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Autore: Starishadow    13/03/2015    3 recensioni
Stavo ferma, in piedi sul bordo del molo, mentre il vento si accaniva sulle mie gambe lasciate scoperte dalla giacca che mi raggiungeva a malapena i fianchi e le sottili calze trasparenti erano incapaci di proteggermi dal freddo. Ero scossa dai brividi e piangevo, mentre la sigaretta spenta mi tremava fra le dita della mano sinistra.
Cos’ero diventata?
Che cosa mi aveva fatta diventare?

[Prima classificata al contest "Love Race - l'amore in un fulmine" indetto da LoveSomebody sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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I FELL IN LOVE WITH HIS HATRED
 
Stavo ferma, in piedi sul bordo del molo, mentre il vento si accaniva sulle mie gambe lasciate scoperte dalla giacca che mi raggiungeva a malapena i fianchi e le sottili calze trasparenti erano incapaci di proteggermi dal freddo. Ero scossa dai brividi e piangevo, mentre la sigaretta spenta mi tremava fra le dita della mano sinistra.
Cos’ero diventata?
Che cosa mi aveva fatta diventare?
Lanciai un urlo contro le onde del mare che si agitavano davanti a me e chiusi gli occhi: le onde mi avevano sempre terrorizzata, l’immagine di un muro d’acqua che mi si parava davanti era sempre impressa nei miei occhi e mi inseguiva nei miei incubi, eppure in quel momento i flutti mi chiamavano, mi rassicuravano, sembravano miei amici mentre mi dicevano che sarebbe andato tutto bene.
Ma come poteva andar bene? Dopo quello che era successo?
Delle gocce d’acqua salata mi bagnarono un po’ ovunque, facendomi sussultare violentemente, e la sigaretta cadde in mare, mentre io restavo senza fiato.
Il suo volto mi balenò davanti, fiero e crudele come lo ricordavo, lo sentii di nuovo dietro di me e il terrore mi avvolse.
«Lasciami in pace, Riccardo!» urlai, portandomi le mani davanti al viso, sentendomi soffocare.
Ripensai al giorno in cui ci eravamo conosciuti, in uno squallido bar non molto lontano dalla discoteca in cui avevo accompagnato le mie amiche e da cui mi ero defilata il prima possibile: io ero lì, pigramente seduta al mio tavolo immersa nella lettura dell’Ulisse in lingua originale, mentre cercavo di decidere se Joyce fosse un pazzo o un genio o entrambe le cose, maledicendolo e adorandolo al tempo stesso, e continuavo a sentirmi i suoi occhi addosso.
L’avevo notato appena ero entrata, sarebbe stato impossibile non farlo, uno come lui non poteva passare inosservato.
Nell’atmosfera sonnolenta e pigra di quel bar all’una di notte, lui spiccava pieno di energie e fascino: l’abito curato - probabilmente confezionato su misura - di un grigio molto scuro, i capelli ramati pettinati accuratamente per sembrare disordinati, gli occhi verdastri socchiusi a guardarsi intorno distratti, ma pronti a registrare ogni segnale da ciò che avveniva attorno a lui.
Quegli occhi si erano puntati su di me, o più precisamente sul libro che avevo in mano, e poco dopo avevo sentito una voce gentile e armoniosa citare accanto a me un passo dell’Ulisse, il più difficile, quello che più avevo penato nel leggere.
E lui me lo citava come se stesse recitando l’Infinito di Leopardi!
Aveva risvegliato il mio interesse; aveva risposto affabilmente alle mie domande, me ne aveva fatte altre con interesse, e avevamo finito con il parlare per quasi tutta la notte, fino a quando non fu ora per me di tornare a prendere le tre festaiole, che arrancarono in macchina chi zoppicando, chi scalza tenendosi i tacchi in mano e chi sorretta da una nuova conquista, della quale si sbarazzò poi rapidamente con un semplice “ti chiamo io”.
Pensavo che non l’avrei più incontrato, dopotutto non gli avevo lasciato il mio numero e gli avevo detto solo il mio nome, invece me lo trovai davanti alla casa che condividevo con le mie amiche.
Rimasi immobile e con gli occhi spalancati, mentre Angela, mia fedele compagna di crimine sin dal primo giorno di liceo, sussurrava qualcosa con tono sorpreso e irritato, riconoscendo in lui il “citatore occulto di Joyce” che tanto le avevo descritto.
Non le era mai piaciuto quel tipo.
Lui ci salutò discretamente, e si presentò gentilmente alla mia amica, che non smise di trattarlo con freddezza; quando lui le chiese se poteva restare solo con me, Angela alzò gli occhi al cielo e ci lasciò, fissandolo in cagnesco. Da quel giorno non fece altro che ripetermi quanto quel tipo non la convincesse, che le sembrava nascondere qualcosa, che dovevo tenere gli occhi aperti.
Avrei dovuto ascoltarla di più.
Se l’avessi fatto non mi sarei trovata, poco più di due anni dopo, in piedi su quel molo a gridare contro le onde, con lividi violacei sparsi sul mio corpo e chiazze di sangue addosso.
Ma Riccardo sembrava l’uomo perfetto, con quei suoi modi raffinati e la sua intelligenza brillante. Mi trattava come se fossi la sua regina, mi riempiva di attenzioni…
Mia madre lo adorava, mio padre lo rispettava, solo mio fratello e Angela lo detestavano.
Mi chiese di vivere con lui nove mesi dopo che ci eravamo messi insieme, e io accettai, impaziente di vivere al suo fianco.
I primi mesi fu impeccabile, come sempre, poi lentamente cominciò ad accampare richieste sempre più strane: rifiutava di fare l’amore con me, dovevo essere io e solo io a creargli piacere, lui poi mi ripagava toccandomi appena e da fuori. E io sopportavo, perché da come me l’aveva spiegata aveva senso.
Passò del tempo, ma finalmente decise che potevamo farlo, e io non avrei potuto essere più impaziente; non fece abbastanza preliminari, entrò con forza e non diede retta alle mie proteste, continuò finchè non venne, sordo ai miei sussulti di dolore e alle mie richieste di smettere, sembrava quasi ricavare più piacere dal mio dolore.
Poi restava ore al mio fianco, abbracciandomi, baciandomi, accarezzandomi finchè non mi addormentavo, e dimenticavo tutto il mio dolore.
Era questione di tempo, mi dicevo, e avrebbe imparato ad appagarmi, dopotutto era stata la prima volta (o la seconda, la terza, la decima… non lo facevamo spesso, era normale che non ci fossimo abituati).
Prima che me ne accorgessi, il centro del mio mondo era diventato lui: se uscivo con le mie amiche, lui veniva con me, cosa che le irritava al punto da smettere di invitarmi.
Solo Angela sembrava avere il permesso di vedermi, ma solo dopo che l’avevo implorato di lasciarmi almeno lei.
 
