Capitolo 1
Si
svegliò col lento ticchettio dell’orologio poggiato sul comodino accanto al
letto, restando semplicemente immobile mentre gli ultimi residui del sonno
scivolavano via dal suo corpo ridandogli un pigro controllo sulle sue membra intorpidite.
John
si alzò dal letto scostando elegantemente le lenzuola, portandosi le mani al
volto e lasciandole scivolare verso la testa, su nei capelli tirando indietro
il suo ciuffo ribelle che, durante la notte, aveva deciso deliberatamente di
coprirgli metà faccia; si diresse alla finestra per scostare con un delicato ma
rapido gesto lo spesso drappo di velluto blu che fungeva da oscurante per la
notte e lasciandosi irradiare completamente dal sole del mattino che si alzava
allegro tra i palazzi del circondario. John sospirò,lasciandosi scappare un
profondo sbadiglio prima di aprire la finestra e dirigersi verso il bagno.
Quando
uscì dalla camera da letto fu accolto da un leggero tintinnio di stoviglie con
in sottofondo il chiacchiericcio delicato di due voci allegre e familiari. Il
tutto accompagnato da un’epifania di profumi che avevano fatto lamentare il suo
stomaco vuoto in modo decisamente troppo poco elegante non appena gli avevano
inebriato le narici. Bacon, uova strapazzate e sicuramente pan cake alla crema
pasticcera. Il suo preferito.
Scese
le scale, raggiungendo il soggiorno al pian terreno ed attraversandolo senza
fare caso alle valigie ancora adagiate all’ingresso; una era aperta, con alcuni
capi d’abbigliamento femminile che disordinatamente si sporgevano verso il
pavimento senza cura alcuna di toccarlo ed un tubetto di dentifricio posato in
cima a fermarne una eventuale caduta.
Raggiunse
la cucina senza fretta, con un sorriso allegro sulle labbra che si allargò
quando il suo sguardo si fermò sulla coppia seduta al tavolo intenta a fare
colazione e ridere di chissà cosa.
“Buongiorno.
La camera era di vostro gradimento, Signori Pond?”
La
coppia si voltò verso di lui accogliendolo con un sorriso radioso, o almeno era
quello che si disegnava sul volto di porcellana della donna dai lunghi capelli
rossi. Sul volto dell’uomo biondo, sulle cui ginocchia era seduta lei, si formò
un sorriso di scherno mentre lasciava ricadere il cucchiaio nella scodella di
cereali con cui era intento a fare colazione e rispondeva:
“Williams.
Signori Williams.”
La
donna morse una fetta di pancake, lasciandosi scappare un risolino divertito
mentre alternava lo sguardo tra i due, facendo accentuare il fastidio del
marito.
“No.
Pond. Assolutamente Pond. Amy e Rory Pond.”
Rispose
John, sedendosi al tavolo e servendosi la colazione che, sicuramente, era stata
Amy a preparare.
Rory
sospirò, rassegnato al fatto che a portare i pantaloni in famiglia, per John,
non sarebbe mai stato lui ma sua moglie.
“Sono
felice che siate qui. Mi siete mancati.”
Le
parole di John arrivarono rapide e sincere tra un morso ad una fetta di bacon
ed un boccone di uova strapazzate. Ma se anche dette a bocca piena quasi
distrattamente, avevano riempito di gioia i cuori dei suoi due amici.
“Però
dillo con una faccia più allegra, brontolone. Ecco cosa ti succede a stare
troppo tempo da solo, senza di noi. Diventi triste e noioso!”
John
sorrise, mentre Rory ingoiava un cucchiaio di cerali e poi continuava.
“Anche
tu ci sei mancato. Ci voleva una rimpatriata dopo tutto questo tempo. Manca
solo….”
Rory
si interruppe forse troppo tardi, lasciandosi sfuggire un pensiero che come un
alito gelido di vento si era insinuato tra loro spaccando l’equilibrio che
avevano avuto fino a quel momento.
Nei
millesimi di secondo immediatamente successivi, Rory si ritrovò un gomito della
moglie piantato nel fianco, John invece con la mano ferma a mezz’aria,
attraversata da un fremito che si diradò anche attraverso la forchetta che
stringeva tra le dita lasciando cadere da essa un piccolo pezzo di bacon sul
tavolo. La bocca che si chiuse lentamente senza toccare cibo.
Negli
apparentemente interminabili attimi di silenzio che seguirono sembrava che il
mondo fosse rimasto sospeso, congelato in un solo momento senza tempo.
“John…”
La
voce di Amy era come un eco lontano.
