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Autore: emotjon    19/03/2015    5 recensioni
Lui, tuono e tempesta.
Lei, emozione e disincanto.
Insieme, un accordo di corde e suoni, pelle e sensi. un melodia che vibra sulle corde del cuore.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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4. Lezione di solfeggio.

 



Le dita di Esme si erano riabituate a giocherellare con la collana a forma di cuore, dalla mattina in cui lui gliel'aveva riportata. Era da parecchio che la teneva addosso solo come abitudine, ma da quando aveva visto lui suonare e da quando quella mattina erano scesi insieme a colazione - per quanto fosse irritata per esser stata svegliata tanto presto - sembrava essere cambiato tutto. Le era tornato il vizio che aveva quando stava con Louis, quello di stringere sempre la collana come per tenere le mani impegnate e cercare di placare il nervosismo; beveva più caffè del solito, per quanto potesse essere possibile berne più di quanto non facesse già; e aveva sempre un gran sorriso stampato in faccia, come non riuscisse a levarselo di dosso, come una bambina la mattina di Natale.
Le dita di Esme giocavano con quella collana di continuo, da quando era arrivato lui. Soprattutto quando lui era nei paraggi, quando lui sorrideva, suonava, parlava, o semplicemente respirava. Era come se Zayn si fosse inconsapevolmente legato a quella collana e di conseguenza a lei, come se sfiorandola avesse dato a quel gioiello un significato diverso, ancor più profondo di quanto non significasse prima per la mora.
E le sue dita la sfioravano sempre perché lui era praticamente ovunque andasse lei - o al contrario lei era ovunque andasse lui. Era quasi un rapporto di simbiosi, una strana convivenza che li vedeva condividere la stessa aria ogni secondo possibile, parlando di qualunque cosa venisse loro in mente ma soprattutto di musica, camminando fianco a fianco di aula in aula o solo osservandosi.
In quelle due settimane che seguirono quella colazione inaspettata, la ragazza poteva dire di aver imparato a memoria ogni movimento che il violoncellista faceva suonando, parlando o anche solo respirando; ne aveva imparato a memoria i movimenti leggeri o violenti che fossero dell'archetto; aveva imparato a decifrarne gli sguardi, i gesti delle mani mentre parlava o il vizio che aveva di mordersi il labbro quando non sapeva che dire; aveva registrato ogni suo tono di voce e ogni minima sfumatura del suo sorriso, riavvolgendo il nastro e rivivendo tutto ogni volta che soprappensiero non riusciva a rivivere altro che non fosse lui.
Le dita di Zayn invece si erano riabituate a tremare, dalla mattina in cui le aveva riportato quella collana. Avevano tremato da quando gliel'aveva rimessa al collo e le aveva sfiorato appena la pelle. E avevano tremato durante la colazione e mentre le spiegava a grandi linee perché fosse così incazzato, gli era tornato lo stesso nervosismo che gli impregnava ogni cellula quando aveva Miriam, quello che lo faceva gesticolare quando parlava o gli faceva distogliere lo sguardo da lei anche se non avrebbe fatto altro che guardarla e gli faceva incastrare le dita tra i capelli quando rideva, sperando che ridesse anche lei con lui. E inghiottiva più nicotina del solito, più di quanta già non gli distruggesse i polmoni. E aveva sempre un mezzo sorriso ad increspargli le labbra, tanto che gli sembrava di essere tornato bambino e che i problemi che gli corrodevano il cuore fosse scomparsi, evaporati come rugiada sotto al sole.
Le dita di Zayn avevano ripreso a tremare di continuo, da quando era arrivata lei. Soprattutto quando lei era nei paraggi, quando lei sorrideva, cantava, parlava, o semplicemente respirava. Era come se Esme si fosse legata a lui solo scostandogli una ciocca di capelli dal viso, come se sfiorandogli la pelle e il sudore, il suo cuore avesse preso a battere in modo diverso dal solito - più forte, intenso, veloce, impaziente, nervoso.
E le sue dita tremavano sempre senza che riuscisse anche solo a placarle un po', perché erano praticamente sempre insieme, a respirare la stessa aria e a parlare di tutto ma soprattutto di musica e ad osservarsi come fossero opere d'arte da cui fosse impossibile distogliere lo sguardo. In quelle due settimane che seguirono il violoncellista poteva dire di aver imparato a memoria ogni movimento che facevano le dita della cantante mentre provava, parlava, sorrideva o anche solo respirava; ne aveva imparato a memoria le inflessioni della voce, le sfumature di verde che le coloravano lo sguardo o il vizio che aveva di giocare col piercing al labbro quando le veniva da ridere ma voleva nasconderlo; aveva registrato tutto, dal suo modo di camminare, al suo modo di spingerlo giocosamente a qualsiasi altro particolare che poteva sembrare inutile ma che per Zayn era l'unico modo per riviverla ovunque fosse e sentirla con sé anche quando non c'era.
La sveglia doveva aver suonato e lei a quanto pareva doveva averla spenta, ma era ancora troppo assonnata per essersene accorta o anche solo per ricordarsene. Assonnata dalla nottata passata quasi in bianco per colpa di qualcuno, che non riuscendo a dormire lui stesso l'aveva tenuta sveglia a parlare praticamente di nulla. Qualcuno che, per quanto la facesse sorridere per niente, avrebbe ucciso a sangue freddo alla successiva notte in bianco. O, forse, non l'avrebbe ucciso, ma di sicuro gli avrebbe fatto male abbastanza da farglielo ricordare a vita. Qualcuno che quella notte aveva scherzato con lei come la conoscesse da sempre, e che le aveva dato la buonanotte anche se probabilmente lui poi non era comunque riuscito a dormire.
