CAPITOLO 2:
Mi
lanciò un plico di fogli con fare svogliato: «Ecco, dagli
un'occhiata.»
Scorsi
velocemente le prime righe. Quella che sembrava la foto di una carta
d'identità presentava l'anonimo volto di un altrettanto anonimo
ragazzo americano: Aaron Newell, ventotto anni, tipico figlio d'una
famiglia di avvocati per bene. Aveva frequentato Harvard e si era
laureato con il massimo dei voti, pubblicando dopo pochi mesi un
romanzo di discreto successo. La mia ipotesi era confermata: si
trattava del tipico ragazzotto sognatore che in un lampo di genialità
si era improvvisato eroico giornalista della guerra e,
sorprendentemente, si era fatto catturare e forse uccidere.
Uno tra i tanti.
«È
morto. I Mursi non fanno prigionieri, neanche tra i ricchi»
sentenziai.
«Mercedes,
ce ne serve almeno uno vivo! I governi non vedono di buon occhio i
nostri interventi negli ultimi tempi: o combini qualcosa di buono e
lo salvi, oppure stai certa del nostro immediato trasferimento in
qualche ufficio al Cairo.»
Sbuffai
debolmente: «Hai idea di quanti dei miei uomini potrebbero morire
per portare via un cadavere di cui probabilmente qualcuno si è già
sbarazzato? La tua è un'idea assolutamente inutile.»
Un
aspro sguardo di rimprovero fu l'unico segno che avesse udito le mie
proteste. «Organizza la squadra. Voglio sessanta uomini pronti per
martedì, prima del sorgere del sole.»
La
tuta mimetica era accuratamente piegata sul bordo del letto, accanto
al cappello e al solito straccio grigio-rossiccio che avrebbe dovuto
coprirmi e nascondermi durante l'operazione. Infilai i pantaloni
larghi, la canottiera grigia e sopra di essa il giaccone scuro.
La
mia improvvisata scrivania – un ammasso scuro di assi di legno –
era coperta da fogli e cianfrusaglie che provvedetti immediatamente a
scostare e buttare a terra, fino ad afferrare l'oggetto delle mie
ricerche: un piccolo MP3 grigio dallo schermo rovinato e gli angoli
smussati. Lo accesi e controllai la batteria.
Mierda.
Si stava esaurendo: in mezzo al deserto non era facile trovare una
presa per la corrente elettrica, né tantomeno un computer. Sarebbe
appena bastata per la missione, dovevo comunicare al Generale la mia
decisione di tornare in città per qualche giorno.
«Comandante
Soler, i carri sono pronti»
«Mh»
replicai, relativamente poco interessata all'avviso del mio
sottoposto, sospirando ancora in direzione del piccolo dispositivo
di fronte a me, aggrottando le sopracciglia pensierosa di fronte al
riquadrino arancione e lampeggiante della batteria. Che seccatura.
Lo spensi. «Arrivo.»
Oliver
abbaiò avvicinandosi a me e gli feci una carezza, baciandolo sulla
testa. «Torno tra qualche ora, amore» dissi sorridendo.
Ammassati
nel retro del grande camion, sudavamo come maiali dentro le pesanti
tute che indossavamo. Ad ogni sobbalzo uno sbuffo d'aria calda
riusciva ad aprire il telo che copriva il retro del veicolo e rendeva
l'aria sempre più soffocante. Alcuni di noi annaspavano e si
asciugavano la fronte con la manica, indecisi se fosse peggio
l'attesa snervante nell'aria afosa o l'immediato pericolo che ci
attendeva. Li guardai tutti in faccia, uno ad uno. Sembrerà banale,
ma un'esperienza dura come la guerra trasforma le persone, le uccide
dentro o le rende più forti, o semplicemente più insensibili;
rafforza l'odio, crea legami indissolubili tra i compagni. Ero
arrivata al campo trovando veterani dalle cicatrici sul viso e nelle
anime, avevo visto arrivare dopo di me giovani entusiasti che
diventavano uomini.
