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Autore: Tury    15/03/2015    4 recensioni
“No.”
Emma Swan era abituata alle titubanze, le apprensioni e le paure dei suoi pazienti. Ma mai, prima di allora, si era imbattuta in una tale ferrea decisione, racchiusa in un’unica sillaba.
Si tolse gli occhiali dalla montatura nera e si passò due dita ai lati del naso con fare stanco, esattamente dove svettavano i segni lasciati dagli occhiali.
“Signora Mills, sarò sincera, questa è la sua unica possibilità di salvezza.”
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CAPITOLI
1-Incontri
2-Regali
3-Di promesse fragili come ali di farfalla
4-AVVISO!
5-Il mio nome è Regina
6-Pirati
7-Tenebre di luce
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Emma Swan, Regina Mills
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«L’ho scoperto».
Emma Swan alzò gli occhi dai suoi fogli, andando a posarli sulla donna che era entrata nel suo studio senza nemmeno bussare. Ma, d’altronde, quella non era una novità. Anzi, Emma iniziava quasi a considerare quell’azione parte integrante della sua quotidianità e fu per questo che non riuscì a trattenere quel sorriso che andò ad allargarsi sulle sue labbra.
«Cosa hai scoperto?»
«Finalmente so il nome della mia malattia» rispose Regina, andando a prendere posto sulla sedia posta di fronte alla scrivania della donna. Da quando ci si era seduta la prima volta, sentiva che quello era diventato il suo posto, in tutti i sensi. Era su quella sedia, in fondo, che si era svolta la sua vita negli ultimi tempi. Su quella sedia, aveva preso coscienza di se stessa, di quel tumore che l’affliggeva e la spaventava, di quella sua debolezza celata dietro quella maschera di fredda indifferenza. E, paradossalmente, era su quella sedia che Regina aveva compreso il profondo significato della parola vivere, proprio in quel periodo della sua esistenza dove la vita le sarebbe dovuta apparire come una chimera irraggiungibile. Ma lei, contro ogni sua previsione, l’aveva raggiunta. E, questo, grazie alla donna che le sedeva di fronte.
Emma inclinò leggermente il capo di lato, mentre un sopracciglio si alzava nell’udire quelle parole.
«Reputerei sorprendente il contrario, soprattutto dopo che ti sei sottoposta ad un’operazione e quando stai quasi per cominciare il tuo ciclo di chemio».
Regina socchiuse leggermente gli occhi, mentre un piccolo sorriso si affacciava sul suo volto.
«Questo tipo di ironia mi suona molto familiare, dottoressa Swan».
«Ho imparato dalla migliore, signora Mills» sussurrò Emma, tendendosi leggermente in avanti.
Regina si lasciò andare ad una lieve risata, scuotendo la testa per quella situazione così paradossale, lasciando che la sua ilarità contagiasse anche la giovane dottoressa. Ma d’altronde, il loro rapporto era nato così, con quel loro costante tentativo di primeggiare l’una sull’altra, su quella loro indole orgogliosa e allo stesso tempo combattiva che bruciava in fondo a quelle iridi così contrastanti eppure così simili. E, ogni volta, l’epilogo che seguiva quelle silenziose battaglie restava immutato, senza decretare né vinti né vincitori. Perché, singolarmente, ognuna di loro possedeva una forza tale da riuscire a contrastare qualsiasi avversità, rendendole uniche nell’anonima massa del conformismo. Ma solo quando erano insieme, quando quelle due forze di egual portata e di egual misura entravano in contatto, che accadeva l’inspiegabile, l’inimmaginabile. Perché quelle due forze, a discapito di qualsiasi previsione, invece di combattersi, si univano, amalgamandosi tra loro, rendendosi indissolubili l’una dall’altra. Ed era per questo motivo che nessuna delle due avrebbe mai potuto dirsi vincitrice nei confronti dell’altra. Perché la singola vittoria ne decretava in realtà due, così come la singola sconfitta implicava la perdita da parte di entrambe le fazioni.
«Tornando al discorso principale, Emma, credo di aver compreso quale sia il male di cui parlavi ieri».
«Non ne avevo dubbi» rispose con un sorriso la giovane dottoressa.
«Ma c’è una cosa che non mi spiego».
«Cosa?» chiese semplicemente Emma.
Regina abbassò lo sguardo, osservando distrattamente le sue mani, senza vederle realmente. Parlarle di quei pensieri, di quei sentimenti che per tanto tempo aveva negato a se stessa, di quella condizione in cui si era illusa di non vivere, si stava dimostrando l’azione più ardua da compiere. E non per sfiducia nei confronti della donna che le sedeva di fronte, quanto per una sua incapacità di estraniare quel suo mondo interiore. Quella sua piccola e fragile debolezza.