Prese il cellulare dal pavimento e scivolò da sotto le lenzuola sbloccandone lo schermo. Una foto con Michael le diede il buongiorno facendola sorridere appena, prima che il sorriso le si ampliasse al vedere una notifica lampeggiare in un angolo, ad avvertirla che c'era un messaggio non letto da... Zayn. Si legò i capelli ridacchiando, pensando di essere la creatura più ridicola dell'universo, in quel momento; perché lei non sorrideva mai così tanto, tantomeno scoppiava a ridere da sola al vedere la notifica di un messaggio... non si era mai comportata così in ventitré anni, e di certo non per un ragazzo.
Forse non aveva mai sorriso in quel modo nemmeno per Louis.
 
Nuovo messaggio da: Zayn (7:28)
Buongiorno, micetta...
 
Messaggio a: Zayn (8:12)
Micetta? Ti hanno drogato il caffè, gattino?
 
E si sfilò la canottiera bucata che usava per dormire con ancora il sorriso addosso, fermando poi i ricci che le ricadevano sul collo con una matita presa dalla scrivania mentre caracollava stranamente allegra verso il bagno. Troppo allegra, per una che non aveva ancora preso il solito caffè nero ed era stata sveglia la metà della notte a ridere nel cuscino per non svegliare nessuno. Troppo allegra, per una che guardandosi allo specchio non riusciva a capire dove finissero le occhiaie e dove iniziasse uno dei tanti sbadigli che non sarebbe riuscita a trattenere nemmeno volendolo davvero.
Cominciò a pensare di essere l'unica a non essersi svegliata, quella mattina, quando una volta vestita, col cellulare in tasca e uscita in corridoio, di ritrovò da sola e nel silenzio più assoluto, con solo il lieve suono degli strumenti o delle voci provenienti dalle aule a disturbarle le orecchie, insieme al leggero sciabordio che faceva il caffè bollente nel solito bicchiere di carta che teneva in mano, mentre la mano libera era impegnata a sfiorare il ciondolo che teneva al collo, leggermente soprappensiero e un po' come se si aspettasse di veder comparire Zayn da dietro l'angolo da un momento all'altro.
Cominciò a pensare che probabilmente era anche l'unica a non riuscirsi a far bastare poche ore di sonno, visti gli sbadigli che continuavano a scivolarle via dalle labbra. Anche se, probabilmente, nonostante avesse voluto uccidere colui che l'aveva tenuta sveglia, non si sarebbe mai pentita di quella notte insonne. Quella notte le aveva regalato l'emozione di conoscere lo Zayn divertente, allegro davvero e spontaneo; quella notte le aveva regalato più risate di quante le sue labbra non avessero emesso dall'inizio dell'anno; quella notte era rimasta sveglia perché lo voleva lei, non semplicemente perché gliel'aveva chiesto lui.
E cominciò a pensare che forse avrebbe davvero dovuto affidarsi di più ai propri presentimenti quando - con ancora le dita a sfiorare il ciondolo - sentì un fin troppo familiare modo di suonare il violoncello arrivarle addosso. Flebile, lontano, attutito dalle pareti insonorizzate. Suono che la fece sorridere come una bambina, di nuovo, mentre fregandosene di tutto abbassava piano la maniglia ed entrava in una delle aule per le lezioni individuali degli strumentisti.
L'orecchio allenato le aveva fatto riconoscere il suono del violoncello. E in qualche modo aveva anche indovinato chi lo stesse suonando, senza vederlo. In qualche modo riconosceva Zayn come fosse una parte di se stessa... non ne capiva il motivo, ma non riusciva a fermare quelle sensazioni e quei sorrisi e quei gesti. Non poté fermarsi da spiarlo nemmeno quella volta, chiudendosi la porta alla spalle attenta a non fare rumore e sedendosi sul primo banco che le capitò di fronte, con la borsa e il bicchiere di caffè al proprio fianco, il leggerissimo suono dell'archetto a sfregare contro le corde del violoncello classico nelle orecchie e Zayn riflesso nelle proprie iridi.
Solo lui, ad attirare la sua attenzione.
Solo lui e il suo modo diverso nel suonare. Il suo essere diverso, in quella stanzetta insonorizzata. Col violoncello diverso dal solito, di legno scuro e con la cassa di risonanza che non era abituata a vedere - dato che l'elettrico non ce l'aveva. Vestito diversamente dal solito, quasi fosse la divisa dello strumentista classico; con un paio di pantaloni neri stretti che gli fasciavano le gambe in tensione dalla posizione mantenuta per suonare, una camicia bianca abbottonata quasi fino in cima e una giacca nera. Era... elegante. Ed era quasi strano vederlo così tanto vestito, così meno emotivamente convolto, meno arrabbiato, più tranquillo. Era come rilassato nonostante lo sforzo evidente, con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra e la mascella solo appena serrata, coi capelli legati e in ordine.