Avevo
visto gli stessi uomini anche arrendersi, piegarsi davanti all'immane
macchina della guerra, ne avevo visto altri combattere e morire,
altri ancora erano lì, di fronte a me quel giorno, in angosciosa
attesa di un futuro incerto che avrebbe visto la caduta di alcuni di
loro e la gloria di altri.
Che
mio padre avesse visto le stesse cose nei volti dei suoi commilitoni?
Aveva provato le mie stesse emozioni, seduto nel lurido retro di un
camion traballante? Cosa ne era stato di lui? Dopotutto, una lettera
dello Stato che parlava di “uno tra i coraggiosi eroi caduti per la
Patria – un corpo mai ritrovato”... no, quella lettera recapitata
alla povera donna che era mia madre, non poteva dichiararsi
spiegazione della sua scomparsa.
Il
conducente bussò dal vetro che ci separava, invitandomi a
raggiungerlo. Scesi dal retro scostando il telo e il sole bruciante
mi accecò.
«Io
qua mi fermo, Comandante. Siamo a circa tre chilometri e mezzo dalla
base dei Mursi, in direzione sud-est. Quei monti-»
«So
perfettamente dove siamo, purtroppo.»
«Vecchi
ricordi?»
«Già.»
Mi
ero separata dai miei uomini mezz'ora prima e mi ero appostata
qualche decina di metri più in alto della base nemica, su un'altura
stranamente verdeggiante per gli standard del luogo. Avevo lasciato
lo zaino più in là, sotto un cespuglio, e mi ero distesa sul ciglio
della collinetta, coperta dal groviglio che mi ero portata dietro, in
una posizione da cui potevo tenere d'occhio l'intera fortificazione:
rimasta immutata nei due anni trascorsi dalla mia prima visita, essa
si presentava come un ammasso di piccoli edifici bianchi, rudimentali
ed estremamente fragili; un basso muretto in calce ne delimitava i
confini privi di cancelli, controllati di tanto in tanto da qualche
soldato armato, vestito di una lunga tunica bianca che copriva
l'intero corpo. Brutti ricordi, davvero brutti... ma dovevo essere un
soldato: il passato in quel momento non esisteva. Julian non
esisteva.
Guardai
l'orologio: sette minuti alle 14.00, sette minuti all'inizio...
Portai
le mani nella tasca interna della giacca e afferrai l'MP3. Lo accesi
e scorsi la playlist, scegliendo Lounge act dei Nirvana e
stendendomi ad aspettare pazientemente.
“I'll
arrest myself, I'll wear a shield, I'll go out my way to prove I
still...” Bang. Il primo soldato nemico non fece in tempo a
voltarsi che una pallottola gli aveva trapassato il cranio. Il
compare si girò allarmato nella direzione in cui avevo sparato, ma
non vide nulla: i primi uomini delle mie file erano arrivati e uno di
essi lo colpì sulla nuca con il calcio della pistola, finendolo
subito dopo.
“And
I've got this friend, you see, who makes me feel and I wanted more
than I could steal...”
Fece
segno agli altri di entrare, mentre io voltavo il capo oltre il varco
ormai libero, dall'altro lato dell'accampamento: la seconda squadra
procedeva alla stessa maniera, silenziosa come un felino a caccia,
entrando nel primo edificio dopo l'entrata della base. Uno sparo.
Due. Tre. Un rantolio e un grido d'allarme proveniente dalla tozza
torretta che affiancava il fabbricato. Mirai alla vedetta mentre la
canzone cambiava.
“It's
the eye of the tiger, it's the thrill of the fight, risin' up to the
challenge of our rival...”
