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Autore: wanderjess    30/03/2015    0 recensioni
Mercedes crede che la guerra le abbia rivelato tutto sulla brutale natura umana, disilludendola per anni. Sullo sfondo delle note di Eye of the tiger, però, potrebbe scoprire che oltre al mondo selvaggio che lei conosce c'è ancora qualcosa degno di speranza.
[Sta partecipando al concorso "This is war - Situations" indetto da ManuFury sul forum di EFP]
Genere: Azione, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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capp 3

CAPITOLO 3:



Avvertivo che c'era luce intorno a me, o almeno credo. Aprii gli occhi... no, non li aprii. So che volevo farlo ma non ci riuscivo. Le palpebre sembravano attaccate alla pelle col cemento, erano pesanti, erano confuse. Non capivo come avrei dovuto fare. Sapevo solo che avevo voglia di aprire gli occhi e che avevo nausea. Un senso di nausea così vero e pesante che a poco a poco mi stava riportando alla realtà.

Probabilmente gemetti, perché avvertii uno spostamento e una mano fresca sulla pelle, una mano che mi stava bagnando il viso e il collo per cercare di svegliarmi.
In quel momento aprii gli occhi per davvero. Di colpo li sbarrai, lo stomaco stretto un un nodo di nausea che mi sopraffece e che mi portò – dopo essermi inginocchiata in un battibaleno – a vomitare qualcosa di acido in un angolo del pavimento lurido e cementato.
Mi sentii meglio, il mal di testa pian piano si alleviò e il nodo allo stomaco si sciolse. Mi pulii con la manica della tuta mimetica e voltai finalmente il capo verso il possessore di quella mano fredda che avevo sentito addosso qualche minuto prima. Era un ragazzo, un giovane pallido dall'aria vagamente familiare. La mia testa confusa non avrebbe saputo dirmi dove l'avessi già visto, ma sapevo che non era un soldato del mio esercito e una rapida occhiata al vestiario confermò la mia ipotesi. Gli abiti, seppur sporchi e sgualciti, erano quelli di un civile.
«Vuoi dell'acqua?» mi chiese incerto. Credo fosse inglese. No, dall'accento americano.
Riempì una ciotola in terracotta e me la porse. Bevvi avidamente, squadrandolo e aggrottando le sopracciglia: ero sicura di averlo già visto.
L'ambiente intorno a noi era spoglio e angusto, puzzava di piscio e la pesante porta di legno sembrava chiusa da vari chiavistelli: eravamo in una cella, o meglio nell'equivalente mediorientale di una prigione europea, priva di finestre e con un vecchio materasso poggiato a terra. L'unica luce proveniva dalla piccola apertura sbarrata sulla sommità della porta d'accesso. Nessuna via di fuga.
Fu allora che compresi. Capelli castani, occhi vispi e attenti, viso lineare, piacente ma sostanzialmente anonimo e ricoperto da alcuni lividi scuri: Aaron Newell, il neolaureato americano che avevamo il compito di trarre in salvo! Di colpo la mia mente passò in rassegna ad ogni momento precedente il mio svenimento: il trasferimento dalla base, la mia posizione, gli spari, il mio MP3... La presenza del prigioniero ancora in cella significava evidentemente che la missione non era andata a buon fine e che, forse tutti i miei uomini erano morti. Choto.
«Aaron Newell?» chiesi.
Lui mi guardò stupito: «Credevo che nessuno qui conoscesse il mio nome. Chi sei?»
«Capitano Mercedes Soler, dell'esercito spagnolo, in missione per prelevare uno stupido letterato americano che si è fatto catturare in mezzo al deserto.»
«Oh.»

Aprii gli occhi a causa di alcuni passi strascicati e pesanti a qualche decina di metri da noi. Il sistema di chiavistelli e lucchetti scattò diverse volte, facendo finalmente aprire la porta di legno con un cigolio. Mi ero appisolata per qualche minuto, sopraffatta dalla stanchezza, ma non era ancora notte, credo. Due soldati vestiti di una tunica bianca e un basso turbante sulla testa entrarono, mentre un terzo teneva la porta spalancata. Aaron indietreggiò di colpo, spaventato: dovevano essere andati giù pesanti con lui, quando lo avevano catturato. Capii subito, però, che quella volta i soldati non erano lì per lui. Essi mi scrutarono, illuminando il mio viso col chiarore di una torcia e, biascicando qualcosa in una lingua sconosciuta, uno di loro mi afferrò il braccio con malagrazia e mi spinse verso la porta. Anche l'altro braccio fu catturato dal secondo soldato che mi scortò all'entrata; potei solamente vedere Aaron che mi fissava, gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa in un sussurro: «Mercedes».

Stock. L'ennesimo pugno e io finii faccia a terra assieme alla sedia. Mi premetti il mento dolorante con la mano sinistra. Quel colosso nero che mi stava pestando aveva il triplo dei miei muscoli – e forse metà del cervello, ma non era questo a contare, non in quel momento in cui sanguinavo copiosamente dal naso e il livido appena sopra l'occhio sinistro si stava gonfiando impedendomi anche la vista. Una ginocchiata all'altezza dello stomaco mi fece piegare in due dal dolore prima che facessi in tempo ad alzarmi e la nausea di qualche ora prima tornò prepotente facendomi mancare il respiro.