«Emma, nella mia vita ho fatto scelte e compiuto azioni che mi hanno portato a ciò che sono oggi, ciò che sono adesso. Non sono state azioni comprensibili né giustificabili in alcun modo, ma non me ne pento. Sarebbe inutile, dopotutto. Ero cosciente di ciò che facevo, ero cosciente del cambiamento che stava avvenendo intorno a me e soprattutto dentro di me e ho lasciato che avvenisse, senza ostacolarlo, senza impormi. Credevo semplicemente che la strada del successo prevedesse un’unica via, una via che comportasse qualche sacrificio e non mi sono mai chiesta se, in fondo, fosse giusto che quel sacrificio implicasse gli unici veri valori in cui credessi. Semplicemente, ho agito come un automa affamato di potere, di successo e di soldi. E ho lasciato che la mia parte umana morisse giorno dopo giorno, riducendomi a ciò che sono oggi. Un vuoto involucro di mera solitudine. Ed è questo, il nome di quel male di cui parlavi ieri, Emma, la solitudine».
«Il cancro dell’anima» disse semplicemente Emma, come a voler concludere il discorso della donna seduta di fronte a lei, mentre il suo sguardo si velava di una muta malinconia. Ed in quel momento, Regina comprese il dolore che si celava dentro quella giovane donna, dietro ogni singolo sorriso che le veniva donato. Dietro quegli occhi verdi che avevano la capacità di donare speranza anche al più oscuro degli animi.
«In ogni caso, la tua parte umana non è morta, Regina» concluse infine la giovane dottoressa, rivolgendole un dolce sorriso, cercando di infonderle una sicurezza che, in quel momento, sembrava mancare ad entrambe.
Regina le sorrise a sua volta, grata per quelle parole, per quel tentativo. Ma sapeva che la sua completa redenzione era ancora lontana, perché ciò che aveva fatto era troppo grave per poter essere semplicemente cancellato.
«Rimane il punto principale, Emma. Io ho meritato questa condizione, ho meritato la solitudine e le paure che ne derivano, perché mi sono macchiata di colpe molto gravi. Ma non capisco come tutto questo possa adattarsi su di te».
«Perché credi che io non meriti la solitudine?»
Regina la guardò per qualche secondo, prima di rispondere, perdendosi in quegli occhi chiari, in quelle sfumature che aveva imparato a conoscere e che poteva addirittura definire familiari.
Sorrise, pensando alla domanda che le era stata posta, a quella domanda che evita così accuratamente quel suo passato oscuro, fatto di scelte sbagliate e di coscienze sporche. Quello era uno dei pregi di Emma, il non chiedere mai. Avrebbe potuto fare mille allusioni alla sua vita, donare a quella donna frammenti di verità celate, con la consapevolezza che mai nulla le sarebbe stato chiesto, perché quella giovane dottoressa era nata con una dote unica quanto rara. Emma Swan era capace di saper ascoltare le persone, in ogni loro sfumatura. Riusciva a cogliere le paure e le ansie che si celavano nelle frasi spezzate, i rimorsi e i dolori dietro i silenzi pieni di parole non pronunciate. Ma, soprattutto Emma Swan sapeva aspettare. E avrebbe atteso, anche in eterno, pur di non costringere qualcuno a parlare contro la sua volontà. Pur di non costringere lei a rivelare il suo peccato più grande, il peso di quelle vite distrutte.
«Basterebbe guardarti, passare anche solo un’ora in tua compagnia per comprendere che una persona come te non merita alcun tipo di solitudine. Se tu fossi mia figlia, Emma, io non potrei che essere grata alla vita per avermi donato te. E credo che la tua famiglia la pensi nel medesimo modo».
Emma abbassò lo sguardo imbarazzata, mentre un sorriso incerto si allargava sul suo volto, per poi puntare nuovamente i suoi occhi in quelli castani della donna. E, in quel momento, Regina si accorse di tutta la tristezza che risiedeva in quelle iridi verdi. Una tristezza di cui non comprendeva l’origine.
«Forse lo sarebbero stati, ma non possiamo saperlo».
Quelle parole colpirono Regina in un modo così violento da lasciarla per qualche attimo senza respiro. Aveva compreso la verità che si celava dietro quella frase, ma aveva preferito resta cieca e sorda dinanzi ad essa. Perché quella confessione le aveva provocato un dolore che non era disposta a confessare. Un dolore che non era pronta a provare e che non avrebbe mai voluto conoscere.
«Cosa intendi dire, Emma?»
«Non ho mai conosciuto la mia famiglia, Regina. Non conosco i loro volti né i loro nomi, di conseguenza non saprò mai se sarebbero stati orgogliosi delle mie scelte o semplicemente della persona che sono diventata».
Il colorito di Regina sparì dal suo volto, mentre quella consapevolezza si faceva sempre più viva dentro di lei. Una consapevolezza che mise prontamente a tacere, ostinata ad aggrapparsi ad una piccola quanto insulsa speranza.