Sembrava un altro musicista, un altro Zayn. Ma era pur sempre lui, con lo stesso modo di sentire le note sulla pelle e lo stesso identico modo di creare musica, di muovere l'archetto, di respirare a ritmo con esso. Era pur sempre la stessa ruga, quella che gli si formava tra le sopracciglia, ed erano pur sempre gli stessi sospiri, quelli che gli sfuggivano dalle labbra e gli tornavano indietro al movimento successivo e in fondo era pur sempre lui, con la stessa passione di sempre.
Esme lanciò un'occhiata all'insegnante, sedutogli poco lontano, che teneva una mano in grembo e l'altra a muoversi leggera nell'aria come lo stesse dirigendo. Gli occhi chiusi, le labbra a muoversi da sole come stesse analizzandone le note. Concentrato anch'egli su ogni nota, ogni movimento, ogni vibrazione che l'archetto scivolando contro le corde faceva nascere nell'aria, fino a scemare nelle orecchie e contro le pareti. Concentrato come lo era Zayn finendo di suonare. Concentrato come lo era lei mentre lo guardava senza riuscire a smettere e lo ascoltava non riuscendo a farne a meno.
Concentrata sulle sue mani, Esme. Sulle dita che stringevano l'archetto e su quelle che premevano sulle corde. Sulla stretta di quelle mani, sulla sua pelle. Sulla sensazione di sentirle addosso, come stesse suonando lei, e non lo strumento. Concentrata sul suo viso, sulle sue labbra e sulle sue ciglia, che mentre la lezione finiva sfarfallarono fino a fargli riaprire gli occhi castani, luminosi e improvvisamente fissi su di lei. Concentrata sul mezzo sorriso che le rivolse finendo di suonare scostando con grazia l'archetto dal violoncello e poco consapevole del sorriso che di riflesso comparve sul proprio volto, che fece mordere il labbro al ragazzo, mentre con poca grazia si alzava dalla sedia posando il violoncello per poi andarle incontro.
Il suo entusiasmo la fece scoppiare a ridere. I suoi occhi che sembravano brillare solo per lei le scaldarono il cuore, prima che esso prendesse a battere come un forsennato e senza che ci fosse un modo, uno qualsiasi, per fermarlo. Il suo ennesimo sorriso gliene fece reprimere un altro in risposta, nascosto ancora dal bicchiere di caffè che di nuovo si portò alle labbra; provava a nascondere l'allegria, Esme, ma per quanto ce la stesse mettendo tutta, non c'era verso - le brillavano troppo gli occhi perché riuscisse a nasconderlo.
Combattuta se scappare a lezione o restare, il musicista la precedette strappandole il caffè di mano, prendendone un sorso e facendo una smorfia al sentirlo così amaro - troppo amaro, per i suoi gusti. La precedette, impedendole di starci troppo a pensare, quando se la tirò contro per abbracciarla; lei ancora seduta su quel banco con le gambe leggermente divaricate e lui con le mani sui suoi fianchi, il corpo tra le sue gambe e il respiro che le sbatteva contro l'orecchio facendola rabbrividire. Pronta a scappare ridacchiando, prima che lui la stringesse a sé senza possibilità di fuga, premendo sulla sua schiena e respirando contro la pelle del suo collo.
In trappola. Ma forse scappare non aveva senso, se lì stava così bene.
«Non così in fretta, micetta».
Ancora questo ridicolo soprannome? «Devo andare a lezione, gattino».
E Zayn non poté far altro se non riderle addosso, con le labbra ancora contro la pelle e il suo profumo a impregnargli le narici, allontanandosi poi per guardarla in quegli occhi verdi che brillavano di divertimento e lasciandosi spingere di un passo, in modo che lei scendesse dal banco e raccogliesse le proprie cose - prendendo un sorso di caffè e sorprendendosi nel constatare che sapesse delle sue labbra. Zayn non poté far altro se non seguirla con lo sguardo, mentre la mora si rigirava verso di lui e gli faceva la linguaccia strizzando gli occhi verdi mentre da dietro le lenti degli occhiali scoppiava a ridere, ancora.
La risata di quella ragazza lo mandava fuori di testa. Solo quella risata, riusciva a fargli dimenticare in meno di un secondo dove si trovasse o anche come si chiamasse. Solo la sua risata lo mandava fuori di testa, gli faceva credere che avrebbe potuto fare - e farle - di tutto. L’avrebbe sentita ridere per il resto dei propri giorni, non fossero stati interrotti dal caschetto biondo di Iris e da una delle sue sopracciglia chiare elegantemente inarcate sugli occhiali dalla montatura scura e quegli occhi azzurri che davvero facevano invidia al cielo da quanto brillavano – ed era pura allegria, data dal vedere la propria migliore amica ridere così tanto come forse mai l’aveva vista ridere. Zayn l’avrebbe davvero ascoltata ridere per sempre, se Iris non avesse scosso la testa divertita, prendendo poi Esme per mano e trascinandola per il corridoio senza che nemmeno le desse il tempo di salutarlo.
La ragazza dai capelli ricci in quel momento l’avrebbe uccisa volentieri.
L’avrebbe presa per i capelli e gettata lontano, pur di poter guardare ancora gli occhi scuri di Zayn illuminarsi mentre le veniva da ridere. Le avrebbe fatto davvero del male, se Iris non fosse stata Iris e se a guardare lui illuminarsi non avesse sentito lo stomaco contrarlesi e le gambe diventare di gelatina. Uno di quei cliché che lei detestava, ma che le calzava insolitamente a pennello, quasi quanto le mani di Zayn le stavano bene sui fianchi quando la abbracciava.