«Parla.»
L'uomo che aveva parlato si presentava come l'opposto del nero: basso e mingherlino, sulla cinquantina d'anni e con un volto rugoso dall'espressione infame ma intelligente. Più elegante del mio aguzzino, capii subito che svolgeva ruoli di comando all'interno della base. Si era accomodato su una sedia di legno subito dopo la mia entrata nella stanza e aveva assistito inespressivo alla scena, almeno fino a quel momento. «Parla» ripeté in un inglese stentato. Avrei dovuto accontentarmi. Aveva un accento tipicamente asiatico e strascicava le parole come se fosse estremamente annoiato da ciò che lo circondava.
«Cosa vuoi sapere, viejo
Improvvisamente un barlume di vita attraversò i suoi occhi, ma era la collera ad accenderlo. Si alzò in piedi e mi sovrastò: «Per quale esercito lavori, ragazzina?»
«Io servo la Spagna.» mormorai con un ghigno orgoglioso. Quella volta fu da lui che ricevetti un pugno in pieno viso: non fece male come quelli del gigante al suo fianco ma bastò a spaccarmi il labbro inferiore. Be', meglio così: se mi avesse colpito il suo compare sono sicura che mi sarei ritrovata senza due denti prima di uscire da quella stanza.
«Cosa siete venuti a fare nel nostro territorio?!»
Sogghignai. «Pensi davvero che te lo dirò? Sai, il solito cliché: il nemico interroga, il soldato resiste stoicamente alle percosse ma non parla. Il soldato muore sotto le armi del nemico. Questa storia non finirà diversamente.»
Prima di essere una donnetta piagnucolosa ero un soldato, e un soldato non si lascia sopraffare. Uno spagnolo non si arrende.

Mi avevano riportata in cella dopo quelli che a me erano sembrati giorni. Nel frattempo era arrivata la notte e il tragitto da quella maledetta stanza alla prigione fu un vero inferno: non mi reggevo sulle mie gambe, il colosso mi aveva colpita al ginocchio e quello sembrava non rispondere più ai miei comandi. Le due guardie che mi avevano delicatamente scortata fin lì mi portarono via letteralmente di peso, trascinandomi per le braccia e calcando quindi le mani sui lividi viola sopra esse. L'aria fredda della notte mi riportò alla realtà dal limbo doloroso in cui ero costretta fino a prima; il cielo era puntinato di stelle e non c'era nuvola a coprire la luna calante. Sarebbe stata una bella notte per morire, eppure quei gilipollas mi avevano riempita di botte e poi risparmiata. Non avevo parlato.

