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Autore: candycotton    16/12/2008    0 recensioni
Lay è un ragazzo di diciannove anni e fa il taxista a New York. La sua vita è piuttosto difficile e il suo lavoro non la rende certo migliore. Sì, a lui piace guidare, ma New York è sempre troppo caotica e restare bloccati nel traffico è ormai una routine, esattamente ciò che Lay vorrebbe poter evitare, fino a quando qualcosa arriva a sconvolgere la sua vita...
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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        _ secondo capitolo



“Lay…?”
Lehna lo chiamò flebilmente. “Sì?”, rispose, con il viso accostato alla porta della sua camera.
“C’è qualcosa che possa mettermi addosso?”
Lay rimase in silenzio per qualche secondo. “Guarda nell’armadio e prendi quello che vuoi”.
Non aveva niente per una donna, viveva da solo, era logico che fosse così. Si sarebbe dovuta accontentare di qualche abito maschile, almeno finchè i suoi non fossero stati lavati.
Lehna uscì dopo qualche minuto. Indossava un paio di jeans un po’ larghi e una camicia di flanella, aperta su una canottiera bianca, che era sua.
I suoi capelli neri le stavano gonfi e morbidi, sfiorandole lievemente le spalle e la schiena. Lay cercò di ignorarla, di non guardarla troppo, altrimenti era certo che si sarebbe azzittito per il resto della sera.
“Senti, Lehna… davvero non hai una casa?”, azzardò, cercando di entrare nel discorso.
Lei lo guardò ambigua. “La strada è la mia casa”.
Lay restò immobile. Era forse una barbona? Con chi diavolo stava parlando? Avrebbe tanto voluto saperlo.
“Io non ho molto posto, qui…”, proseguì Lay.
Lei parve illuminarsi. “Ah, scusami. È vero, sto sconvolgendo la tua vita. Mi dispiace, è che pensavo di poter restare, almeno per stasera. È così bello qui… una casa vera, era tanto che non ne vedevo una”.
Lay la fissò. “Sto sconvolgendo la tua vita”, era certo che sarebbe andata proprio così. “Okay, puoi restare per stasera, poi domani vedremo cosa fare”.
“Grazie, Lay”, e, inaspettatamente, lo abbracciò.
Lay l’allontanò quasi subito, abbozzandole un sorriso. “Domani devo andare al lavoro, puoi portare i tuoi vestiti alla lavanderia?”
Lehna lo fissò tranquilla. Poi annuì.
“Bene, è qui dietro l’angolo…”, Lay spiegò a Lehna la strada per arrivare alla lavanderia. “Mi raccomando, stai attenta e non fermarti per nessun motivo”, concluse, prendendola per le spalle.
Lei lo ascoltò con attenzione, cercando di memorizzarsi la strada.
“Su, ora andiamo a dormire, ho già fatto troppo tardi”.
Lehna lo seguì fino in camera sua. Lay si voltò a guardarla, come se si fosse per un attimo dimenticato di lei.
Si grattò il capo con una mano. “Okay, tu dormi nel letto, io vado sul divano”, fece un breve gesto con la mano e uscì dalla stanza, lasciando Lehna da sola.

Lehna si svegliò che erano già le dieci e mezza. Si vestì e mangiò un pezzo di pane con la marmellata che Lay le aveva lasciato sul tavolo, poi prese il sacco dei panni sporchi e uscì di casa.
New York era una città incredibilmente caotica, a qualsiasi ora. Lehna non si era ancora molto abituata a quella vita frenetica, non ricordava da quanto tempo, ma non era molto che si trovava lì. Seguì le indicazioni che Lay le aveva dato e che per sicurezza si era appuntata su un post-it.
Arrivò davanti ad un negozietto modesto, accatastato tra una pizzeria a destra e un garage sbarrato sulla sinistra. L’insegna al neon non risaltava molto al sole mattutino, ma tuttavia illuminava di rosa una scritta inclinata: “Lavanderia”.
Lehna entrò. Dentro non era troppo grande, un mucchietto di persone affollavano le sedie. Lehna li scorse velocemente con un breve sguardo: erano per lo più ragazzi di colore, ragazze magrissime con bambini in braccio, uomini sulla trentina con sguardi truci e poco raccomandabili. Lehna abbassò immediatamente gli occhi, cercando più che poteva di tenerli lontani da chiunque la dentro.
Si avvicinò alla prima lavatrice libera che trovò e ci ficcò dentro i suoi vestiti. Si accorse che c’era anche qualche panno non suo. Due camicie a quadretti, due paia di jeans e una maglia a mezze maniche. Erano gli abiti di Lay: evidentemente aveva approfittato dell’occasione per farsi lavare qualcosa che gli serviva. Lehna sorrise inconsapevolmente, e ficcò dentro all’oblò tutto quanto, finchè non fu pieno. Chiuse lo sportello e fece partire la centrifuga.
Sentì parecchi sguardi puntati su di lei. Un bambino iniziò a piangere, e la sua mamma gli intimò il silenzio, dondolandolo avanti e indietro.
Lehna incontrò involontariamente gli occhi di uno degli uomini seduti, che la scrutava fisso.
Lehna aggrottò le sopracciglia e si concentrò sui panni che danzavano dentro all’oblò, ripetendo dentro se stessa: muoviti, muoviti.
Finalmente la centrifuga terminò e lei potè prendere fuori tutta le sue cose. Le rificcò dentro al sacco, lasciò la mancia e si affrettò ad uscire da quel posto.