«Sappi che ti odio».
Poche parole che fecero ridere la bionda di gusto, mentre entravano a lezione di solfeggio ed Esme non riusciva a smettere di risentire quella risata nelle orecchie che era decisamente troppo allegra e provocante per essere appena sveglia, ma che le piaceva troppo perché se ne riuscisse a privare. Poche parole che le sfuggirono di bocca più acide di quanto non pensasse, ma che Iris si fece scivolare addosso regalandole un sorriso e una mezza gomitata nelle costole, mentre si sedevano l’una di fianco all’altra ed Esme si nascondeva nuovamente nel bicchiere di caffè che le ricordava indelebilmente lui, a quel punto.
«Sappi che sono contenta che tu sorrida così», ribatté l’altra senza nemmeno provare a reprimere un sorriso. Osservò l’amica scostare la bocca dal bicchiere e mordersi il labbro. Osservò i suoi occhi illuminarsi e il lato destro del suo viso sollevarsi in un mezzo sorriso. «Era ora che andassi avanti, tesoro...». Iris la vide irrigidirsi, e mentre si aspettava che le facesse la solita ramanzina – Andare avanti? Io? Tu ed Harry invece? Quando andrete avanti? Quando la smetterete di fare i bambini? – al contrario la mora scosse semplicemente la testa e non disse nulla, prendendo a torturare il ciondolo con le dita, seguendo la lezione a spezzoni, interrotta anche dalla ragazza al proprio fianco, che proprio non voleva saperne di stare zitta.
In fondo, come poteva evitare di farle tutte quelle domande?
E, in fondo, come avrebbe potuto Esme non rispondere?
Erano pur sempre amiche, e Iris sapeva che l’altra le avrebbe tenuto il broncio solo fino a che non avesse pronunciato proprio le parole che voleva sentirsi dire. Ed Esme non voleva parlare di andare avanti, né pensare nemmeno lontanamente a Louis, né infilare il coltello tra le crepe del cuore di Iris. Esme voleva semplicemente parlare di quanto stesse bene dal giorno in cui era entrata in quel teatro e si era innamorata del modo di suonare di Zayn; voleva parlare di come si sentisse mentre parlava con lui di musica – perché parlarne con lui era come aver trovato la nota perfetta, come duettare, come mettersi a cantare camminando per la stazione della metropolitana ed attirare lo sguardo dei passanti… parlare di musica con lui era appagante quasi quanto il sesso. Quasi. E voleva semplicemente parlare di lui e ridere di se stessa per come si sentisse parlandone.
Iris lo sapeva. L’aveva capito da una semplice occhiata nei suoi occhi di giada. E l’aveva accontentata, l’aveva lasciata parlare di quanto le facesse bene parlare con Zayn, di quanto le venisse voglia di sospirare in sua presenza, di come le venissero i brividi quando lui suonava o di come si sentiva quando lo vedeva mordersi il labbro e – diamine – avrebbe voluto morderlo lei, quel dannato labbro. L’aveva vista gesticolare e inarcare le sopracciglia e trattenersi a stento dal ridere, e aveva sorriso con lei, aveva annuito quando ce n’era stato bisogno e le aveva fatto domande, aveva interagito con lei nonostante stesse facendo tutto da sola e stesse parlando a macchinetta da tutta l’ora – beccandosi anche parecchie occhiatacce da parte della loro insegnante.
L’aveva lasciata sfogare e ridere e imputarsi su particolari inutili, Iris, mentre lei dal canto proprio non riusciva a smettere di pensare a come si fosse sentita lei quando una vita prima aveva conosciuto Harry. Iris non ricordava di essere stata come Esme, al contrario lei Harry non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi; lei arrossiva ogni volta che qualcuno lo nominava o anche solo a vederlo da lontano; lei non riusciva nemmeno a parlarci, né a cantare in sua presenza. Lei veniva come annullata dalla presenza del riccio. La sua amica al contrario riusciva a tenere testa a Zayn, riusciva ad allontanarlo quando lui la abbracciava, riusciva a non affogare solo guardandolo negli occhi.
E non credeva fosse possibile, ma la invidiava.
«Non mi hai detto com’è quando suona…», la stuzzicò mentre si sedevano ad un tavolo in disparte, in mensa. Ognuna col proprio vassoio e già con un sorso d’acqua in bocca, Esme quasi non si strozzò, a quella domanda. La sua reazione fece ridere la bionda, con una mano tra i capelli e gli occhi celesti che le brillavano di divertimento e celavano l’invidia come meglio potevano. «Voglio i dettagli, Es», aggiunse ridacchiando al vedere l'altra prendere fiato, probabilmente al rivedere nella propria mente proprio Zayn che suonava.
Ed Esme perse improvvisamente le parole, a quella domanda, ripensando a quella stessa mattina col violoncello classico e a tutte le volte che in quelle due settimane si era intrufolata nel teatro solo per sentirlo suonare ma soprattutto per guardarlo, finché lui non la vedeva stravolta dalla stanchezza e smetteva di suonare, rivolgendole un sorriso e andava a sederlesi affianco, solo per godere del momento in cui lei sbadigliava e con un mezzo sorriso gli posava la testa sulla spalla, respirandone l’odore e perdendosi in esso mentre si limitava a ridacchiare, prima di spedirla gentilmente a dormire.
