Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: theprophetlemonade    30/03/2015    3 recensioni
Jean Kirschtein non sa esattamente perché ci sia bisogno di qualcuno per pulire la piscina, dato che nessuno sembra mai nuotarci dentro, ma, quando vede sua madre che proprio non riesce a smettere di fare gli occhi dolci al nuovo inserviente, Jean capisce che potrebbe non essere l’unica.
A quanto pare, cercare di instaurare una relazione con quel ragazzo della piscina coperto di lentiggini è più complicato di quanto sembra, se aggiungi una situazione familiare più che disastrosa, uno stronzo infedele come padre e un’esistenza seriamente solitaria.
Un’AU fluff e angst in egual misura, dove vedrete alcuni ragazzi che puliscono piscine, altri che fumano sui tetti, tanti problemi con i genitori e soprattutto Marco a petto nudo.
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter 3: Give Me Convenience or Give Me Death

 

Quando andavo alle medie, quasi tutti i miei amici mi invidiavano per la mia casa. Ricordo che Connie tornava quasi ogni giorno qui dopo la scuola semplicemente per sedersi sul nostro divano (che, a detta sua, era praticamente grande quanto tutto il suo soggiorno), e non tanto per passare effettivamente del tempo con me. Quando veniva anche Sasha era sempre difficile trascinarla via dal freezer (Connie spesso scherzava dicendo che avremmo dovuto chiuderla direttamente lì dentro perché ehi, probabilmente era abbastanza grande per accoglierla e regalarle anche un’esistenza piuttosto agiata!) – poi Sasha provava a picchiare Connie con la prima cosa che riuscisse a trovare in giro: di solito con un cuscino, o la sua felpa, ma quella volta in cui usò il telecomando dell’Xbox la ricorderò per sempre.
Non riesco neanche a ricordare l’ultima volta che ci siano stati amici a casa – a volte mi chiedo perché non abbia fatto il possibile per renderla un’occasione memorabile, in qualche modo. D’altro canto, però, probabilmente non c’era proprio nulla da ricordare; sarà stato un incontro per qualche motivo banale – forse Connie aveva dimenticato il telefono fra i cuscini del divano come sempre, o magari Sasha voleva che le prestassi dei libri perché il suo cane aveva deciso che i suoi Iams non fossero un mezzo di sostentamento sufficiente. Ed è proprio la banalità a fare così male.

Non potrei mai essere invidioso di questa casa. Più cresco e più mi sembra grande. O forse mi dà solo fastidio il fatto di dovermi alzare dal divano per prendere quel cazzo di telecomando da sopra la TV. Già. Dieci passi sono decisamente troppi.

Mi sono quasi pentito di non aver cercato alloggio nei dormitori dell’università quando ho iniziato il college, l’anno scorso – ho detto “quasi”, perché nonostante sia pigro, per quanto sia restio a muovere il culo per prendere qualsiasi cosa dall’altra parte della stanza, probabilmente sarei ancor meno contento di essere costretto a condividere la stanza con qualcun altro.

Inoltre, non è che avesse molto senso per me trasferirsi in un’altra città per il college – da qui al campus sono solo quindici minuti in auto, forse venti al massimo. E poi, se mi fossi trasferito, chi sarebbe rimasto a casa a intercettare tutte le chiamate della segretaria di papà al telefono di casa? Nessuno, esattamente.

Rimango a poltrire sul divano, con un braccio dietro la testa mentre fisso la TV. Inizia la sigla di quel cazzo di Spongebob Squarepants. Ecco, ci sono alcune cose per cui sono decisamente disposto ad attraversare la stanza. I programmi televisivi del sabato toccano veramente il fondo.
Addio, finalmente, borbotto arrabbiato nella mia testa mentre premo decisamente il bottone di spegnimento sul telecomando. La TV si spegne con un bip.

Con l’assenza del coro di “sì, signor capitano” a distruggermi i timpani, mi rendo conto che mamma ha compagnia in cucina. Tiro fuori il telefono dalla tasca dei jeans a fatica, e controllo l’orario: sono le due e mezzo del pomeriggio. Contraggo la bocca in una smorfia. Probabilmente Marco è già arrivato. Per il suo bene, spero che qualsiasi cosa a cui mia madre lo stia sottoponendo non stia traumatizzando quel povero inserviente lentigginoso a vita.

