capp 3
CAPITOLO
3:
Avvertivo
che c'era luce intorno a me, o almeno credo. Aprii gli occhi... no,
non li aprii. So che volevo farlo ma non ci riuscivo. Le palpebre
sembravano attaccate alla pelle col cemento, erano pesanti, erano
confuse. Non capivo come avrei dovuto fare. Sapevo solo che avevo
voglia di aprire gli occhi e che avevo nausea. Un senso di nausea
così vero e pesante che a poco a poco mi stava riportando alla
realtà.
Probabilmente
gemetti, perché avvertii uno spostamento e una mano fresca sulla
pelle, una mano che mi stava bagnando il viso e il collo per cercare
di svegliarmi.
In
quel momento aprii gli occhi per davvero. Di colpo li sbarrai, lo
stomaco stretto un un nodo di nausea che mi sopraffece e che mi portò
– dopo essermi inginocchiata in un battibaleno – a vomitare
qualcosa di acido in un angolo del pavimento lurido e cementato.
Mi
sentii meglio, il mal di testa pian piano si alleviò e il nodo allo
stomaco si sciolse. Mi pulii con la manica della tuta mimetica e
voltai finalmente il capo verso il possessore di quella mano fredda
che avevo sentito addosso qualche minuto prima. Era un ragazzo, un
giovane pallido dall'aria vagamente familiare. La mia testa confusa
non avrebbe saputo dirmi dove l'avessi già visto, ma sapevo che non
era un soldato del mio esercito e una rapida occhiata al vestiario
confermò la mia ipotesi. Gli abiti, seppur sporchi e sgualciti,
erano quelli di un civile.
«Vuoi
dell'acqua?» mi chiese incerto. Credo fosse inglese. No,
dall'accento americano.
Riempì
una ciotola in terracotta e me la porse. Bevvi avidamente,
squadrandolo e aggrottando le sopracciglia: ero sicura di averlo già
visto.
L'ambiente
intorno a noi era spoglio e angusto, puzzava di piscio e la pesante
porta di legno sembrava chiusa da vari chiavistelli: eravamo in una
cella, o meglio nell'equivalente mediorientale di una prigione
europea, priva di finestre e con un vecchio materasso poggiato a
terra. L'unica luce proveniva dalla piccola apertura sbarrata sulla
sommità della porta d'accesso. Nessuna via di fuga.
Fu
allora che compresi. Capelli castani, occhi vispi e attenti, viso
lineare, piacente ma sostanzialmente anonimo e ricoperto da alcuni
lividi scuri: Aaron Newell, il neolaureato americano che avevamo il
compito di trarre in salvo! Di colpo la mia mente passò in rassegna
ad ogni momento precedente il mio svenimento: il trasferimento dalla
base, la mia posizione, gli spari, il mio MP3... La presenza del
prigioniero ancora in cella significava evidentemente che la missione
non era andata a buon fine e che, forse tutti i miei uomini erano
morti. Choto.
«Aaron
Newell?» chiesi.
Lui
mi guardò stupito: «Credevo che nessuno qui conoscesse il mio nome.
Chi sei?»
«Capitano
Mercedes Soler, dell'esercito spagnolo, in missione per prelevare uno
stupido letterato americano che si è fatto catturare in mezzo al
deserto.»
«Oh.»
Aprii
gli occhi a causa di alcuni passi strascicati e pesanti a qualche
decina di metri da noi. Il sistema di chiavistelli e lucchetti scattò
diverse volte, facendo finalmente aprire la porta di legno con un
cigolio. Mi ero appisolata per qualche minuto, sopraffatta dalla
stanchezza, ma non era ancora notte, credo. Due soldati vestiti di
una tunica bianca e un basso turbante sulla testa entrarono, mentre
un terzo teneva la porta spalancata. Aaron indietreggiò di colpo,
spaventato: dovevano essere andati giù pesanti con lui, quando lo
avevano catturato. Capii subito, però, che quella volta i soldati
non erano lì per lui. Essi mi scrutarono, illuminando il mio viso
col chiarore di una torcia e, biascicando qualcosa in una lingua
sconosciuta, uno di loro mi afferrò il braccio con malagrazia e mi
spinse verso la porta. Anche l'altro braccio fu catturato dal secondo
soldato che mi scortò all'entrata; potei solamente vedere Aaron che
mi fissava, gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa in un sussurro:
«Mercedes».
Stock.
L'ennesimo pugno e io finii faccia a terra assieme alla sedia. Mi
premetti il mento dolorante con la mano sinistra. Quel colosso nero
che mi stava pestando aveva il triplo dei miei muscoli – e forse
metà del cervello, ma non era questo a contare, non in quel momento
in cui sanguinavo copiosamente dal naso e il livido appena sopra
l'occhio sinistro si stava gonfiando impedendomi anche la vista. Una
ginocchiata all'altezza dello stomaco mi fece piegare in due dal
dolore prima che facessi in tempo ad alzarmi e la nausea di qualche
ora prima tornò prepotente facendomi mancare il respiro.
