ignorando il fatto che prima o poi sarò troppo veloce per riuscire a tenere i piedi sul terreno, perderò il controllo e cadrò.
E, alla fine, cado.
Succede un pomeriggio, nella mensa, mentre tormento una carota con la punta della forchetta con tale concentrazione da scoraggiare chiunque voglia avvicinarsi a me.
Chiunque tranne Plutarch, che devia con il preciso scopo di salutarmi e mi sorride.
Sorride, ed è un sorriso di Capitol City che si delinea su un viso di Capitol City che appartiene a un corpo di Capitol City.
Sorride, e il sorriso raggiunge i suoi occhi. Gli stessi occhi che hanno studiato, analizzato, accarezzato per anni le Arene dei Giochi. Gli stessi occhi che hanno guardato, edizione dopo edizione, ventiquattro ragazzini lottare, morire, uccidere, massacrarsi.
Gli stessi occhi che hanno visto Rue strappata ai suoi frutteti e alla sua musica, che hanno osservato Mags scomparire nella nebbia perché noi potessimo vivere, che hanno guardato Peeta sfiorare la morte di fronte a me, fra le mie braccia, sotto le mie mani, così tante volte da non sembrare vero.
Sento il mio stomaco rivoltarsi, gorgogliare, chiudersi, e la punta della forchetta affonda nella carota con tanta violenza da ridurla in poltiglia contro il fondo del piatto.
Lui è uno di loro, e sa. Lui è nato, vissuto, cresciuto fra coloro che hanno preso Peeta e l’hanno ridotto così, e sa. Lui ci ha guardati andare al massacro, ci ha spediti al massacro, e ha il diritto di decidere che no, io non posso sapere che Peeta sta soffrendo, crollando, forse morendo in questo esatto momento.
Qualcosa nella mia mente si spezza, e quella è la mia caduta.
Corro – no, mi precipito – attraverso i corridoi, urtando oggetti e persone e provando un piacere oscuro a ogni scontro. Voglio colpire ogni passante, ogni cosa. Voglio lottare per scavare la mia strada attraverso il muro vivente che pulsa e si muove e cammina verso di me, come mi sembra di aver fatto per una vita intera e forse oltre.
Non ho bisogno di loro, di nessuno di loro. Non ho bisogno del loro permesso, della loro approvazione, delle loro regole.
Non ho bisogno che scelgano per me, che decidano che sono troppo debole, troppo stupida, troppo preziosa per contaminare la mia piccola mente di simbolo della rivoluzione – di oggetto della rivoluzione – con la verità.
Corro fino a quando mi ritrovo sopra una grata che mi è familiare.
Il Distretto Tredici è pieno di grate come quella, identiche fra loro, ma io so che questa è la stessa che ho aperto per sfuggire ai miei ignari inseguitori insieme a Finnick, la notte della nostra breve fuga. Lo so perché da quando ho cominciato a correre mi sono diretta qui, proprio qui, senza pensarlo coscientemente ma essendone consapevole dal primo passo.
Sollevo la grata e scendo.
Mi siedo sul pavimento di metallo, troppo caldo per essere confortevole, e ascolto l’acqua che gorgoglia nelle tubature.
Aspetto di addormentarmi, o di andare alla deriva nella mia rabbia, o di ribollire nella mia collera fino a non avere più la forza di odiare.
Ma non succede.
È uno di quei giorni di calma, come li chiama Gale, o giorni di fame, come li chiamo io. Uno di quei giorni in cui puoi acquattarti fra gli arbusti fino a quando ogni centimetro della tua pelle si congela, e per quanto tu possa essere paziente e silenzioso e invisibile non un singolo animale si avvicina.
Uno di quei giorni in cui non puoi fare altro che aspettare ma, a parte i tuoi muscoli che si fanno doloranti e le tue gambe che formicolano, non succede nulla.
Rimango seduta, cosciente di ogni respiro, ogni pensiero, ogni fischio delle tubature. I minuti sono densi come gocce di catrame.
Aspetto di perdermi nella mia mente, ma rimango salda a terra.
Non riesco a convincere i miei pensieri a portarmi via. Persino la rabbia, ora che sono lontana da chiunque contro cui io possa urlare il mio disappunto e il mio rancore, sembra vuota, sbiadita.
Sto per prendermela con le pareti quando la grata cigola sopra la mia testa e si apre per lasciar scivolare Finnick al mio fianco.
Apro la bocca per cacciarlo, scocciata. L’ultima cosa di cui ho bisogno è calmare qualcuno in preda a un attacco di panico.
Ma l’espressione di Finnick è distesa e risoluta insieme, e al momento pare molto più lucido di me, il che significa che in una battaglia verbale perderei prima ancora di aver pianificato un discorso.
Decido di conservare il mio risentimento per qualcun altro. Chiunque altro.
≪Non ho voglia di parlare≫ dico, e mi sorprendo di quanto la mia voce suoni simile a un ringhio, qua sotto.
≪Non devi≫ replica Finnick, sedendosi accanto a me.
Mi stringo nelle spalle.
≪Ho inventato un nuovo finale per la tua favola≫ prosegue lui. ≪Senza offesa, ma il tuo era terribile.≫
Rimango in silenzio. Forse sono abbastanza colpita dal fatto che abbia ricordato la mia favola, nonostante la sua condizione, da non rifiutare di ascoltarlo, ma non gli chiederò di proseguire.