“John…”
Rory
restava immobile. La mano di John lentamente discese verso il piatto, lasciando
ricadere la forchetta.
“Amy…no.”
Fu l’unica sottile ed incorporea parola che gli uscì dalle labbra
improvvisamente inaridite, un semplice sussurro.
“Sono
passati due anni…”
“Per
favore…” Una richiesta semplice e disperata da parte di John.
“Amy…
lascia stare.”
“No
Rory!” La donna insistette, piegandosi con la schiena in avanti a sporgersi sul
tavolo, in direzione dell’uomo seduto all’altro capo. “John… una telefonata.
Sono passati due anni, per l’amor di Dio! Dovresti parlarle. Ed anche..”
“Amy.
No. Basta.”
Un
colpo secco sul tavolo. Il pugno chiuso e tremante. Era bastato a chiudere lì
la conversazione.
Al
ritorno dal lavoro, quella sera, John aveva trovato la casa ancora vuota. Un
messaggio in segreteria lasciato da Amy lo avvisava che sarebbero rientrati più
tardi del previsto perché la presa in carico del suo nuovo lavoro aveva richiesto
più tempo del previsto e Rory l’avrebbe aspettata per rientrare insieme.
John
aprì il frigo, cercandovi dentro chissà cosa e richiudendolo pochi istanti dopo
senza aver preso nulla dal suo interno. Raggiunse il soggiorno, aprendo la sua
ventiquattro ore per tirarne fuori alcuni documenti. Sprofondò sul divano dando
uno sguardo distratto al progetto su cui stava lavorando già in ufficio prima
di lanciare il fascicolo sul tavolino di fronte.
L’orologio
segnava le 19:00, lo sguardo di John si fermò sul telefono mentre si portava
una mano al viso contratto in un’espressione meditativa. Lasciò scivolare la
mano fino al mento poggiando il gomito sul ginocchio. Sospirò pesantemente
mentre il pensiero che Amy a colazione forse aveva ragione gli si insinuava
nelle sinapsi.
Pochi
istanti dopo, si era allungato verso il cordless e le sue dita digitavano un
numero che mai aveva dimenticato, mai avrebbe potuto neanche volendo e, Cristo!
Quanto aveva desiderato farlo!
Oltre
il ricevitore sentì squillare a vuoto due, tre, quattro volte prima che una
voce rispondesse.
“Pronto?”
Il
suo cuore si fermò per un attimo, riprendendo poi a battere all’impazzata e
facendogli male in un modo disumano. Il torpore in cui aveva vissuto gli ultimi
due anni si stava dileguando, bruciandogli le carni dall’interno del petto ed
espandendosi disperatamente in tutto il corpo. Pensava di aver superato il
trauma. Ma in un solo attimo la fortezza di kevlar che si era creato attorno
negli ultimi due anni era caduta su se stessa come fosse stato un castello di
carte, la sicurezza che lo caratterizzava da sempre e che in questo lasso di
tempo pensava di aver potenziato esponenzialmente si era infranta come un
bicchiere di cristallo caduto al suolo.
Quella
voce allegra. Cristo quanto gli era mancata!
“Clara..?
Clara Oswald?”
La
voce incerta, nelle sue orecchie non gli sembrava nemmeno gli appartenesse.
“Si.
Sono io… Chi… parla?”
Per
un attimo ebbe la sensazione che anche la persona dall’altro lato del telefono
sembrasse incerta, un brivido gli attraversò la schiena credendo di avvertire
chissà quale recondita emozione che, ondeggiante, si insinuava tra loro. O
forse solo si illudeva di… chissà cosa!
“John…John
Smith… hemm… sono…”
Clara
lo interruppe:
“Ho
riconosciuto il numero sul display.”
Ecco
perché l’esitazione nella voce di lei che aveva avvertito all’inizio. Chissà
cosa aveva pensato vedendolo, se aveva in dubbio di rispondere oppure no. Il
cuore gli martellava nelle orecchie, pompando forse troppo sangue al cervello e
rendendogli difficile formare pensieri coerenti ed altrettanto difficili da
rendere quindi in parole.
“Eleven.”
John
tacque, col respiro mozzato al sentire quel soprannome. Era il suo soprannome, quello che Clara
usava per chiamarlo. Avvertì il sorriso di Clara in quell’unica parola anche se
non poteva realmente vederlo. Lo sentiva nella voce. E tanto bastò a far
rilassare in un sorriso anche le sue, di labbra.
Alcuni
anni prima…
Clara
Oswald si era fermata ad osservare il giardino innevato che le si mostrava
davanti, portandosi la mano sinistra al mento e poggiando il gomito dello
stesso braccio sul dorso della mano destra.