Le onde continuavano a chiamarmi, a promettere di lavarmi quel sangue di dosso, a promettermi che Riccardo non mi avrebbe seguita anche lì.
 
Lentamente quello che era stato un sogno si trasformò in incubo, quelle che mi erano sembrate strane fissazioni divennero manie, e quando provai ad andarmene, lui me lo impedì.
Cominciò a piangere, a dirmi che ero importante, che sarebbe cambiato.
E io ci credetti, come una stupida.
Una parte di me continuava a credere che avrei potuto scegliere io quando smettere, mi sarebbe bastata un po’ di determinazione in più e nient’altro, potevo vivere con qualcun altro e non avrei corso rischi.
Ma non ero mai al sicuro: ero andata a casa dei miei, e lui era venuto a cercarmi, preoccupato e triste, pieno di rimorsi.
Ero tornata da lui.
Aveva ricominciato.
Ero scappata ancora una volta, nascondendomi da mio fratello, e lui mi aveva raggiunta anche lì, convincendomi ancora una volta che era dispiaciuto, che non l’avrebbe fatto mai più.
E intanto i lividi sulla mia pelle aumentavano, così come diminuiva il peso del mio corpo.
Non so perché continuai a tornare da lui, volta dopo volta; ero arrivata a credere che lui mi amasse veramente, che quello fosse l’amore, che fossi io quella sbagliata.
Lui mi amava, e me lo dimostrava in ogni bacio, in ogni morso, in ogni carezza e in ogni schiaffo. Mi faceva male e poi mi medicava la ferita.
Stavo perdendo la testa, lo odiavo e subito dopo l’amavo, non riuscivo a fare a meno di lui, nemmeno quando il mio volto bruciava per i colpi ricevuti e per le lacrime che vi rotolavano sopra.
Mi faceva regali costosi, dicendo che comunque non erano mai abbastanza per me, che io ero più preziosa di ogni altra cosa, che senza di me lui non poteva esistere.
Non sopportavo che mi dicessero di lasciarlo, eppure ero io la prima che ci pensava.
 