Venni gettata in malo modo sul ruvido pavimento della cella e il mio gemito di dolore svegliò Aaron che si era appisolato sul materasso.
Feci leva sulle braccia martoriate e cercai con tutte le mie forze di alzarmi. Gemetti e due mani, fresche come durante il mio primo risveglio lì, mi sfiorarono donandomi un po' di sollievo.
«Mercedes... cosa ti hanno fatto?! Sono... sono delle bestie! Come hanno potuto? Io non lo concepisco! Mi... mi dispiace!»
«Stai zitto.»
Spalancò gli occhi e mi fissò con la bocca semiaperta, pronta a inveire ancora contro i nemici con quella parlantina colta.
«Smettila di fissarmi, non voglio la tua pietà. Sono un soldato, se non l'hai ancora capito. È questa la mia vita ed è così che affronto la morte: a testa alta» decretai lapidaria.
«Io... non era pietà. Penso solo alla brutalità di tutto ciò. Guardati: sono più numerosi i tuoi lividi delle chiazze di pelle rosea, potresti avere gravi lesioni interne e non saperlo!»
«... non ho più niente da perdere, ormai. Avevo una missione, fino a ieri, ma ora che i miei uomini sono morti e tu sei qui prigioniero... ora non ho uno scopo da raggiungere. Io morirò entro pochi giorni, tu poco dopo, quando avranno capito che da un anonimo americano non potranno ricavare nulla. Questo è il punto.»
«Io sono sicuro che torneranno a prenderci. Gli Stati Uniti non possono permettersi di-»
«Al tuo Paese non frega un cazzo di te! Non capisci? Decine di soldati muoiono ogni giorno per portare la pace in queste terre deserte, per gente che non vuole nemmeno essere salvata. Perché mai dovrebbero sprecare altri uomini per qualcuno che potrebbe essere già morto? Dopotutto la mia missione è fallita» e quelle parole bruciarono dentro come fuoco «fallita, capisci? Io sono stata catturata e agli occhi del mio Generale sono caduta in battaglia. Nessuno ha più motivo di venire qui.» Respirai a fatica.
«Sono certo che qualcuno verrà a cercarti, perché so che i soldati hanno ancora degli ideali di giustizia! Torneranno!»
Ridacchiai e me ne pentii subito dopo a causa del dolore al labbro e a ogni muscolo facciale di cui fossi dotata. «Ci sta idealizzando, amico. Molti di noi entrano nell'esercito portando una ventata fresca di ideali, di eroismo... è la guerra stessa che ti disillude, è come uno schiaffo in pieno viso quando meno te lo aspetti. Qui la gente muore, muore ogni giorno. Non siamo in America, non puoi denunciare il primo che non rispetta le leggi perché a vincere, qui, è solo il più forte. Semplicemente, le leggi non esistono. Qui ti alzi la mattina, ti guardi allo specchio e ti chiedi se il giorno dopo potrai ancora svegliarti nella tua tenda; guardi i tuoi compagni e non sai se li rivedrai una volta tornato al campo; ti addormenti sperando che gli aerei non sgancino una bomba sopra il tuo accampamento. Arrivi qui pieno di vita e il sorriso ti si spegne piano, con la stessa frequenza con cui i tuoi amici muoiono, con cui tu uccidi un uomo a sangue freddo. Ti abbruttisci interiormente dopo ogni cicatrice che ti si stampa sulla pelle. Conosci la vera natura umana e finisci per morire dentro ancor prima di venir freddato in battaglia.»
Pensai di averlo lasciato senza parole, vista la diversità della vita civile che conosceva lui e del mio mondo, ma mi sbagliavo: alzai gli occhi dal pavimento lurido su cui ero seduta e lo sorpresi a fissarmi intensamente, con quegli occhi così scuri e attenti che sembravano scrutarmi l'anima oltre la scorza dura che dimostravo di avere. Dentro di me sorrisi: erano gli occhi di un poeta, di quelli che riuscivano ad estraniarsi completamente dal mondo per cercare di comprendere l'oggetto delle loro attenzioni. Era come se i miei occhi diffidenti gli stessero raccontando la mia storia, tanto lui era concentrato a leggerli.
«Chi hai perso tu?»
Passarono almeno due minuti, in cui io abbassai lo sguardo e socchiusi gli occhi, sospirando piano per il dolore alla gabbia toracica.
«Julian era il mio migliore amico. Da sempre.» non so perché cominciai a raccontare... probabilmente avevo visto, dopo due lunghi anni, una persona degna della mia fiducia. «Sai, i tuoi occhi mi ricordano lui. Anche Julian amava scrivere, ma quando decisi di arruolarmi non esitò a seguirmi, mettendo in secondo piano tutti i suoi sogni. E sai cos'ho fatto io? Ho accettato di trasferirmi qui, in mezzo al deserto, ponendo così la firma sul giorno della sua morte!»
Morsi il labbro, trattenendo la disperazione dei ricordi violenti. «Due anni fa eravamo in missione attorno a questa stessa base. Eravamo i tiratori scelti migliori della squadra e le nostre postazioni distavano di qualche decina di metri. Mi sorrise prima che ci separassimo e nemmeno un'ora dopo era morto, freddato da alcuni soldati giunti in silenzio alle sue spalle colpendolo al cuore, come dei vigliacchi!»
Un altro silenzio, carico di tensione, separò l'aria tra di noi. «Perché fai ancora il soldato?»
«Abitudine, più che altro. Non saprei dove altro andare, cos'altro fare. Non posso tornare in Spagna, dalla mia famiglia. Sai, dopo qualche anno ci si disabitua alla vita di un tempo; i soldati sono così inselvatichiti che una città e un luogo di pace li fa sentire bestie in gabbia.»
«Ah... capisco. Così tu non credi più che il tuo intervento possa servire a qualcosa? Cioè, guardati: sei la persona più coraggiosa che abbia incontrato finora in queste terre, non puoi davvero pensare che valori come l'audacia o la giustizia non possano valere nulla.»
«Stai parlando troppo» risi tristemente «te l'ho detto: più vivi come noi, bestie tra le bestie, più comprendi che in fondo tutto quello che facciamo – dal combattere per la pace a difendere i più deboli – non è che un circolo senza scopo, come un gatto che si rincorre la coda. Gli ideali, la giustizia, tutte belle parole, ma quando l'entusiasmo per loro si esaurisce capisci che sul campo di battaglia ci sei solo tu: un insignificante singolo che ha appena ammazzato senza pietà altri uomini mascherati da nemici. Scopri di non valere niente. Io stessa mi sono resa conto che da anni non ho più una via da seguire. Io non credo più in qualcosa.»

Poche ore dopo, Aaron si era di nuovo addormentato sul materasso e io me ne stavo seduta, troppo dolorante anche solo per pensare di dormire.

Presi tra le mani l'MP3 spento. «E così, Julian, ne ho trovato un altro. Era da tempo che qualcuno non suscitava la mia simpatia, non dopo di te. È giunta la mia ora, lo sai? Spero solo che lui sopravviva in un modo o nell'altro.»
  
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