«Parli dei tuoi genitori biologici? Ma avrai avuto qualcuno che si sia preso cura di te».
Emma scosse lievemente la testa, senza mai abbandonare il suo sorriso. Regina la osservò alzarsi e superarla, ma non ebbe il coraggio di seguirla, di voltarsi verso di lei. Aveva paura di un suo rifiuto, aveva paura che Emma stesse fuggendo da lei, per non essere costretta a rivelare quel suo doloroso passato. Semplicemente, temeva che non si fidasse di lei a tal punto.
«Guarda che puoi voltarti, Regina, non ti mangio mica» disse la giovane dottoressa, quasi come se le avesse letto nel pensiero.
Regina si voltò lentamente e, quando i suoi occhi si posarono nuovamente sul viso di Emma, si sorprese di ritrovare su quel volto il sorriso che aveva imparato a conoscere. La malinconia, che aveva visto brillare in fondo a quelle iridi chiare, sembrava svanita. Il semplice spettro di un passato che era stato allontanato. Emma era seduta sul lettino per le visite, posto dall’altro lato della stanza, in attesa. Ma Regina rimase ferma, ancorata a quella sedia. Temeva che se si fosse alzata, le sue gambe non avrebbero retto. Che lei non avrebbe retto. E così rimase seduta, con solo il suo sguardo proteso verso quell’esile figura avvolta in quel camice bianco.
«Possiamo parlare mentre ti visito, Regina» disse Emma, comprendendo i timori della donna.
Un solo sospiro abbandonò le labbra di Regina, prima che quest’ultima si alzasse, incamminandosi verso il lettino, su cui prese infine posto.
Emma si pose di fronte a lei, in piedi, mentre le sue dita andarono a sfiorare la morbida seta della camicia. In un’altra situazione, Emma Swan avrebbe lasciato che fosse la paziente a togliersi gli indumenti per facilitare l’esame obiettivo, ma in quel momento, sapeva che Regina aveva bisogno del suo aiuto. E così fu lei a toglierle la camicetta, con gesti leggeri quanto gentili, prima di farla stendere e iniziarla a visitare.
 «Ho vissuto fino ai diciotto anni in un orfanotrofio, è da lì che proviene il mio cognome» cominciò Emma, mentre le sue mani vagavano sul corpo di Regina, in cerca di qualche anomalia.
«Quindi, tutti i bambini che vivevano lì ora hanno il tuo stesso cognome?»
«No, credo di esser stata l’unica persona ad aver fatto una scelta simile».
«Perché?» chiese con un filo di voce Regina, mentre cercava gli occhi di Emma.
«Per un motivo molto semplice a dire il vero- rispose Emma, sorridendo quasi imbarazzata- Non sono sempre stata in orfanotrofio, ci sono stati dei momenti in cui la mia vita si è svolta tra le mura di altre case. Mura che non ho mai avuto modo di definire familiari, perché non mi veniva dato il tempo. Da piccola, ero una bambina difficile, irrequieta e iperattiva, quel genere di figlio che non va bene per una coppia che, di bambini, non ne ha mai avuti».
«Ora capisco» la interruppe Regina.
Emma si fermò, puntando il suo sguardo in quello della donna, incuriosita da quelle parole.
«Quando sei venuta da me, dopo esserci addormentate, tu preparasti per entrambe del tè. Ti chiesi se ti comportassi sempre come se ogni casa fosse la tua e tu mi rispondesti che avevi cambiato abbastanza case da sapere perfettamente dove trovare ciò che ti occorreva. Ti riferivi alle case delle famiglie a cui eri stata affidata, vero?»
«Allora stai attenta alle cose che dico- disse Emma con un sorriso raggiante, dando un piccolo colpetto sul ginocchio di Regina- Ti sei addirittura ricordata le parole che usai».
«Emma» la richiamò la donna, in un invito a rispondere alla sua domanda.
«Sì, Regina, mi riferivo alle case che ho cambiato quando ero piccola. In realtà non sono state molte, solo cinque».
«Cinque è un numero enorme- disse Regina, spostando lo sguardo verso il soffitto- Tu non ne avresti dovuta cambiare nemmeno una, Emma».
«Forse avrei dovuto trovare una persona come te» rispose semplicemente la dottoressa, riprendendo la sua visita.
La meraviglia si dipinse sul volto di Regina, nell’udire quelle parole. Aveva desiderato molte volte un figlio, una persona a cui dedicare tutto l’amore più vero e puro, a cui mostrare le meraviglie del mondo, da guidare nel percorso della vita. Ma il peso dei suoi errori l’aveva sempre frenata, perché l’idea che un giorno suo figlio, la persona che più avrebbe amato nella sua vita, le riservasse uno sguardo pieno di rancore e odio, la terrorizzava. Per questo, i suoi occhi erano diventati lucidi, nell’udire quelle parole. Perché, inconsapevolmente, Emma le aveva fatto il dono più grande che potesse mai ricevere. Perché per la prima volta nella sua vita, Regina si sentì desiderata, desiderata come mai si era sentita prima. Perché, per la prima volta, Regina si sentì desiderata come una madre.