Esme perse la voce, di fronte a quelle poche parole, perché davvero non sapeva come spiegare come si sentisse al sentirlo suonare. Non sapeva spiegare come stesse al guardarlo stringere il violoncello o all’osservarlo muovere l’archetto o spingere sulle corde per le note vibrate – quelle che continuavano a vibrare anche mentre le arrivavano contro o mentre le entravano dentro senza pensare nemmeno per un istante di uscirne. Perse le parole, perché probabilmente quelle parole non esistevano. Perse le parole perché spiegare cosa fosse lui mentre suonava era come immaginava fosse spiegare ad un bambino da dove vengono i bambini.
Bellissimo. Intenso. Da brividi. Forte. Violento. Arrabbiato.
«Lui è… quando suona lui…». Non riusciva nemmeno lei a capire cosa fosse Zayn mentre suonava, nonostante ce l’avesse impresso a fuoco dietro le palpebre e lo rivedesse ogni volta che le abbassava. Non riusciva a spiegarselo, le veniva da ridere, e Iris che la squadrava trattenendo una risata sulle labbra tinte di rosso di certo non aiutava. Chiuse appena gli occhi, la mora, cercando di trovare le parole adatte, anche se era quasi sicura che non ne esistessero abbastanza, per spiegare lui, il suo archetto, o il sudore che gli scivolava lungo il collo. «Lui è sensuale, quando suona…», esalò soprappensiero, guardando l’amica negli occhi ma in realtà senza rivedere nulla che non fosse lui. «E’ eccitante». Tanto da morirne, tanto da farla sospirare senza volerlo, tanto da farle stringere le gambe e abbassare le palpebre e mordersi il labbro inferiore fino a farlo sanguinare. «E’ orgasmico, Cristo!».
Non avrebbe saputo spiegarlo in altro modo e non avrebbe potuto farlo meglio, Esme.
Iris era semplicemente a bocca aperta, le labbra rosse appena schiuse e gli occhi sempre più divertiti, ma anche… la mora non avrebbe saputo dirlo, ma le sembrava quasi che la bionda fosse colpita, da quella descrizione. Per il semplice motivo che, forse, lei avrebbe descritto Harry nello stesso modo anche dopo così tanto tempo e avrebbe ancora provato le stesse sensazioni. Quel senso di perdere se stessa e non ritrovarsi se non nei suoi occhi verdi, quel senso di impotenza di fronte al suo modo di suonare, quella sensazione di poter morire sotto quelle dita, anche solo immaginandole sulla propria pelle, senza averle davvero a contatto.
«Wow…».
«Iris, dovresti vederlo… mi manda in crisi solo guardandomi di sfuggita, cazzo».
E a quel punto la bionda non riuscì più a trattenersi. Scoppiò a ridere davanti alla dolcezza della ragazza che le stava seduta di fronte. Perché, inutile negarlo, la mora era terribilmente tenera in quel momento. Tanto tenera da farla scoppiare a ridere forte, con la testa buttata all’indietro e gli occhi lucidi strizzati, chiusi, quasi sul punto di piangere dal ridere; e chi se ne frega se la sua risata attirò l’attenzione di tutta la mensa, chi se ne frega dell’occhiataccia di Esme. Rise e basta, perché in fondo non aveva nulla da perdere, perché la sua migliore amica non sarebbe riuscita a tenerle il muso per più di dieci minuti, e perché di certo non si aspettava di veder comparire l’ultima persona che avrebbe voluto trovarsi di fronte una volta risollevate le palpebre.
Harry era in piedi di fianco a Esme, con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra, una mano tra i capelli che erano troppo lunghi per essere ancora ricci e gli occhi verdi che la guardavano come non avessero mai smesso di farlo. Harry era di fronte a lei come se non l’avesse mai lasciata, come non fosse mai uscito dalla sua vita, come se ancora l’amasse – ed era impossibile, lui gliel’aveva giurato, che non la amava più. Eppure era lì come se non avessero mai sofferto e lei non avesse mai pianto. Harry era in piedi coi jeans stretti e quegli orrendi stivaletti che aveva da anni e non riusciva a buttare via, era lì con quelle mani che la mandavano fuori di testa, quei tatuaggi che aumentavano di giorno in giorno e quella camicia sempre troppo sbottonata per non notarla.
Lui era lì, e lei smise di respirare nello stesso momento in cui lo vide e le morì la risata in gola.
«Ciao, Harry… io, mi sono appena ricordata che devo studiare per… una cosa… in biblioteca, sì».
Iris l’avrebbe uccisa, Esme. In qualche modo però, avrebbe solo dovuto ringraziarla. Ma mentre la guardava allontanarsi dopo averla salutata con un bacio velocissimo su una guancia, nello stomaco le ribolliva l’odio. Cosa pretendeva che facesse, con Harry così vicino? Come pretendeva si trattenesse dall’urlare e dal piangere e dal picchiarlo, se l’aveva tanto vicino da respirarlo e sentirne l’odore sulla pelle? Come pretendeva riuscisse a sopravvivere, o anche solo a respirare?
Quando Harry però le si sedette di fronte, con le mani sul tavolo e gli occhi verdi nei suoi azzurri, Iris non seppe più cosa pensare, se non che in fondo avrebbe davvero dovuto ringraziarla. Forse, un giorno. Forse non l’avrebbe fatto, semplicemente perché lei non era il tipo, semplicemente perché la sua migliore amica lo sapeva già, era come se quel grazie l’avesse già sentito. Quando Harry le si sedette di fronte Iris si morse il labbro, con la voglia di scappare e fingere di non averlo avuto così vicino… perché faceva male, averlo così vicino e non poterlo toccare.