Con mia sorpresa (e un leggero senso di sollievo), non è Marco la persona che mia madre è riuscita a trascinare in cucina – è un’altra donna, probabilmente una delle sue amiche del corso di aerobica, o del parrucchiere, o di qualsiasi cazzo di attività svolga mia madre nel suo tempo libero. Sono entrambe appollaiate sugli sgabelli da bar rivolti verso la finestra, e tutt’e due stringono i bicchieri da cocktail fra le mani con le unghie smaltate, parlottando a bassa voce.

Ho tre ipotesi sull’oggetto della conversazione.

“Mamma” dico io, allertandola della mia presenza sulla porta della cucina e facendole sobbalzare entrambe. “Sta iniziando a diventare una vera e propria molestia sessuale, ti sto avvisando.”

“Jean” si lamenta, inclinando il bicchiere nella mia direzione, “Stiamo solo ammirando.” La sua amica inizia a ridacchiare come una stupida, e mia madre le fa presto compagnia; per tutta risposta, io emetto un gemito contrariato.

Mentre attraverso la cucina per ispezionare il frigo, lancio uno sguardo fuori dalla finestra e mi fermo immediatamente, a bocca aperta. Certo che Marco non fa nulla per migliorare la situazione.

“Per favore, dimmi che non hai niente a che fare con quello” indico spudoratamente  l’abbronzatissimo, lentigginoso e molto, molto, uh… tonico ragazzo della piscina, che al momento non indossa alcuna maglietta.

“No”, piagnucola mia madre – anche se dubito fortemente che le sarebbe dispiaciuto essere il motivo della sua semi-nudità, conoscendola. “Ha fatto tutto da solo. È davvero quello che pensi di me, Jean? Oh Dio!”

Penso solo che sei piuttosto disperata, cazzo, rimugino fra me e me – e comunque sono convinto che mi stia solo assecondando. Continuo a camminare in linea retta verso il frigo, con lo sguardo incollato al pavimento.

La luce del frigorifero è come un faro di normalità in questa gabbia di matti; prendo una lattina di Coca-Cola, sfiorando con la mano la brocca di limonata nello sportello. Nel momento esatto in cui stringo le dita sull’alluminio fresco e rosso della lattina, mia madre grida qualcosa alle mie spalle:

“Ah, offri qualcosa da bere a Marco, okay?”

Sul serio. Cos’ho fatto per meritarmi tutto questo.

Mormoro una serie di imprecazioni sottovoce e afferro una lattina di Dr. Pepper che pare non manchi mai nel nostro frigo, nonostante non piaccia a nessuno in famiglia.

Arranco a fatica fuori in giardino, trascinando deliberatamente i piedi a ogni passo, solo per far notare a mia madre quanto non sia d’accordo a fare…qualsiasi cosa stia facendo. Marco alza lo sguardo dalla porzione di acqua che sta setacciando con il retino e un ampio sorriso gli illumina il volto.

“Ehi”, mi saluta con un tono di voce gioioso mentre abbandona il retino a bordo piscina, assicurandosi le cuffie attorno al collo e avanzando a grandi passi verso di me per salutarmi. Ritiro qualsiasi cosa abbia detto in precedenza sulla tonicità del suo fisico. Non è semplicemente tonico. Si potrebbe grattugiare il formaggio su quegli addominali.

Sento la mia stessa ombra rimpicciolirsi se inizio a pensare a quanto sono magro e flaccido. Non è per niente giusto, cazzo. Dio mio.

“Ti ho portato qualcosa da bere” farfuglio, porgendogli la lattina di Dr. Pepper estendendo un braccio rigido. Provo a recuperare quel poco di decenza che mi rimane. “…o puoi prendere la mia Coca-Cola, se preferisci.”

Le lentiggini sembrano scomparirgli nelle guance rosse. Per un breve momento mi domando se si degni di usare la crema solare o meno. Allunga una mano davanti a sé con un gesto agitato.

“N-no! Mi va benissimo la Dr Pepper! Grazie!”