«Quando fui riportata in orfanotrofio, l’ultima volta, avevo quindici anni e la consapevolezza che per me non ci sarebbe stata un’altra occasione- riprese Emma, a cui non erano sfuggite le calde lacrime che, in quel momento, brillavano negli occhi di Regina – Così, cominciai a credere che quello era il mio destino, un destino al quale non potevo sottrarmi».
«Un destino fatto di sofferenza?» chiese la donna, guardandola nuovamente negli occhi. Il suo viso era tirato in un’espressione di pura incredulità, perché non poteva credere che le catene del dolore avessero stretto nella loro morsa quel cuore così innocente già in quella tenera età.
«È il destino che tocca ai brutti anatroccoli» rispose Emma, con un enorme sorriso.
Regina le riservò uno sguardo confuso, che indusse la ragazza a continuare.
«Ho sempre creduto di essere sbagliata, Regina. Nessuno sembrava disposto a volermi nella sua vita, nemmeno i miei genitori. Così, si rafforzò in me l’idea di essere diversa, diversa da tutto ciò che mi circondava e, per questo motivo, incompresa. Esattamente come un brutto anatroccolo, rifiutato dai suoi simili a causa del suo manto nero e del suo aspetto differente. Ma come ogni anatroccolo che si rispetti, anche io sognavo i cieli immensi e il candido manto dei cigni, per questo motivo, una volta maggiorenne, decisi di non essere più semplicemente Emma, ma di divenire Emma Swan. Era giunto il momento che il piccolo anatroccolo diventasse un maestoso cigno, capace di volare e di rincorrere i suoi sogni».
Regina chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi, ma i suoi tentativi furono inutili. Sentiva i suoi muscoli rigidi, i suoi nervi tesi. Ma, soprattutto, sentiva la sua anima agitarsi, quell’anima che lei credeva aver perso per sempre e di cui, ormai, custodiva solo il ricordo. Quell’anima che si dimenava, che lottava contro le fredde sbarre della sua prigione per uscire, per potersi manifestare. Quell’anima che la faceva inorridire dinanzi alle ingiustizie e che l’aveva sempre spinta a lottare per un mondo migliore, per un mondo più giusto. E si chiese perché, ad una persona come Emma, il fato avesse destinato una vita simile, un’esistenza fatta di dolore e solitudine. Si chiese se quella ragazza troppo cresciuta avesse mai provato l’amore, se avesse mai provato sulla sua pelle il sapore di uno sguardo pieno di dolcezza. Si chiese se mai qualcuno l’avesse ringraziata, ringraziata per la sua forza, per la sua costante presenza, per il suo essere se stessa. Ma la domanda che più le premeva e di cui più temeva la risposta era se ci fosse mai stato qualcuno che l’avesse ringraziata semplicemente per la sua esistenza. Ma preferì tacere i suoi dubbi e le sue preoccupazioni, timorosa di rompere quell’equilibrio e quel rapporto che aveva instaurato con la donna che la stava visitando. Perché Regina era profondamente convinta che un’anima nera come lei non meritasse una tale fiducia ed una tale importanza.
«Credo di non aver mai incontrato qualcuno come te- disse infine, guardandola negli occhi e perdendosi in quelle iridi verdi, come accadeva sempre- Non so chi siano i tuoi genitori, ma di una cosa sono certa. Tu sei figlia della luce, Emma».
Emma rise nell’udire quelle parole, scuotendo leggermente la testa. Solo quando vide comparire la confusione nello sguardo della donna, si decise a motivare l’origine di quella sua risata.
«Credo che tu sia la prima a dirmi una cosa del genere, Regina. La maggior parte delle persone che mi ha conosciuto, tende a descrivermi come una donna criptica, solitaria, chiusa in se stessa e, in qualche modo, oscura».
La confusione di Regina continuò a crescere dopo quelle parole.
«Stiamo parlando della stessa persona, Emma? Cosa c’è di criptico e di oscuro in te?»
«Forse più di quanto tu possa immaginare» rispose semplicemente la dottoressa, distogliendo il suo sguardo da quello di Regina.
E, solo in quell’istante, la donna comprese l’unicità di quel momento, di quelle parole. Perché Emma non aveva deciso di confidarsi del suo passato con lei per distoglierla dal suo presente e da quel male, sia fisico che interiore, contro cui combatteva quotidianamente. Emma aveva deciso di parlarne perché si fidava di lei, di quella donna che era capitata quasi per caso nella sua vita. E quando Regina prese coscienza di quella profonda verità, un sorriso si allargò sul suo volto, un sorriso bagnato da silenziose lacrime. Lacrime che non sfuggirono allo sguardo attento di Emma.