Altra acqua mi arrivò addosso, reclamando la mia attenzione con prepotenza.
Ero stufa delle prepotenze.
Avevo ancora la sua pistola in mano, quella che gli avevo strappato quando me l’aveva puntata contro; era il mio ennesimo tentativo di fuga, e lui mi aveva raggiunta ancora una volta, ma stavolta non voleva che tornassi, voleva che sparissi.
Ricordo il gelo, il terrore nel vedere l’arma verso di me. Voleva farmi male ancora una volta, ma stavolta poi non mi avrebbe confortata. L’avrei odiato, senza più avere la possibilità di amarlo.
Non potevo permetterlo, non volevo odiarlo.
Così ero scattata contro di lui e avevo preso l’arma, alzandola in alto, cercando di tenerla lontana da entrambi nel caso fosse partito un colpo.
Ricordo che piangevo mentre lo facevo, ricordo che gli dicevo di gettarla, di smettere, gli promettevo che sarei tornata da lui. Poi lui crollò a terra, e io mi trovai con una pistola in mano e del sangue addosso.
Ora ero davanti al mare, infreddolita e spaventata da quel senso di liberazione che provavo.
Non mi avrebbe più trovata, non mi avrebbe più fatto male… ma non mi avrebbe più nemmeno abbracciata, tenuta contro di sé, non mi avrebbe più baciata, non avremmo più potuto parlare di letteratura, o di film, o di filosofia…
Singhiozzai.
Sentivo già la sua mancanza.
Mi mancavano le sue mani su di me, ora crudeli e ora delicate, mi mancava la sua bocca, che a volte mi sfiorava e a volte mi mordeva.
Avevo sentito parlare mille volte della violenza sulle donne; a diciotto anni mi ero promessa che se mai mi fosse capitato, avrei denunciato quel bastardo, e se necessario forse l’avrei addirittura ucciso.
Ero un’idealista, le soluzioni erano facili.
Non avrei mai pensato che mi sarei innamorata di un uomo come Riccardo, che mi avrebbe portato via tutto per darmi altre mille cose, non avrei mai pensato di interpretare colpi e cattiverie come amore.
Eppure quello era il suo modo di amare.
Non l’avevo ucciso: era stata una casualità, io gli stavo solo impedendo di farsi odiare da me.
Dopo tutto lo odiavo quando mi faceva male e lo amavo quando mi curava.
Mi asciugai le lacrime e tornai a guardare le onde, che erano diventate più alte e rumorose.
Mi dicevano di non pensarci più, di andare a giocare con loro e godere la mia libertà.
Non mi facevano più paura come prima, non ero più terrorizzata come da bambina. Mi stavano promettendo un abbraccio e forse anche un’espiazione da quello che avevo fatto.
Dopotutto Riccardo non c’era più, e in fondo era colpa mia.
Chiusi gli occhi e inspirai, prima di lasciarmi cadere in avanti, verso il dolce richiamo di quelle onde.
E in mezzo a quell’acqua, rividi ancora il suo viso.
 

 

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Nota dell'Autrice: una brevissima spiegazione alla storia! :D il tema era "amore violento" e... spero di averlo azzeccato ^^"
La tematica "violenza sulle donne" sappiamo tutti quanto sia attuale eccetera, e spero di aver reso abbastanza giustizia al personaggio femminile.
Quanto al finale... non ho voluto dargliene uno in particolare, potrebbe essersi salvata, o forse no. Lascio alla vostra immaginazione! :)
Mi ritiro, a presto!
Baci,
Starishadow
   
 
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