Storie originali > Generale
Segui la storia  |       
Autore: wanderjess    25/03/2015    0 recensioni
Mercedes crede che la guerra le abbia rivelato tutto sulla brutale natura umana, disilludendola per anni. Sullo sfondo delle note di Eye of the tiger, però, potrebbe scoprire che oltre al mondo selvaggio che lei conosce c'è ancora qualcosa degno di speranza.
[Sta partecipando al concorso "This is war - Situations" indetto da ManuFury sul forum di EFP]
Genere: Azione, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
ooo

CAPITOLO 2:


Mi lanciò un plico di fogli con fare svogliato: «Ecco, dagli un'occhiata.»
Scorsi velocemente le prime righe. Quella che sembrava la foto di una carta d'identità presentava l'anonimo volto di un altrettanto anonimo ragazzo americano: Aaron Newell, ventotto anni, tipico figlio d'una famiglia di avvocati per bene. Aveva frequentato Harvard e si era laureato con il massimo dei voti, pubblicando dopo pochi mesi un romanzo di discreto successo. La mia ipotesi era confermata: si trattava del tipico ragazzotto sognatore che in un lampo di genialità si era improvvisato eroico giornalista della guerra e, sorprendentemente, si era fatto catturare e forse uccidere. Uno tra i tanti.
«È morto. I Mursi non fanno prigionieri, neanche tra i ricchi» sentenziai.
«Mercedes, ce ne serve almeno uno vivo! I governi non vedono di buon occhio i nostri interventi negli ultimi tempi: o combini qualcosa di buono e lo salvi, oppure stai certa del nostro immediato trasferimento in qualche ufficio al Cairo.»
Sbuffai debolmente: «Hai idea di quanti dei miei uomini potrebbero morire per portare via un cadavere di cui probabilmente qualcuno si è già sbarazzato? La tua è un'idea assolutamente inutile.»
Un aspro sguardo di rimprovero fu l'unico segno che avesse udito le mie proteste. «Organizza la squadra. Voglio sessanta uomini pronti per martedì, prima del sorgere del sole.»


La tuta mimetica era accuratamente piegata sul bordo del letto, accanto al cappello e al solito straccio grigio-rossiccio che avrebbe dovuto coprirmi e nascondermi durante l'operazione. Infilai i pantaloni larghi, la canottiera grigia e sopra di essa il giaccone scuro.
La mia improvvisata scrivania – un ammasso scuro di assi di legno – era coperta da fogli e cianfrusaglie che provvedetti immediatamente a scostare e buttare a terra, fino ad afferrare l'oggetto delle mie ricerche: un piccolo MP3 grigio dallo schermo rovinato e gli angoli smussati. Lo accesi e controllai la batteria.
Mierda. Si stava esaurendo: in mezzo al deserto non era facile trovare una presa per la corrente elettrica, né tantomeno un computer. Sarebbe appena bastata per la missione, dovevo comunicare al Generale la mia decisione di tornare in città per qualche giorno.
«Comandante Soler, i carri sono pronti»
«Mh» replicai, relativamente poco interessata all'avviso del mio sottoposto, sospirando ancora in direzione del piccolo dispositivo di fronte a me, aggrottando le sopracciglia pensierosa di fronte al riquadrino arancione e lampeggiante della batteria. Che seccatura. Lo spensi. «Arrivo.»
Oliver abbaiò avvicinandosi a me e gli feci una carezza, baciandolo sulla testa. «Torno tra qualche ora, amore» dissi sorridendo.