E Esme era già fuori dalla mensa, quando Harry disse le ultime parole che Iris si sarebbe aspettata di sentire. Esme era già lontana, diretta per davvero in biblioteca per – provare a – studiare qualche testo di canzone o qualche spartito che nonostante tutto ancora non le era entrato bene in mente. Lei aveva la borsa piena di spartiti buttati dentro alla rinfusa su una spalla, i capelli ricci particolarmente in disordine per averci passato più volte le dita e gli occhi ancora stanchi dalla nottata passata a scrivere messaggi a Zayn; lei aveva ancora la mente concentrata sul nomignolo ridicolo che lui le aveva affibbiato quella mattina, due volte per giunta; lei si sedette ad uno dei tavoli liberi sparpagliando i propri fogli ovunque e tirando fuori una matita, picchiettandola sulle labbra e pensando all’espressione del violoncellista quando nervosa finiva per giocherellare col piercing senza smettere di guardarlo negli occhi scuri.
E avrebbe dovuto studiare. Avrebbe almeno dovuto provare a leggere qualcosa, provare a memorizzare, provare il tempo di qualcuna delle canzoni nuove che le aveva assegnato la professoressa di solfeggio… non riuscì nemmeno ad iniziare, distratta da qualcosa scarabocchiato nell’angolo di uno dei suoi spartiti. Note casuali, apparentemente. Note che però non si era appuntata lei, e che stranamente sembravano essere un po’ ovunque, in ogni angolo dei suoi spartiti ma sempre diverse.
Avrebbe dovuto studiare, ma a quel punto era impossibile. Inspiegabili, quelle note messe lì a caso. Aveva quel mistero da risolvere, doveva assolutamente capire chi avesse potuto scriverle quelle note, in qualche modo. E le comparve un sorriso sulle labbra mentre a bassa voce provava ad intonare quelle note sentendole sempre più familiari. Quasi come le avesse scritte lei, o fossero state scritte per la sua voce, perché le cantasse lei e nessun altro. Le comparve quel sorriso che le compariva sempre in presenza di…
«Zayn…», mormorò la ragazza sfiorando l’angolo di uno dei suoi testi – quelli scritti di fretta e che alla fine nemmeno lei riusciva a decifrare.
Oltre alle note scarabocchiate, delle parole in arabo, a matita. Le era quasi sembrata una caccia al tesoro, nella quale indizio dopo indizio e nota dopo nota aveva trovato la soluzione, forse. Una caccia al tesoro che l’aveva fatta sorridere fin quasi a non trattenere una risata vera e propria; una caccia al tesoro che forse Zayn nemmeno aveva programmato ma che lei aveva risolto come il più semplice degli indovinelli; una sorpresa che le stava regalando una canzone, oltre al sorriso che non riusciva a scrollarsi di dosso.
«Cosa mi stai facendo, Zayn?», borbottò poi tra sè, con una mano tra i capelli e la matita messa di fretta dietro l’orecchio, prima che raccogliesse i propri fogli, spartiti e il resto della propria roba e rimettesse tutto nella tracolla, anche più in disordine di quanto già non fosse prima che provasse a studiare. «Che cazzo mi stai facendo?», aggiunse ridendo tra sé, giocherellando col piercing al labbro mentre quasi correva via di lì rischiando di far male a qualcuno, soprattutto quando fuori dalla sala lettura, canticchiando ancora quelle note, quasi non diede una spinta a Roxanne e Niall, tanto forte da far spaventare la prima e far quasi cadere rovinosamente a terra la chitarra del secondo.
«La solita grazia, Es…», la prese in giro la rossa, mentre cercava di non avvampare, stordita dalla risata del biondo al proprio fianco. La mora inarcò un sopracciglio e trattenne a stento una risata, prima di riprendere a sfiorare il ciondolo a forma di cuore, più forte del solito, con più intensità – quasi stesse sfiorando Zayn, come lo stesse spingendo ad una spalla prima di abbracciarlo tanto stretto da non sentire altro se non lui. E in qualche modo Roxanne sembrò capirla, annuendo tra sé e «Zayn è in corridoio…», le disse divertita, sulle labbra il sorriso di una che aveva appena capito tutto senza bisogno che le si dicesse nulla.
«Di fronte alla seconda entrata dall’auditorio, sta aiutando Sky con la batteria».
Quasi non fece in tempo a finire la frase che la mora diede ad entrambi un bacio su una guancia ridendo e corse – letteralmente – per il corridoio, rischiando di inciampare nelle sue stesse scarpe. E Roxanne ce la mise tutta per non dare di matto, ma non riuscì a trattenersi dal «Ti ha sporcato di rossetto», prima che Niall si pulisse e la prendesse per i fianchi stringendola a sé per un abbraccio. «Ruffiano…».
«La prossima volta fermala, piccola». E Roxanne arrossì e basta, non avendo la forza di dire niente che avesse davvero un senso, non avendo la forza necessaria a non balbettare come una ragazzina alla prima cotta. Oppure baciami tu, avrebbe voluto aggiungere il biondo, limitandosi però a sentire il suo cuore battere tanto forte da pensare di scriverci su una canzone e suonarla solo per lei.