«Ti ho fatto male?» chiese la dottoressa, nella voce una sfumatura di apprensione e preoccupazione.
Regina scosse leggermente il capo, mentre le lacrime continuavano a scorrere, senza che lei facesse nulla per asciugarle.
«No, tranquilla Emma, non mi hai fatto male».
Emma le sorrise, continuando la sua visita.
«Sai, lo faccio anche io».
«A cosa ti riferisci?»
«Alle lacrime. Quando piango, lascio che le lacrime scorrano sul mio viso. Non le asciugo mai».
«Come mai?» chiese in un sussurro Regina.
«Quando ero piccola, era raro che piangessi e, quando succedeva, cercavo di nascondermi, perché me ne vergognavo. Ma fu solo quando la solitudine cominciò ad essere la mia compagna più costante, che compresi il profondo significato del pianto. In quei momenti, quando la solitudine si trasformava in una morsa difficile da combattere, tutto ciò che desideravo era una carezza, qualcuno disposto a preoccuparsi per me. Ma, ogni volta, mi ritrovavo sola, con le lacrime come unica compagnia e come unica consolazione. Fu in quel periodo che iniziai a credere che le lacrime non fossero altro che silenziose carezze dell’anima, della mia anima. E, da quel momento, smisi di asciugarle o di allontanarle dal mio viso, perché, in fondo, una carezza non va mai rifiutata. L’unico modo per allontanare una lacrima è che qualcuno sostituisca quella carezza con la propria- disse infine Emma, portando una sua mano sul viso di Regina, asciugando una lacrima con quella sua leggera carezza- E a me non va che tu pianga, Regina».
Il sorriso della donna si allargò maggiormente, mentre la sua mano andava a sfiorare quella di Emma, ancora poggiata sulla sua guancia.
«Grazie, Emma».
La giovane dottoressa le sorrise, cosciente che quel ringraziamento non era riferito solo alle sue ultime parole.
«Di nulla, Regina» disse, sciogliendo quel loro contatto ma lasciando che i suoi occhi restassero incatenati a quelli scuri della donna.
«Non capisco come le persone possano trovare qualcosa di oscuro in te» disse infine Regina, perdendosi in quello sguardo luminoso.
«In realtà è semplice, Regina».
La donna la guardò, in attesa che continuasse, ma Emma rimase in silenzio, gli occhi fissi sul suo corpo, concentrati a compiere il loro dovere. La visita continuò in un rigoroso silenzio per minuti che parvero eterni, finché la dottoressa non si allontanò da Regina, invitandola a rivestirsi.
Regina la guardò sedersi dietro la scrivania, mentre abbottonava distrattamente la camicia, perdendosi nella contemplazione dei gesti della giovane donna. Inutile, per quanto ci provasse, ai suoi occhi Emma Swan appariva come il più puro degli esseri, nonostante l’oscurità che risiedeva nel suo passato. Restò ancora qualche minuto ad osservarla scrivere parole strettamente mediche sulla sua cartella clinica, per poi decidere di scendere da quel letto e tornare a casa.
«Ferma lì, non ho ancora finito» disse Emma senza alzare lo sguardo, ma notando i movimenti della donna con la coda dell’occhio.
Regina la guardò interrogativa, ancora seduta sul lettino delle visite.
«Credevo avessimo concluso».
«Dalla visita non ho riscontrato alcuna anomalia» rispose semplicemente Emma, poggiando la penna sulla scrivania e tornando a puntare i suoi occhi in quelli castani di Regina.
«Ottimo. Posso andare adesso?»
Emma scosse leggermente la testa, in una chiara negazione, mentre un sorriso divertito andava ad affacciarsi sul suo volto.
Regina socchiuse leggermente gli occhi, cercando di sfoggiare la sua espressione più dura e pericolosa.
«Si sta prendendo gioco di me, dottoressa Swan?»
«Tutto qui quello che sa fare, signora Mills?- chiese di rimando Emma, mentre il suo sorriso si allargava maggiormente e un lampo di sfida tornava a brillare in fondo alle sue iridi, come avveniva sempre quando si trovava a doversi confrontare con la donna- Perché, se così fosse, sono spiacente di comunicarle che sarebbe condannata a perdere contro la sottoscritta. Quell’espressione da finta dura non spaventerebbe nemmeno un bambino di cinque anni».
«A dire il vero- riprese la donna, incrociando le braccia sotto il seno- Questa espressione ha spaventato parecchi uomini».
«Dovevano essere uomini senza un briciolo di personalità, allora» concluse Emma, alzandosi dalla sedia e dirigendosi verso di lei.
«Sono costretta ad asserire, mio malgrado».
«Swan uno, Mills zero» disse la dottoressa, prendendo posto vicino alla donna.