Ammassati nel retro del grande camion, sudavamo come maiali dentro le pesanti tute che indossavamo. Ad ogni sobbalzo uno sbuffo d'aria calda riusciva ad aprire il telo che copriva il retro del veicolo e rendeva l'aria sempre più soffocante. Alcuni di noi annaspavano e si asciugavano la fronte con la manica, indecisi se fosse peggio l'attesa snervante nell'aria afosa o l'immediato pericolo che ci attendeva. Li guardai tutti in faccia, uno ad uno. Sembrerà banale, ma un'esperienza dura come la guerra trasforma le persone, le uccide dentro o le rende più forti, o semplicemente più insensibili; rafforza l'odio, crea legami indissolubili tra i compagni. Ero arrivata al campo trovando veterani dalle cicatrici sul viso e nelle anime, avevo visto arrivare dopo di me giovani entusiasti che diventavano uomini.
Avevo visto gli stessi uomini anche arrendersi, piegarsi davanti all'immane macchina della guerra, ne avevo visto altri combattere e morire, altri ancora erano lì, di fronte a me quel giorno, in angosciosa attesa di un futuro incerto che avrebbe visto la caduta di alcuni di loro e la gloria di altri.
Che mio padre avesse visto le stesse cose nei volti dei suoi commilitoni? Aveva provato le mie stesse emozioni, seduto nel lurido retro di un camion traballante? Cosa ne era stato di lui? Dopotutto, una lettera dello Stato che parlava di “uno tra i coraggiosi eroi caduti per la Patria – un corpo mai ritrovato”... no, quella lettera recapitata alla povera donna che era mia madre, non poteva dichiararsi spiegazione della sua scomparsa.


Il conducente bussò dal vetro che ci separava, invitandomi a raggiungerlo. Scesi dal retro scostando il telo e il sole bruciante mi accecò.
«Io qua mi fermo, Comandante. Siamo a circa tre chilometri e mezzo dalla base dei Mursi, in direzione sud-est. Quei monti-»
«So perfettamente dove siamo, purtroppo.»
«Vecchi ricordi?»
«Già.»


Mi ero separata dai miei uomini mezz'ora prima e mi ero appostata qualche decina di metri più in alto della base nemica, su un'altura stranamente verdeggiante per gli standard del luogo. Avevo lasciato lo zaino più in là, sotto un cespuglio, e mi ero distesa sul ciglio della collinetta, coperta dal groviglio che mi ero portata dietro, in una posizione da cui potevo tenere d'occhio l'intera fortificazione: rimasta immutata nei due anni trascorsi dalla mia prima visita, essa si presentava come un ammasso di piccoli edifici bianchi, rudimentali ed estremamente fragili; un basso muretto in calce ne delimitava i confini privi di cancelli, controllati di tanto in tanto da qualche soldato armato, vestito di una lunga tunica bianca che copriva l'intero corpo. Brutti ricordi, davvero brutti... ma dovevo essere un soldato: il passato in quel momento non esisteva. Julian non esisteva.
Guardai l'orologio: sette minuti alle 14.00, sette minuti all'inizio...
Portai le mani nella tasca interna della giacca e afferrai l'MP3. Lo accesi e scorsi la playlist, scegliendo Lounge act dei Nirvana e stendendomi ad aspettare pazientemente.

I'll arrest myself, I'll wear a shield, I'll go out my way to prove I still...” Bang. Il primo soldato nemico non fece in tempo a voltarsi che una pallottola gli aveva trapassato il cranio. Il compare si girò allarmato nella direzione in cui avevo sparato, ma non vide nulla: i primi uomini delle mie file erano arrivati e uno di essi lo colpì sulla nuca con il calcio della pistola, finendolo subito dopo.
And I've got this friend, you see, who makes me feel and I wanted more than I could steal...”
Fece segno agli altri di entrare, mentre io voltavo il capo oltre il varco ormai libero, dall'altro lato dell'accampamento: la seconda squadra procedeva alla stessa maniera, silenziosa come un felino a caccia, entrando nel primo edificio dopo l'entrata della base. Uno sparo. Due. Tre. Un rantolio e un grido d'allarme proveniente dalla tozza torretta che affiancava il fabbricato. Mirai alla vedetta mentre la canzone cambiava.