«Parla.»
L'uomo
che aveva parlato si presentava come l'opposto del nero: basso e
mingherlino, sulla cinquantina d'anni e con un volto rugoso
dall'espressione infame ma intelligente. Più elegante del mio
aguzzino, capii subito che svolgeva ruoli di comando all'interno
della base. Si era accomodato su una sedia di legno subito dopo la
mia entrata nella stanza e aveva assistito inespressivo alla scena,
almeno fino a quel momento. «Parla» ripeté in un inglese stentato.
Avrei dovuto accontentarmi. Aveva un accento tipicamente asiatico e
strascicava le parole come se fosse estremamente annoiato da ciò che
lo circondava.
«Cosa
vuoi sapere, viejo?»
Improvvisamente
un barlume di vita attraversò i suoi occhi, ma era la collera ad
accenderlo. Si alzò in piedi e mi sovrastò: «Per quale esercito
lavori, ragazzina?»
«Io
servo la Spagna.» mormorai con un ghigno orgoglioso. Quella volta fu
da lui che ricevetti un pugno in pieno viso: non fece male come
quelli del gigante al suo fianco ma bastò a spaccarmi il labbro
inferiore. Be', meglio così: se mi avesse colpito il suo compare
sono sicura che mi sarei ritrovata senza due denti prima di uscire da
quella stanza.
«Cosa
siete venuti a fare nel nostro territorio?!»
Sogghignai.
«Pensi davvero che te lo dirò? Sai, il solito cliché: il nemico
interroga, il soldato resiste stoicamente alle percosse ma non parla.
Il soldato muore sotto le armi del nemico. Questa storia non finirà
diversamente.»
Prima
di essere una donnetta piagnucolosa ero un soldato, e un soldato non
si lascia sopraffare. Uno spagnolo non si arrende.
Mi
avevano riportata in cella dopo quelli che a me erano sembrati
giorni. Nel frattempo era arrivata la notte e il tragitto da quella
maledetta stanza alla prigione fu un vero inferno: non mi reggevo
sulle mie gambe, il colosso mi aveva colpita al ginocchio e quello
sembrava non rispondere più ai miei comandi. Le due guardie che mi
avevano delicatamente scortata fin lì mi portarono via
letteralmente di peso, trascinandomi per le braccia e calcando quindi
le mani sui lividi viola sopra esse. L'aria fredda della notte mi
riportò alla realtà dal limbo doloroso in cui ero costretta fino a
prima; il cielo era puntinato di stelle e non c'era nuvola a coprire
la luna calante. Sarebbe stata una bella notte per morire, eppure
quei gilipollas mi avevano riempita di botte e poi
risparmiata. Non avevo parlato.
Venni
gettata in malo modo sul ruvido pavimento della cella e il mio gemito
di dolore svegliò Aaron che si era appisolato sul materasso.
Feci
leva sulle braccia martoriate e cercai con tutte le mie forze di
alzarmi. Gemetti e due mani, fresche come durante il mio primo
risveglio lì, mi sfiorarono donandomi un po' di sollievo.
«Mercedes...
cosa ti hanno fatto?! Sono... sono delle bestie! Come hanno potuto?
Io non lo concepisco! Mi... mi dispiace!»
«Stai
zitto.»
Spalancò
gli occhi e mi fissò con la bocca semiaperta, pronta a inveire
ancora contro i nemici con quella parlantina colta.
«Smettila
di fissarmi, non voglio la tua pietà. Sono un soldato, se non l'hai
ancora capito. È questa la mia vita ed è così che affronto la
morte: a testa alta» decretai lapidaria.
«Io...
non era pietà. Penso solo alla brutalità di tutto ciò. Guardati:
sono più numerosi i tuoi lividi delle chiazze di pelle rosea,
potresti avere gravi lesioni interne e non saperlo!»
«...
non ho più niente da perdere, ormai. Avevo una missione, fino a
ieri, ma ora che i miei uomini sono morti e tu sei qui prigioniero...
ora non ho uno scopo da raggiungere. Io morirò entro pochi giorni,
tu poco dopo, quando avranno capito che da un anonimo americano non
potranno ricavare nulla. Questo è il punto.»
«Io
sono sicuro che torneranno a prenderci. Gli Stati Uniti non possono
permettersi di-»
«Al
tuo Paese non frega un cazzo di te! Non capisci? Decine di soldati
muoiono ogni giorno per portare la pace in queste terre deserte, per
gente che non vuole nemmeno essere salvata. Perché mai dovrebbero
sprecare altri uomini per qualcuno che potrebbe essere già morto?
Dopotutto la mia missione è fallita» e quelle parole bruciarono
dentro come fuoco «fallita, capisci? Io sono stata catturata e agli
occhi del mio Generale sono caduta in battaglia. Nessuno ha più
motivo di venire qui.» Respirai a fatica.
«Sono
certo che qualcuno verrà a cercarti, perché so che i soldati hanno
ancora degli ideali di giustizia! Torneranno!»