«Si goda la vittoria, dottoressa, perché è l’unica che le concederò».
Emma le riservò un sorriso sornione, prima di rispondere, la sua voce ridotta ad un flebile sussurro.
«Ma io non sono in cerca di innumerevoli vittorie, signora Mills. Io auspico ad un’unica vittoria, quella eterna».
Regina restò a guardarla, il suo sguardo improvvisamente serio, mentre assaporava quelle parole e custodiva dentro sé la verità che celavano.
«Volevi parlarmi di qualcosa, Emma?» chiese infine, facendosi coraggio.
«In realtà- disse la dottoressa, guardando un punto imprecisato davanti a lei e facendo dondolare leggermente le gambe- credevo che fossi tu a voler sapere qualcosa».
Regina comprese immediatamente a cosa Emma stesse facendo allusione, così decise di restare in silenzio, attendendo che fosse la ragazza a continuare quel discorso che era stato evitato durante la visita.
«Sai, Regina, penso che la luce non mi sia mai stata destinata- cominciò Emma, puntando nuovamente i suoi occhi in quelli della donna- Ed è per questo che la mia è un’anima oscura».
Gli occhi della donna si allargarono, stupita quanto incapace di credere a quelle parole.
«Ma cosa stai dicendo, Emma?»
«La verità» rispose semplicemente la dottoressa.
 «Stai scherzando, vero?» chiese Regina, cercando sul volto dell’altra qualcosa che desse credito a quella sua effimera speranza. Ma il volto di Emma rimase impassibile, contro ogni sua aspettativa.
«Sei seria» concluse infine, il volto tirato in un’espressione di pura incredulità.
«Ovvio» rispose semplicemente la dottoressa, senza scomporsi.
«No, tu stai mentendo, Emma. Tutto questo non ha senso, non può avere senso».
«Ne ha più di quanto credi».
«No, Emma, non ne ha. Lì fuori ci sono persone che non si pongono minimamente il problema delle loro azioni, agendo per puro egoismo e per il proprio interesse, e tu vieni a parlarmi di anime oscure? Ascoltami bene, non so quando questa convinzione si sia radicata dentro di te, ma non permetterò che tu creda a questa idiozia per un secondo di più».
«Arrivi in ritardo, Regina- rispose Emma, con un sorriso- Perché sono ormai anni che ne sono convinta».
«Non è possibile- disse la donna, passandosi le mani sul volto- No, Emma, io non voglio crederci».
«L’oscurità non è così male, Regina- disse Emma, guardando il soffitto- Basta non lasciarsi sopraffare da essa».
«Non si tratta di lasciarsi sopraffare, Emma. Tu non la meriti, è questo il punto».
«Io ho voluto meritarmela, Regina- disse la dottoressa, guardandola nuovamente- Perché, se non fosse stato così, io oggi non sarei qui. Non sarei la persona che hai davanti».
Regina la guardò confusa, incapace di comprendere.
«Come può tutto questo averti formata, rendendoti la donna che sei adesso?»
«Perché io desideravo essere normale, Regina- rispose Emma, incrociando le mani dietro la testa e appoggiandosi al muro- Ma la normalità non desiderava me. Quando sono uscita dall’orfanotrofio, non ho fatto altro che tentare di dare un senso a questa vita, cercando di essere come i miei coetanei, ma invano. Più mi sforzavo di assomigliargli, più sentivo che tutto ciò era sbagliato, perché io non ero come loro. Che lo volessi o meno, io ero diversa e questa mia diversità mi avrebbe portato a soffrire, in ogni caso. C’era solo un modo per sfuggire a quel destino già scritto».
«Quale?» chiese Regina, in un sussurro.
«Accettarmi. Accettare i miei difetti, il mio essere. Ma, soprattutto, accettare la mia diversità e puntare su di essa, affinché divenisse la mia forza. Ho camminato molto sulla via della luce, Regina, godendo e beandomi del torpore del sole, ma io avevo un sogno da inseguire e, per quel sogno, ho dovuto sacrificare la luce. Ed è per quel sogno che ho cambiato tutte le mie scelte, decidendo di tornare indietro, di addentrarmi nelle oscurità dell’essere, in quel mondo così temuto da essere completamente ignorato. Perché io volevo diventare un medico, Regina, e un vero medico è colui che decide consapevolmente di camminare nell’oscurità, di abbracciare l’oscurità. Perché è semplice operare nella luce, salvare il salvabile. Ciò che è difficile e ostico è tentare di salvare chi non vuole essere salvato, chi crede di non meritare alcuna salvezza. Mentre gli altri decidevano di essere stelle brillanti in un giorno di sole, divenendo mere sfumature nell’immensità luminosa, io ho scelto di essere una stella solitaria, bruciante nell’oscurità della notte. Perché è nelle tenebre più oscure che una fioca fiammella può sprigionare un’accecante luce. E io ho deciso di essere quella fiamma, Regina. Ed è per questo che l’oscurità non mi pesa, perché questo è il mio posto. Questa è la mia missione».