It's the eye of the tiger, it's the thrill of the fight, risin' up to the challenge of our rival...”
La centrai. Cadde dalla balconata e si spiaccicò a terra in una piccola pozza rosso scuro, con i compagni che, uscendo dalla stessa torre, si inginocchiavano per verificare che fosse morta. I più furbi imbracciarono le armi, ma come potevano centrare un bersaglio invisibile? Si guardarono attorno, in attesa di un minimo movimento per sparare a raffica, ma sia i miei uomini sia quelli dall'altra parte della base stettero immobili. Un silenzio assoluto cosparse l'aria secca, il solo sibilo del vento ad interromperlo imponente. Le labbra mi si seccarono, la gola si inaridì. Deglutii e mi preparai a dare il via a quello che sapevo sarebbe stato un macello e per un attimo la mia mente fece ritorno a due anni prima.

Don't lose your grip on the dreams of the past...”
Sette nemici caddero sotto i colpi miei e dell'altro cecchino. Anzi, otto. Il numero sarebbe salito, ma dopo nemmeno un minuto l'intera base si riempì di urla terribili in una lingua che nessuno di noi conosceva, una lingua che sapeva di cattiveria, di morte. Come un formicaio diventa caotico di fronte al bambino che ne stuzzica gli abitanti con un legnetto, anche l'esercito nemico si armò di spade, bombe e coraggio, dando il via ad una strenua resistenza che si trasformò in attacco non appena i nostri primi soldati cominciarono a cadere.

You must fight just to keep them alive...”
Anche se in inferiorità numerica, noi europei eravamo i più armati, i più addestrati, avevamo una grande conoscenza del nemico e strateghi tra i più intelligenti al mondo. Tutto ciò non bastò ad ottenere una vittoria facile, soprattutto quando i nemici sembravano un gruppo di assatanati pronti a strapparsi il cuore da soli pur di difendere il loro mondo. Una bomba scoppiò soli dieci metri sotto di me ed io sobbalzai sbattendo un'anca su uno sperone della roccia che mi affiancava. Ricaricai subito il fucile e sparai due colpi.
Bzz, bzz.
Un ronzio mi riempì le orecchie, sovrapponendosi a Breed dei Nirvana. “Get away, away, away from – bzz – your home, I'm afraid, afrai, Ghost! - bzz.”

Ma cosa...?” diedi un'occhiata al campo di battaglia: sembravamo avere la meglio, anche se ero cosciente del fatto che la situazione avrebbe potuto degenerare in una manciata di secondi. Respirai affannosamente, continuando socchiudere un occhio, mirare e sparare, ma il ronzio continuava, si acuiva, si prolungava e sbagliai mira per tre volte di seguito, rischiando di ferire i miei uomini.
«Caray!» biascicai tra i denti.
Non potevo continuare così, quel sibilo mi stava facendo impazzire: se avessi perso definitivamente la concentrazione, sarebbero stati guai per la mia squadra e la missione stessa. Buttai il fucile a terra e ficcai le mani nelle tasche cercando l'MP3 e trovandolo dopo poco: lo schermo solitamente azzurro si spegneva a tratti, annerendosi e alternando le note della canzone con il ronzio che ormai mi stava spaccando la testa in due. Mierda, dovevo averlo rovinato durante l'impatto con la roccia. E ora?!
Non feci in tempo a realizzare la situazione o a sentire le disperate urla spagnole sul campo di battaglia, né tantomeno a sentire dei passi concitati alle mie spalle. Avvertii solo lo strusciarsi di qualcosa a contatto con la mia caviglia. Sentendomi gelare il sangue nelle vene, non riuscii nemmeno a voltare il capo perché un'ombra si gettò su di me. Non so se urlai, se tentai di coprirmi la testa o se riuscii a vedere il volto del mio aggressore. Sentii solamente un duro colpo sulla nuca, un bruciore insopportabile e poi fu come se i fili che collegavano il mio cervello al corpo si staccassero: i movimenti divennero lenti, il deserto intorno a me cominciò a vorticare ma probabilmente era la mia testa a ciondolare inerte verso il terreno. E quel che vidi dopo fu solo buio.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: wanderjess