Ridacchiai
e me ne pentii subito dopo a causa del dolore al labbro e a ogni
muscolo facciale di cui fossi dotata. «Ci sta idealizzando, amico.
Molti di noi entrano nell'esercito portando una ventata fresca di
ideali, di eroismo... è la guerra stessa che ti disillude, è come
uno schiaffo in pieno viso quando meno te lo aspetti. Qui la gente
muore, muore ogni giorno. Non siamo in America, non puoi denunciare
il primo che non rispetta le leggi perché a vincere, qui, è solo il
più forte. Semplicemente, le leggi non esistono. Qui ti alzi la
mattina, ti guardi allo specchio e ti chiedi se il giorno dopo potrai
ancora svegliarti nella tua tenda; guardi i tuoi compagni e non sai
se li rivedrai una volta tornato al campo; ti addormenti sperando che
gli aerei non sgancino una bomba sopra il tuo accampamento. Arrivi
qui pieno di vita e il sorriso ti si spegne piano, con la stessa
frequenza con cui i tuoi amici muoiono, con cui tu uccidi un uomo a
sangue freddo. Ti abbruttisci interiormente dopo ogni cicatrice che
ti si stampa sulla pelle. Conosci la vera natura umana e finisci per
morire dentro ancor prima di venir freddato in battaglia.»
Pensai
di averlo lasciato senza parole, vista la diversità della vita
civile che conosceva lui e del mio mondo, ma mi sbagliavo: alzai gli
occhi dal pavimento lurido su cui ero seduta e lo sorpresi a fissarmi
intensamente, con quegli occhi così scuri e attenti che sembravano
scrutarmi l'anima oltre la scorza dura che dimostravo di avere.
Dentro di me sorrisi: erano gli occhi di un poeta, di quelli che
riuscivano ad estraniarsi completamente dal mondo per cercare di
comprendere l'oggetto delle loro attenzioni. Era come se i miei occhi
diffidenti gli stessero raccontando la mia storia, tanto lui era
concentrato a leggerli.
«Chi
hai perso tu?»
Passarono
almeno due minuti, in cui io abbassai lo sguardo e socchiusi gli
occhi, sospirando piano per il dolore alla gabbia toracica.
«Julian
era il mio migliore amico. Da sempre.» non so perché cominciai a
raccontare... probabilmente avevo visto, dopo due lunghi anni, una
persona degna della mia fiducia. «Sai, i tuoi occhi mi ricordano
lui. Anche Julian amava scrivere, ma quando decisi di arruolarmi non
esitò a seguirmi, mettendo in secondo piano tutti i suoi sogni. E
sai cos'ho fatto io? Ho accettato di trasferirmi qui, in mezzo al
deserto, ponendo così la firma sul giorno della sua morte!»
Morsi
il labbro, trattenendo la disperazione dei ricordi violenti. «Due
anni fa eravamo in missione attorno a questa stessa base. Eravamo i
tiratori scelti migliori della squadra e le nostre postazioni
distavano di qualche decina di metri. Mi sorrise prima che ci
separassimo e nemmeno un'ora dopo era morto, freddato da alcuni
soldati giunti in silenzio alle sue spalle colpendolo al cuore, come
dei vigliacchi!»
Un
altro silenzio, carico di tensione, separò l'aria tra di noi.
«Perché fai ancora il soldato?»
«Abitudine,
più che altro. Non saprei dove altro andare, cos'altro fare. Non
posso tornare in Spagna, dalla mia famiglia. Sai, dopo qualche anno
ci si disabitua alla vita di un tempo; i soldati sono così
inselvatichiti che una città e un luogo di pace li fa sentire bestie
in gabbia.»
«Ah...
capisco. Così tu non credi più che il tuo intervento possa servire
a qualcosa? Cioè, guardati: sei la persona più coraggiosa che abbia
incontrato finora in queste terre, non puoi davvero pensare che
valori come l'audacia o la giustizia non possano valere nulla.»
«Stai
parlando troppo» risi tristemente «te l'ho detto: più vivi come
noi, bestie tra le bestie, più comprendi che in fondo tutto quello
che facciamo – dal combattere per la pace a difendere i più deboli
– non è che un circolo senza scopo, come un gatto che si rincorre
la coda. Gli ideali, la giustizia, tutte belle parole, ma quando
l'entusiasmo per loro si esaurisce capisci che sul campo di battaglia
ci sei solo tu: un insignificante singolo che ha appena ammazzato
senza pietà altri uomini mascherati da nemici. Scopri di non valere
niente. Io stessa mi sono resa conto che da anni non ho più una via
da seguire. Io non credo più in qualcosa.»
Poche
ore dopo, Aaron si era di nuovo addormentato sul materasso e io me ne
stavo seduta, troppo dolorante anche solo per pensare di dormire.
Presi
tra le mani l'MP3 spento. «E così, Julian, ne ho trovato un
altro. Era da tempo che qualcuno non suscitava la mia simpatia, non
dopo di te. È giunta la mia ora, lo sai? Spero solo che lui
sopravviva in un modo o nell'altro.»