Regina aveva ascoltato ogni singola parola senza mai guardare Emma. Era rimasta ferma, immobile nella sua posizione, a fissare un punto indefinito davanti a sé, timorosa di rompere quell’atmosfera eterea che sembrava circondarle, estraniandole dal mondo esterno. Dal canto suo, Emma continuava a fissarla, le mani sempre incrociate dietro la testa, in una posizione quasi fanciullesca. Ma, nelle sue parole, non vi era nulla di puerile, perché, in quell’insieme di sillabe e suoni, si poteva avvertire la vera essenza di quella giovane donna. E il peso di quelle parole gravava, in quel momento, sulle spalle e sull’animo di Regina, che si ritrovò a chiedersi, ancora una volta, perché proprio a lei fosse toccata una simile fortuna. Perché Emma Swan fosse stata destinata proprio a lei.
«Io… io non so come fai, Emma» disse infine, quando ebbe ritrovato, anche se in maniera minima, il controllo della sua voce.
«Non c’è un modo, Regina- rispose la dottoressa, volgendo di nuovo lo sguardo al soffitto- Ci sono solo le nostre scelte».
«Come ci sei riuscita?» chiese la donna, guardandola per la prima volta da quando aveva cominciato a parlare.
«A fare cosa?» chiese Emma, guardandola a sua volta.
«A sorridere nonostante le avversità».
«Semplice, Regina. Ho visto troppe ingiustizie per decidere di rimanere in silenzio».
«Decidere di rimanere in silenzio?» chiese scettica la donna.
«Se avessi potuto scegliere, Regina, sarei rimasta in silenzio, continuando a camminare sulla mia strada, ignorando le tacite richieste di aiuto. Ma non ci sono riuscita, semplicemente non potevo».
«Perché?»
«Perché sono umana, Regina, e il più profondo significato dell’humanitas prevede che ognuno di noi si prenda cura del suo prossimo, perché umano, cioè simile a noi. Il benessere degli altri è anche un nostro interesse».
«Non tutti la pensano così» rispose la donna, guardando a sua volta il soffitto.
«Semplicemente perché abbiamo paura. Prendersi cura dell’altro significa essere disposti a mettersi a nudo dinanzi ad occhi che non conosciamo. E fa paura, perché esporsi significa essere coscienti di poter rimanere feriti».
«Ma tu lo fai comunque» le fece notare Regina.
«Solo perché sono fermamente convinta di una cosa».
«E sarebbe?»
«Che l’unico modo per combattere le ingiustizie, il dolore e la sofferenza è quello di donare al mondo ciò che di più bello e prezioso questa vita ci ha dato. E, a me, la vita ha fatto dono della speranza».
Regina scosse leggermente la testa, mentre un sorriso si allargava sul suo volto.
«Tu sei unica, Emma».
«Allora siamo uniche insieme» rispose la dottoressa, guardando il soffitto distrattamente.
Regina la guardò confusa, non comprendendo le parole dell’altra.
«Non credo di essere unica, Emma. Anzi, se proprio dovessi definirmi, direi che l’aggettivo più idoneo sarebbe ordinaria».
«Nessuno ha chiesto il tuo parere, egocentrica che non sei altro- rispose Emma, con un sorriso di sfida sul volto- Qui conta il parere del medico e si dà il caso che il camice bianco lo indossi io».
«Rettifico, tu non sei unica, sei impossibile» precisò la donna, rivolgendo nuovamente alla dottoressa uno sguardo di disapprovazione, che ebbe come unico effetto quello di far scoppiare a ridere la sua interlocutrice.
«Effettivamente, ho un’insensata propensione per le sfide impossibili».
Regina scosse leggermente la testa, mentre si lasciava andare ad una leggera risata.
«Bene, dottoressa dalle sfide impossibili, credo sia giunto il momento che vada, prima che i suoi pazienti mi lincino per la lunga attesa».
«Effettivamente, potresti incorrere in questa spiacevole situazione».
«In tal caso, saresti condannata a portare il peso della mia morte sulla tua linda coscienza» disse la donna, scendendo dal lettino.
«Non credo che la mia coscienza possa definirsi linda, signora Mills- rispose Emma, seguendo la donna- Ma, in ogni caso, lascerei che le conseguenze delle mie azioni ricadessero su di me e su di me soltanto. Non permetteri mai che un’innocente si sacrificasse al mio posto, nemmeno se quell’innocente risultasse essere la persona più egocentrica che abbia mai conosciuto nella mia vita».
«Faccia poco la spiritosa, dottoressa, o rischia che la sua scadente ironia le si rivolti contro».
«Correrò il rischio» rispose Emma, avvicinandosi alla porta e appoggiandosi allo stipite.