Strinse
il labbro inferiore tra i denti mentre piegava il polso sinistro in avanti e
rileggeva il foglietto che stringeva tra indice e pollice e sul quale vi erano
alcune annotazioni.
Non
vi era un cancello né reticolati a circondare la proprietà, ma la casa
indipendente che le si mostrava davanti sembrava essere proprio quella
descritta sula nota. L’indirizzo era sicuramente esatto, non poteva sbagliarsi.
Ignorando la neve ed il freddo pungente,
aveva girato un po’ per il quartiere prima di rifermarsi nuovamente davanti alla
stessa abitazione, sicura ormai che fosse quella giusta. A suggerirglielo, in
particolare, erano quelle due statue di Angeli poste l’una di fronte all’altra ai
lati del porticato in modo speculare: le ali ripiegate in posizione di riposo
dietro la schiena dritta, la testa piegata leggermente in avanti a nascondere
il viso tra le mani, quasi stessero piangendo, nascondendosi i volti l’un
l’altro.
Non
sapeva dire se quel particolare fosse semplicemente elegante e poetico o
estremamente depressivo. Si fece coraggio, però, attraversando il piccolo
viottolo, passando poi tra i due angeli col fiato sospeso e raggiungendo la
porta. Lesse il nome sulla targhetta dorata posta sul fronte porta, riguardando
nuovamente il foglietto che la sua compagna le aveva dato.
Dott. J. Smith
Si.
Era la casa giusta.
**
“Ancora
non ho capito perché siete a casa mia…si può spegnere questo stereo?”
John
era seduto sul divano, con il tavolino cosparso di appunti e diagrammi ed un
libro di Fisica.
Il
fuoco del camino si irradiava verso di lui scaldandogli dolcemente la pelle. Il
caldo lo aveva costretto a tenere addosso solo i pantaloni della tuta. Il
sottofondo musicale appena percettibile di Mozart.
“In
realtà, l’unica cosa anomala in tutto questo sei tu. E no. Il sottofondo
musicale è rilassante!”
Amy
si affacciò dalla cucina, con una fetta di pane tostato nella mano sinistra ed
un coltello sulla cui punta sembrava esserci residuo di burro e marmellata
nella mano destra.
“Perché?
Cos’ho di strano?”
Rispose
John, togliendo lo sguardo da un esercizio incentrato sui campi gravitazionali
e passandoselo addosso distrattamente.
Rory
era seduto sulla poltrona, un po’ più vicino al camino, con una coperta in pile
a coprirgli le gambe ed un libro di anatomia umana in grembo:
“John.
E’ metà Gennaio, fuori ci sono tre metri di neve e tu indossi solo i pantaloni
della tuta.”
“Bè,
è fuori che fa freddo. Dentro casa no!”
Rory
sospirò, tornando a concentrarsi sui suoi studi ed ignorando il broncio
infantile che John aveva messo sul viso in quel momento.
Erano
cresciuti insieme, loro tre. Pochi anni di differenza avevano tra loro, John
era il più grande ma avevano vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza
sempre insieme come fratelli. Anche quando tra Rory ed Amy le cose si fecero
più profonde, il loro rapporto non sembrava averne risentito anzi. Amy e Rory
erano la sua famiglia. Fu questo a spingerlo, in età adulta e pronti per il
college, ad offrirgli ospitalità a casa sua. Avevano accettato solo con l’intesa
che avrebbero diviso le spese di casa e pagato una quota mensile a solo scopo
figurativo, ma alla fine John li aveva convinti semplicemente a contribuire per
le bollette e viveri di varia natura. In pratica, condividevano tutto.
“Darò
in affitto la vostra camera se continuate a disturbare i miei studi. Mozart
potrebbe passare, ma il profumo di pane tostato e marmellata… questo è un
attentato alla mia concentrazione ed al mio impegno studentesco!”
Amy
si lasciò scappare una risata dalla cucina mentre Rory chiudeva il libro e si
alzava sospirando. Lanciò uno sguardo a John facendogli poi cenno con la testa
di andare in cucina quando i loro sguardi si incrociarono. John sorrise e si
alzò accennando un si con la testa.
“Ah.
A proposito di affitto…” Si lasciò sfuggire poi Amy. “Mi ero dimenticata di
avvertirvi… visto che c’e una camera libera… ho trovato un nuovo coinquilino.”
Mentre
Rory si sedeva al tavolo e rubava una fetta di pane tostato dal piatto di Amy,
John si fermò sulla soglia con uno sguardo confuso fisso sulla ragazza.
“Cosa?