La
centrai. Cadde dalla balconata e si spiaccicò a terra in una piccola
pozza rosso scuro, con i compagni che, uscendo dalla stessa torre, si
inginocchiavano per verificare che fosse morta. I più furbi
imbracciarono le armi, ma come potevano centrare un bersaglio
invisibile? Si guardarono attorno, in attesa di un minimo movimento
per sparare a raffica, ma sia i miei uomini sia quelli dall'altra
parte della base stettero immobili. Un silenzio assoluto cosparse
l'aria secca, il solo sibilo del vento ad interromperlo imponente. Le
labbra mi si seccarono, la gola si inaridì. Deglutii e mi preparai a
dare il via a quello che sapevo sarebbe stato un macello e per un
attimo la mia mente fece ritorno a due anni prima.
“Don't
lose your grip on the dreams of the past...”
Sette
nemici caddero sotto i colpi miei e dell'altro cecchino. Anzi, otto.
Il numero sarebbe salito, ma dopo nemmeno un minuto l'intera base si
riempì di urla terribili in una lingua che nessuno di noi conosceva,
una lingua che sapeva di cattiveria, di morte. Come un formicaio
diventa caotico di fronte al bambino che ne stuzzica gli abitanti con
un legnetto, anche l'esercito nemico si armò di spade, bombe e
coraggio, dando il via ad una strenua resistenza che si trasformò in
attacco non appena i nostri primi soldati cominciarono a cadere.
“You
must fight just to keep them alive...”
Anche
se in inferiorità numerica, noi europei eravamo i più armati, i più
addestrati, avevamo una grande conoscenza del nemico e strateghi tra
i più intelligenti al mondo. Tutto ciò non bastò ad ottenere una
vittoria facile, soprattutto quando i nemici sembravano un gruppo di
assatanati pronti a strapparsi il cuore da soli pur di difendere il
loro mondo. Una bomba scoppiò soli dieci metri sotto di me ed io
sobbalzai sbattendo un'anca su uno sperone della roccia che mi
affiancava. Ricaricai subito il fucile e sparai due colpi.
Bzz,
bzz.
Un
ronzio mi riempì le orecchie, sovrapponendosi a Breed dei
Nirvana. “Get away, away, away from – bzz – your home, I'm
afraid, afrai, Ghost! - bzz.”
“Ma
cosa...?” diedi un'occhiata al campo di battaglia: sembravamo
avere la meglio, anche se ero cosciente del fatto che la situazione
avrebbe potuto degenerare in una manciata di secondi. Respirai
affannosamente, continuando socchiudere un occhio, mirare e sparare,
ma il ronzio continuava, si acuiva, si prolungava e sbagliai mira per
tre volte di seguito, rischiando di ferire i miei uomini.
«Caray!»
biascicai tra i denti.
Non
potevo continuare così, quel sibilo mi stava facendo impazzire: se
avessi perso definitivamente la concentrazione, sarebbero stati guai
per la mia squadra e la missione stessa. Buttai il fucile a terra e
ficcai le mani nelle tasche cercando l'MP3 e trovandolo dopo poco: lo
schermo solitamente azzurro si spegneva a tratti, annerendosi e
alternando le note della canzone con il ronzio che ormai mi stava
spaccando la testa in due. Mierda, dovevo averlo rovinato
durante l'impatto con la roccia. E ora?!
Non
feci in tempo a realizzare la situazione o a sentire le disperate
urla spagnole sul campo di battaglia, né tantomeno a sentire dei
passi concitati alle mie spalle. Avvertii solo lo strusciarsi di
qualcosa a contatto con la mia caviglia. Sentendomi gelare il sangue
nelle vene, non riuscii nemmeno a voltare il capo perché un'ombra si
gettò su di me. Non so se urlai, se tentai di coprirmi la testa o se
riuscii a vedere il volto del mio aggressore. Sentii solamente un
duro colpo sulla nuca, un bruciore insopportabile e poi fu come se i
fili che collegavano il mio cervello al corpo si staccassero: i
movimenti divennero lenti, il deserto intorno a me cominciò a
vorticare ma probabilmente era la mia testa a ciondolare inerte verso
il terreno. E quel che vidi dopo fu solo buio.