Lay tornò a casa verso le sette e mezza della sera. Sospirò, mentre si toglieva la camicia.
“Ciao”.
Lay sussultò e guardò Lehna.
“Scusa, non volevo spaventarti”.
Lay scosse il capo. “Come ti senti oggi?”
Lehna inclinò il capo, avanzando verso di lui. Allungò una mano verso la sua camicia. “Meglio”.
Lay continuò a guardarla confuso. Si accorse che indossava solo una delle sue camicie, che le arrivava fino a metà coscia.
“Dammi, te la sistemo io”, disse, scrutandolo.
Lay gli lasciò la camicia da lavoro tra le mani e distolse lo sguardo da lei.
Lehna gli diede le spalle, e raggiunse la camera da letto.
“Hai fatto quello che ti avevo chiesto?”, domandò Lay, parlando attraverso le camere.
“Ah-ah. Anche i tuoi vestiti sono puliti, ora”, Lehna ricomparve sulla soglia della porta e sorrise. “Tutto bene al lavoro?”
Lay annuì vagamente. “Come al solito”.
Lay raggiunse la sua scrivania e si sedette al computer. Poi alzò uno sguardo su Lehna, come se qualcosa gli si fosse acceso all’improvviso nella testa. “Ehi, vieni un attimo qui”.
Lehna aggrottò la fronte, lo raggiunse.
“Sai usare il computer?”.
Lehna diede un’occhiata al monitor acceso. “Non credo”, mormorò incerta.
“Non hai mai provato?”.
“Non ricordo. La mia memoria è offuscata”.
Lay digitò una password e la schermata principale apparve brillante per tutto lo schermo. “Stavo pensando che potresti usare internet per fare delle ricerche”.
Lehna lo guardò per un secondo. “Ricerche?”.
“Sì, su chi sei, da dove vieni e cose così…”, Lay abbassò di nuovo lo sguardo sul monitor, perché Lehna gli era vicinissima, in piedi ad un soffio da lui.
Sul volto di Lehna apparve un’espressione confusa e contrariata. Si allontanò da Lay e si portò una mano sul volto. “Non voglio sapere niente”.
Lay la seguì con gli occhi, fissando la sua figura di spalle, preoccupata. Non era normale che qualcuno soggetto ad una crisi di coscienza non avesse nessuno stimolo a voler scoprire qualcosa su se stesso o sulla propria vita. Forse Lehna in realtà sapeva chi era, solo che voleva tenerlo nascosto.
“Okay, come vuoi. Ma credi che sia una buona idea rimanere così in bilico tra sapere e non sapere?”
Lehna socchiuse le labbra, ma non rispose. “Tu vuoi che me ne vada da qui”.
Lay sgranò gli occhi. “Ma che stai dicendo?”, continuò a fissarla, aggrottando le sopracciglia.
L’espressione di Lehna era dura, gli occhi bassi. “Lo so che sono un peso per te, mi dispiace”. Prima che Lay potesse ribadire, lei s’incamminò verso la camera da letto, rovistando per raccogliere in fretta le sue cose.
Lay scaraventò indietro la sedia e le si lanciò dietro. “Che stai facendo?”, sospirò sull’uscio della porta.
Lehna non alzò nemmeno lo sguardo su di lui. “Me ne vado”, farfugliò, infilandosi i pantaloni. Si levò la camicia e Lay rimase a guardarla immobile, mentre si metteva la maglia che aveva indosso quando l’aveva salvata.
Gli passò davanti, gettandogli la sua camicia tra le mani e uscì dalla stanza.
“Lehna, aspetta”.
Lehna lo ignorò, facendo per aprire la porta d’ingresso del misero appartamento sottoterra.
“Lehna”, la chiamò ancora Lay, prendendola questa volta per il braccio.
Lei si voltò di scatto, i loro sguardi si incrociarono.
“Non voglio che te ne vada”.
“Lasciami, per favore, non mi va che provi pietà per me”.
Lay sospirò, avvicinandosi a lei. “Non provo nessuna pietà”. Abbandonò la presa sul suo braccio.
“Senti Lay, venire qui è stato un errore. All’inizio non ci ho pensato, perché mi sembrava così bello aver trovato finalmente un posto dove stare, ma ora mi sto rendendo conto che non è questo il mio posto, è il tuo posto e io lo sto solo invadendo”.
“Non hai di dove andare, e io non posso certo lasciarti là fuori da sola. Percui l’unica soluzione è rimanere qui, e quando avrai trovato il tuo posto potrai raggiungerlo, quando vorrai… sei d’accordo?”
Lay non riusciva a smettere di fissare quegli occhi, così intensi. Era così bella, così indifesa e così vicina… avrebbe voluto abbracciarla, stringerla. Voleva sentire l’odore dei suoi capelli morbidi e dirle di indossare di nuovo la sua camicia…
Strinse gli occhi, e abbassò lo sguardo, scacciando quei pensieri dalla sua testa. Che cosa diavolo gli era preso? Non poteva pensare a quelle cose, non certo con Lehna. Non sapeva niente di lei, nonostante da un po’ di tempo a quella parte vivevano insieme sotto lo stesso tetto.
Si era completamente fuso il cervello, o cosa?
“Ehi, stai bene?”
Alzò il suo sguardo sofferto, Lehna gli stava leggermente accarezzando una guancia. Le prese il polso e l’allontanò, cercando di non essere troppo brusco. Biascicò qualcosa a mezza voce.
La guardò di nuovo, sentendosi colpevole di qualcosa che non aveva fatto.
“Grazie, Lay”.
Abbozzò un sorriso, vedendola che ricambiava. Poi, si buttò sui fornelli, mantenendo le distanze da lei.

  
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