Non abbiamo bisogno di un coinquilino.”
“Oh,
andiamo John! Le spese di casa aumentano e nessuno di noi ha un lavoro.
Approfittiamo già della tua ospitalità risparmiando sull’affitto, ma non
possiamo chiedere sempre soldi ai nostri genitori o… dipendere da te.”
Amy
era seria questa volta, con lo sguardo corrucciato mentre spalmava del burro su
una fetta un po’ troppo bruciacchiata.
“Sarebbe
un’entrata sicura che ci permetterebbe di risparmiare soldi da usare per
eventuali emergenze… so che avrei dovuto parlarne con te, ma…”
Rory
intervenne dopo aver ingoiato un boccone:
“Ho
capito cosa intendi, Amy. Ma metterci un estraneo in casa… non mi piace molto
come idea. E credo neanche a John.”
“Non è un estraneo. Frequenta i miei stessi
corsi da quando ho cominciato l’Università, procediamo di pari passo e ci
conosciamo quindi da… un anno e mezzo. Vi piacerà, fidatevi! E dovrebbe essere
qui tra…”
Il
campanello suonò, facendo voltare i tre verso l’uscio della cucina. Non
potevano di certo vedere chi fosse da quella distanza e con le pareti ed il
salotto da attraversare per raggiungere la porta. Ma il sorriso di Amy spinse
entrambi i ragazzi a sospirare.
“Puntuale!
Oswald ha spaccato il minuto, come al solito!”
Quando
John aprì la porta il suo corpo sembrò gelarsi. Non per il freddo pungente che
prepotentemente sembrava volersi spingere dentro casa e dissiparne il calore,
ma per lo sguardo profondo, sebbene incerto, della moretta che gli si era
presentata davanti. Il respiro mozzato mentre la fissava incapace di muoversi.
“Hemm…
credo… di aver sbagliato casa.”
Lo
sguardo di John ancora incatenato agli occhi sfuggenti di Clara; poteva leggere
in quelle pozze profonde di fango l’imbarazzo di… cosa? John non sembrava
capire.
“Oswald!
Vieni dentro!”
La
voce di Amy dall’interno persuase Clara ancora una volta che quella era proprio
la casa giusta, convincendola a piegare leggermente la testa di lato e la
schiena in avanti mentre con lo sguardo diretto oltre le spalle di John cercava
il volto della sua compagna.
“Amy?”
John
lasciò cadere le spalle quasi rilassate, mentre cercava di ritrovare la voce.
“Quindi…
tu sei Oswald?”
Clara
tornò con lo sguardo sul ragazzo alto di fronte a lei, notando quel ciuffo
ribelle che era ricaduto chissà quando a coprirgli l’occhio destro.
“Si.
E tu sei… nudo. Perché sei nudo?”
John
si portò inconsciamente le braccia ad incrociarsi sul petto, le mani che si
stringevano sotto le ascelle a voler quasi coprire il torace in una sorta di
velato pudore. Ma la sua espressione imbronciata ammorbidì un po’ quella tesa
di Clara mentre le rispondeva:
“Che
domande… è casa mia! E’ non sono nudo, ho i pantaloni.”
“Come
se facesse differenza. Posso tornare, se eravate impegnati in… qualcosa.” La
risposta impertinente di Clara lo lasciò in silenzio, con un’espressione quasi
sconvolta dall’insinuazione errata ed un calore improvviso che dalle guance si
espanse fino alle orecchie.
“Cos..?
No! No no no no!”
Cercò
di rispondere per dissolvere il malinteso, tirando la schiena indietro e
muovendo la mano destra in modo sconnesso e forsennato davanti al viso; cercò
qualche altra cosa da dire mentre Amy finalmente lo raggiungeva sul posto e lo
spostava bruscamente dall’ingresso. Vide la rossa tendere calorosamente una
mano sorridente alla sua compagna di corsi, ignara del fraintendimento.
“John,
fa freddo fuori, falla entrare!”
Mentre
la Amy trascinava dentro casa la nuova arrivata, John si ritrovò a chiudersi la
porta alle spalle e gli occhi puntati sulla schiena della moretta impertinente,
con il corpo intorpidito e le guance arrossate. Se fosse per colpa del freddo o
del caldo, non sapeva dirlo.
Ho
una linea da seguire riguardo alla storira, ma non so quanti capitoli
durerà, spero pochi, ma la porterò di sicuro a termine. Per il momento, comunque, avverto che l'unica
coppia affermata in essa è Amy/Rory, per il futuro di altre ed eventuali....
sappiate che il diavoletto che è in me non ha pace xD è un avvertimento xD