Harry intanto non riusciva a smettere di guardare Iris e pensare che lasciarla fosse stata la cosa più stupida della propria vita, anche più di rifiutarsi di prendere lezioni di piano quando era bambino – quando poi quello strumento era diventato parte integrante di lui, come un braccio o una gamba o un pezzo di cuore. Non riusciva a smettere di guardare i suoi occhi celesti che di rimando lo guardavano a tratti, come se le facesse davvero troppo male, come fosse troppo dolore da sopportare per il suo povero cuore, come non volesse guardarlo per non morire di nuovo dentro vedendo il mare in tutto quel verde. Non riusciva a smettere di ricordare come le sue labbra rosse stessero bene contro le proprie.
Harry guardava Iris e respirava a stento. Harry aveva il terrore che lei… lo lasciasse andare.
Iris guardava Harry e respirava a stento. Iris guardava le sue mani, quelle dita di cui era innamorata da sempre. Iris sentiva la mancanza di quelle mani grandi e forti, di quelle labbra rosse, delle sue fossette mentre sorrideva; sentiva la mancanza dei suoi occhi che riuscivano a guardarle tanto a fondo da poterla leggere con una semplice occhiata; sentiva la sua mancanza ed era come se non riuscisse a respirare, non davvero, non come avrebbe fatto una persona sana. Lei stava male senza di lui, ed era proprio quello il punto, ma lui sembrava non averlo mai capito, come lei non aveva capito che lui provava le stesse identiche cose e sentiva le stesse identiche mancanze.
«Mi manchi da morire, Iris…».
Un soffio, quasi un sospiro. Come fosse un segreto, poche parole che doveva udire solo lei e nessun altro. A bassa voce perché l’incantesimo non si spezzasse del tutto; a bassa voce perché gli mancava il coraggio di parlare più forte come a lei mancava la forza di continuare a guardarlo negli occhi senza scoppiare improvvisamente e inevitabilmente in lacrime. Un soffio e quasi un sospiro, un alito di vento anche se del vento non c’era traccia… ma la bionda lo sentì come se l’avesse urlato in una stanza vuota. Lo sentì come se gliel’avesse detto direttamente nell’orecchio e le vennero i brividi come se quelle parole potessero davvero toccarla e quelle mani la stessero davvero stringendo, invece che starsene a torturarsi tra loro su quel tavolo.
Ma distolse lo sguardo prima di rischiare di crollare davanti a lui. Distolse lo sguardo sbattendo velocemente le palpebre come sperando che se fosse tornata a guardare nella sua direzione lui sarebbe semplicemente potuto scomparire. Sperando che non notasse gli occhi lucidi di lacrime o il labbro inferiore stretto tra i denti per impedirgli di tremare. Sperando che non la conoscesse più tanto bene come una volta… sperando che non la amasse più ma allo stesso tempo sperando che la amasse abbastanza da cessare quella tortura e lasciarla libera.
Tornò a guardarlo cercando di essere gelida, glaciale. Abbastanza credibile, almeno.
«Tu ormai non mi manchi più…». Con la voce più ferma e fredda che fosse riuscita a tirar fuori, ma comunque senza riuscire a dire il suo nome, nemmeno in un sussurro. Quello l’avrebbe davvero fatta crollare, senza più darle la possibilità di rimettersi insieme. «Sei solo un ricordo», aggiunse a voce più bassa, alzandosi e cercando di mascherare le mani che le tremavano stringendo la borsa. Il mio ricordo più bello, avrebbe voluto aggiungere, ma continuare a parlargli, a guardarlo o anche solo a sentire il suo respiro viaggiare in quel poco spazio che li separava e arrivare fino a lei, le avrebbe davvero fatto troppo male. L’avrebbe distrutta come aveva fatto lui quando se n’era andato senza spiegare.
Se però l’avesse guardato una manciata di secondi in più, avrebbe potuto vedere il dolore, in quegli occhi verdi. Avrebbe potuto respirarlo, quel dolore, o addirittura sentire il suo cuore spezzarsi di nuovo in mille pezzi, come era successo il giorno che era scappato da lei e dal suo amore come un codardo, senza lasciare spiegazione, lasciandole il proprio cuore ma senza mai avere il coraggio di tornare a riprenderselo.
E mentre un cuore si accartocciava su sè stesso e si spezzava come un gingillo di cristallo, un altro cuore batteva come impazzito e senza che lo si riuscisse a fermare. Il corpo a cui quel cuore apparteneva tremava, le gambe si muovevano lungo il corridoio quasi correndo e aveva un sorriso sulle labbra che non riusciva più a fermare, un sorriso che non avrebbe fermato nemmeno se avesse potuto, un sorriso che le faceva brillare gli occhi e la faceva scoppiare a ridere dentro. Un sorriso che se possibile le si ampliò ancora e le fece stringere il labbro tra i denti, non appena vide Zayn poco lontano e non appena lo sentì ridacchiare mentre spingeva giocosamente una ragazza dai lunghi capelli celesti, intenta a stringere una serie di cinghie intorno ad un amplificatore per impedire che cadesse dal carrello sovraccarico sul quale avevano già stipato la batteria della ragazza.