Le due donne si ritrovarono ancora una volta l’una di fronte all’altra, mentre il silenzio calava nuovamente tra di loro. Gli occhi di Regina vagarono di nuovo in quelli di Emma, ma questa volta cercò di leggere in essi quel passato che, fino a quel momento, le era stato celato.
«Perché sorridi?» chiese Emma, con un’innocenza così pura che Regina riuscì a paragonare solo a quella di un bambino.
«Non dovrei?» chiese a sua volta la donna.
«Affatto, la mia era solo curiosità» tentò di giustificarsi Emma, quasi timorosa di aver fatto un passo falso.
«Sono felice» rispose semplicemente Regina, facendo nascere anche sul volto della dottoressa un tenero sorriso.
«Questo mi fa davvero piacere» rispose Emma, mentre apriva la porta.
«Ci vediamo tra quindici giorni?»
«In realtà vorrei che passassi domani mattina verso le dieci, se non ti dispiace».
«Credevo che la visita non avesse riscontrato alcuna anomalia» disse Regina, mentre il suo tono tradiva una certa inquietudine.
«Infatti è così. Solo che ci sono quattro piccole pesti che ci terrebbero a vederti».
«I pirati?» chiese Regina, sorpresa.
«Proprio loro» annuì Emma, mentre il suo sorriso si allargava maggiormente.
«Ok, allora ci vediamo domani» rispose la donna, piacevolmente sorpresa da quella richiesta. Perché non poteva credere che dei bambini, le persone più innocenti del mondo, desiderassero la sua compagnia.
Nonostante il saluto, Regina rimase ferma nella sua posizione, in cerca delle parole giuste per poter ringraziare la donna che le stava di fronte. Ma non ebbe il tempo di formulare alcuna frase, perché ogni suo tentativo fu stroncato sul nascere da quella giovane dottoressa.
«Grazie per oggi, Regina. Mi ha fatto davvero piacere parlare con te».
Le labbra della donna si schiusero appena, sorpresa nell’udire quelle parole. Ma ritrovò in poco tempo la sua fermezza, restituendo ad Emma il sorriso che le stava rivolgendo.
«Allora a domani, Emma» la salutò semplicemente.
«A domani, Regina».

 
~Angolo Autrice~
Sono quasi due mesi che non pubblico e, sì, immagino vogliate linciarmi, esattamente come i pazienti fuori lo studio di Emma! Purtroppo ho avuto un periodo pieno di esami e questo capitolo si è dimostrato essere più ostico di quel che credevo, perché oltre a parlare del passato di Emma, già di per sé difficile, in questo capitolo c’è anche molto di me e mettersi a nudo attraverso le parole non è sempre la cosa più semplice. In ogni caso, ci tengo a precisare una cosa. A volte mi è stato fatto notare che il personaggio di Emma sia, in qualche modo, più approfondito rispetto a quello di Regina. È vero, Emma rappresenta il mio ideale di medico, ciò che un giorno vorrei diventare, gli ideali che un giorno vorrei conseguire. Ma se la giovane dottoressa dagli enormi occhi verdi sembra rappresentare il futuro che vorrei poter scrivere per me stessa, c’è anche da dire che Regina rappresenta il mio passato e il mio presente, il mio lato oscuro e le mie paure più intime. Penso di non esser mai stata così dentro ad una storia come con questa ed è per questo motivo che, a volte, fatico quasi a scrivere, perché davvero è difficile liberarsi di tutte queste armature e analizzarsi, scindendo ciò che si è da ciò che si vorrebbe essere.
Passando al capitolo, e volendo sdrammatizzare un po’, spero di non aver ucciso nessuna SQ con la scena della camicia e della carezza! Sono sadica, I know, perché ho precisato dal primo momento che in questa storia non ci sarebbe stato alcun coinvolgimento amoroso e intanto vi strazio con queste cose. Vorrei però sottolineare che mai come in questo capitolo, Regina vede Emma come la figlia che non ha mai avuto, di conseguenza la commozione che ne consegue è da rapportare a questo stato d’animo della donna. Beh, che altro dire, mi scuso ancora per il ritardo e spero che il capitolo sia valso l’attesa.
Ah, in questo capitolo doveva esserci un’altra scena, quella con i bambini, appunto, ma dal momento che ritenevo questo capitolo abbastanza importante di suo, ho preferito rimandarla al prossimo! Ah, inoltre volevo comunicarvi che, tranne per cambiamenti di programma, mancano quattro capitoli per la fine della storia. Ciononostante, ci sarebbero, almeno per il momento, due capitoli extra che inserirò come spin-off di questa storia, dove mi piacerebbe analizzare il lato fragile di Emma e quello forte e determinato di Regina. Sono, infatti, capitoli abbastanza "duri", che avrebbero stonato con il messaggio di speranza e forza di questa storia ed è per questo che li inserirò in un contesto a parte.
  
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