Alla fine, è lui a cedere. Con un sospiro divertito, si mette platealmente comodo sul pavimento.
≪Visto che insisti tanto per sentirla, ti racconterò la mia versione≫ continua lui. E comincia a raccontare.
≪Quando la cacciatrice rivela la sua storia al principe, i due cominciano a incontrarsi sempre più spesso. Diventano amici, e un giorno decidono di partire insieme per esplorare nuovi boschi, perché si sono accorti di non avere più motivo per rimanere lì.
Mentre stanno costeggiando una parete rocciosa, vengono sorpresi da un temporale e devono cercare riparo.
Trovano una grotta, e ci si rifugiano. Si accorgono presto che la grotta in realtà è molto più profonda di quanto sembri: si allunga fino a diventare un vero e proprio labirinto sotterraneo.
Dato che il temporale non sembra volersi fermare, i due decidono di esplorare i cunicoli. Stanno camminando da ore quando sentono un rumore.
Immediatamente, la cacciatrice estrae il suo arco e incocca la freccia, pronta a respingere qualunque animale feroce voglia aggredirli.
Ma non è una belva  che viene verso di loro: è un giovane uomo, e la cacciatrice lo riconosce immediatamente come il soldato che aveva amato. Lei si infuria: come ha potuto lui farle credere di essere morto? Urla contro di lui, ma lui rimane in silenzio.
La cacciatrice corre via e sparisce oltre l’ingresso della grotta, nel mezzo del temporale.
Il principe rimane con il soldato, e dopo aver ascoltando come lui si sia salvato a stento dalla bufera e abbia trovato rifugio in quella grotta, gli racconta tutto quello che è successo dopo la sua scomparsa.
Il soldato si rende conto solo allora di quanto la cacciatrice lo amasse: lei non l’aveva mai confessato. Rivela al merlo di aver sempre provato gli stessi sentimenti, e corre fuori dalla grotta per raggiungerla; ma è fermato dalla pioggia. Allora il merlo vola attraverso la tempesta, deciso a rivelare alla giovane quanto il soldato la amasse. Vola fino a non avere più forze, e la trova  proprio quando sta per cadere a terra, esausto. Le riferisce quello che il soldato gli ha detto, un attimo prima di crollare sul prato per la stanchezza.
Quando si sveglia, il merlo vede il soldato e la cacciatrice che lo guardano, insieme. Sembrano felici, e si stanno abbracciando. E dietro di loro c’è qualcun altro. Il merlo riconosce all’istante la terza persona come la fata che l’aveva trasformato.
Lei gli si avvicina e gli dice che, per la lealtà che ha dimostrato nei confronti della cacciatrice, verrà ricompensato. Lui chiede di ricongiungersi con la margherita, e la fata esaudisce immediatamente il suo desiderio: la margherita rinasce davanti agli occhi del merlo. Sono di nuovo insieme, e non si separano più. Tutti vivono per sempre contenti.≫
Finnick mi osserva con un ghigno soddisfatto, aspettando la mia reazione.
≪La margherita era morta≫ commento.
≪È una favola. Può risorgere.≫
Scuoto la testa. ≪Non è un finale realistico.≫
≪Neanche il tuo. “Invisibile spirito dei boschi”? Ma andiamo.≫
≪E comunque, è “vivono per sempre felici e contenti”.≫
Finnick mi lancia un’occhiata di esagerato risentimento. ≪Non sapevo fossi un’esperta di favole.≫
≪Non lo sono. Prim lo è.≫
Passa qualche minuto di silenzio surreale. Poi, Finnick mi rivolge un altro sorriso enigmatico.
≪Allora, se hai finito di criticare il mio finale, sei pronta per la seconda ragione della mia visita?≫
≪C’è una seconda ragione?≫
≪Pensavi fossi venuto solo per raccontarti la favola? Io, Signorina Everdeen, sono pieno di sorprese.≫
Mi osserva, impaziente, come se non vedesse l’ora che io gli chieda a cosa si riferisca. Sono tentata di non farlo, per non dargli la soddisfazione di sentirmi domandare, ma posso concedergli una piccola, piccolissima vittoria, considerando che è sceso nel luogo che gli ha provocato un collasso pochi giorni fa soltanto per il piacere della mia compagnia.
≪Davvero?≫ replico.
Lui fa una smorfia, e per un istante penso di aver passato il segno, a prova che anche essere il simbolo della ribellione non ha migliorato le mie capacità comunicative. Ma un attimo dopo, mi accorgo che la sua smorfia è un ghigno esagerato.
≪Quante cose non sai, Ghiandaia Imitatrice. Bene, dato che me l’hai chiesto… Sono qui per farle una proposta, Signorina Everdeen. Vuole accompagnarmi in superficie?≫

Note: Chiedo scusa per il ritardo, ma il mio computer è morto e fino a quando non è tornato dopo averlo mandato in riparazione non ho potuto accedere al file della storia.
Spero che non vi siate ancora dimenticate di questa fic xD
Questo capitolo è un po' lunghetto, ed è parallelo al libro. Diciamo che "aggiunge" qualcosa a quello che ci viene raccontato dopo che Katniss scopre lo stato di Peeta.
Nel prossimo, l'avvenura in superficie. E, dato che sono cattiva sia con voi sia con i personaggi, vi anticipo che succederà qualcosina di non proprio carino U.U
   
 
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