«Zayn...», lo chiamò la ragazza, mordendosi un labbro per non dire qualcosa di cui probabilmente si sarebbe pentita. Lui la faceva sorridere per niente, ma la faceva anche sprofondare per meno di nulla, se si comportava con chiunque - con qualsiasi ragazza - come aveva fatto con lei per quelle due settimane. C'era qualcosa, nel modo in cui scherzavano, che in qualche modo la rese... gelosa. Esme nemmeno ricordava come fosse essere gelosa di qualcuno. Ne aveva rimosso la sensazione sulla pelle, da quanto tempo era passato dall'ultima volta. Ma in qualche modo le passò tutto di mente quando il moro si accorse di lei. «Ciao...».
«Oh, tu devi essere Esme... Cristo, Zayn non fa altro se non suonare e parlare di te, finalmente ti conosco!», le disse velocemente la ragazza dai capelli azzurri prima che il suo migliore amico potesse davvero accorgersi della presenza della mora. Esme lo vide sorridere, mentre si passava una mano tra i capelli in imbarazzo - si, era decisamente imbarazzo - prima che quella ragazza bella quanto strana le porgesse la mano, lasciando andare improvvisamente la cinghia che teneva fermo l'amplificatore.
Fece appena in tempo a respirare, e Sky fece appena in tempo ad urlare.
Fecero appena in tempo a prendere paura, prima che Zayn prendesse Esme per un polso e se la tirasse velocemente contro. Tanto forte e in fretta da farle scappare un gemito, che però nessuno sentì, ovattato dal fragore della cassa che in pochi secondi cadde a terra, nel punto esatto in cui un attimo prima stava lei. Tratta in salvo dalle sue mani grandi e dalla sua prontezza nel tirarsela addosso - non delicatamente come avrebbe fatto in qualunque altra situazione, gli importava solo che non si facesse male, in quel momento, gli importava solo del suo respiro spezzato e del cuore che da così vicini poteva quasi sentire direttamente nelle orecchie, e non solo immaginarne il suono. Tratta in salvo dal respiro leggermente pesante di Zayn improvvisamente nelle orecchie, tratta in salvo del suo odore di tabacco che le riempiva le narici e le rendeva difficile respirare.
«Tutto bene, micetta?», le alitò contro la pelle improvvisamente impallidita del viso. Aveva perso colore nel giro di pochi secondi, lasciando che la paura prendesse il sopravvento. Riprese colore insieme al respiro più regolare solo al sentire la voce di Zayn - ancora con quel ridicolo soprannome a scivolargli via dalle labbra - e al sentire le sue dita sfiorargli delicatamente il polso fino a farla smettere di tremare e sentire il cuore regolarizzare il battito.
Quelle parole però le sentí appena, troppo concentrata sulla sua presa sul proprio polso e troppo concentrata sul suo odore cosí tanto vicino da poterne morire. Lo sentí appena mentre la chiamava "micetta", per quanto in qualche modo la irritasse, troppo presa da lui e da quelle labbra che una volta allontanatasi di mezzo passo non riuscí più a smettere di guardare. Troppo concentrata sul guardare alternativamente quelle labbra piene e lucide e quegli occhi pieni di preoccupazione e profondi come la sua rabbia, profondi come l'inferno.
«Tutto...». Fece un pausa, sentendo la propria voce spezzarsi appena. Zayn continuò a sfiorarle il polso con leggerezza, spostando come lei lo sguardo dalle sue labbra ancora tremanti di paura ai suoi occhi verdi leggermente sgranati e improvvisamente lucidi. «Bene», mormorò in un soffio, con una mano posata sul suo petto e stretta appena sulla sua camicia - come volesse averlo ancora più vicino. Gli occhi persi nei suoi, la voce tanto bassa da far fatica a sentirla, le gambe improvvisamente deboli, tanto da farle credere di poter crollare da un momento all'altro.
E forse l'avrebbe baciato.
Forse Zayn si sarebbe lasciato baciare.
O l'avrebbe baciata, senza stare a pensarci troppo.
Ma l'imprecazione a voce alta di Sky bloccò entrambi al proprio posto, col polso di Esme ancora stretto nella mano di Zayn e lo sguardo preoccupato di lui fuso con gli occhi lucidi di lacrime di lei. La sua imprecazione e il suo camminare volecemente fino a loro li fece allontanare, ma senza che Esme smettesse di guardarlo come se gli dicesse grazie e senza che Zayn smettesse di sfiorarle la mano come a chiederle se stesse davvero bene.
«Porca puttana... io... non credevo che crollasse, Dio...».
E Zayn avrebbe davvero voluto stringerla a sè fino a sentire nient'altro che fosse lei, come Esme si sarebbe lasciata tenere stretta fino a scomparire, fino a dimenticare di esistere, fino a sprofondare in lui e lasciare che tutto il resto diventasse solo un ricordo di cui non si sarebbe dovuta curare almeno finchè lui non l'avesse lasciata andare.
E, fosse stato per lui, non avrebbe mai smesso di tenerla stretta. Fosse stato per lui se ne sarebbe preso cura come lei fosse stata una gattina ferita, l'avrebbe stretta tra le braccia come fosse stata una farfalla in punto di morte e l'avrebbe respirata a pieni polmoni come fosse stata l'ultimo refolo di estate prima che arrivi l'autunno e spazzi via tutto.
Fosse dipeso da lui l'avrebbe semplicemente baciata, senza troppi giri di parole e senza troppi pensieri a pesare sulle loro spalle.



 
   
 
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