Prende rapidamente la lattina dalla mia mano e fa scattare la linguetta. Io lo imito con noncuranza, ingoiando quasi metà della mia Coca in un unico sorso.

“…Sai che non fai altro che peggiorare la situazione così, vero?” aggiungo con un po’ di esitazione, allontanando la lattina dalle labbra. Indico la cucina con un cenno del capo, gli occhi scuri di Marco seguono attentamente il mio movimento. Sono quasi sicuro di vederlo indietreggiare leggermente. “Così…come?” Gesticolo con la mano libera per indicare il suo petto nudo e il rossore non fa che aumentare sul suo viso, mentre si strofina la nuca con aria imbarazzata.
“Mi dispiace” dice lui inclinando la testa. Non capisco esattamente perché si stia scusando con me, che sono fin troppo abituato alle assurdità di mia madre. “È che prima mi sono schizzato la maglia con la soluzione di cloro. Quella roba ha scolorito una macchia gigantesca proprio qui davanti, e puzzava tantissimo-”

Non riesco a trattenere un grugnito divertito, nascondendo un ghigno dietro la mano. Marco apre la bocca per aggiungere qualcos’altro ma poi si ferma, mordendosi il labbro.

“Questa sì che è sfortuna, eh…” osservo, spostando il peso sui talloni. Lancio uno sguardo rapido alle mie spalle verso la finestra della cucina – come pensavo, sono ancora lì, con gli occhi incollati alla mia conversazione con la loro preda – cioè, con il loro…no, credo che preda sia proprio il termine giusto. Mia madre alza una mano per mandarci un saluto con aria civettuola. Marco le offre un sorriso educato con non poca riluttanza.

“Dovrei sapere cosa si stanno dicendo laggiù?” mi chiede, incrociando le braccia al petto come a volersi proteggere.

Scuoto la testa, ormai incapace di nascondere il sorriso sornione che mi occupa il volto.

“Meglio di no” rido sotto i baffi, sogghignando nel vedere le sue spalle abbassarsi per lo sconforto. “Vuoi che ti presti una maglietta? Sai, per mantenere un minimo di decenza.”

Annuisce, mentre io mi scolo gli ultimi sorsi di Coca-Cola rimasti. Sento nel naso la fastidiosissima effervescenza delle bollicine di diossido di carbonio, quindi espiro con forza, il che probabilmente sembra quasi un verso di scherno. Faccio scricchiolare la lattina in mano.

“Anche se non posso garantire di avere qualcosa che ti possa andar bene” aggiungo, sarcastico. “Penso proprio che tutti quei muscoli non siano umanamente possibili, Marco.” Non posso che rimanere soddisfatto dalla reazione agitata che gli si legge in volto. Ridacchio fra me e me e torno verso casa, girandomi solo un attimo per dirgli “Vedrò cosa riesco a trovare.”

 


 

“Sto andando a prendere una maglietta per Marco” affermo, attraversando rapidamente la cucina. Nonostante le proteste di mia madre, continuo: “Qualcuno dovrà pur salvarlo dalle tue avances, okay?”

Salgo due scalini alla volta, arrivando alla porta della mia stanza con il fiato più corto di quanto mi piaccia ammettere.

Guardati un po’ mentre ti comporti effettivamente da persona amichevole, rimarca la mia mente. Dovresti scattare una foto per fare tesoro di questo momento, Jean.
Sono sicuro che una delle polo Ralph Lauren (con cui mia madre riempie regolarmente il mio armadio) sia la scelta migliore per Marco – mamma ha iniziato solo recentemente ad azzeccare la mia taglia (nonostante viviamo insieme da diciannove anni, tengo a specificare), di solito sceglieva sempre misure più grandi del dovuto. Controllo la targhetta di qualche maglia, finché non trovo quello che cerco nel colletto di una polo piuttosto semplice, bianca: una M. La strattono via dalla gruccia, che cade sul pavimento. La raccoglierò dopo.

Per poco non inciampo nei miei stessi piedi mentre galoppo al piano di sotto, slittando in cucina sui miei calzini, rischiando quasi di schiantarmi sul bancone, che riesco a evitare per un pelo. Mamma e la sua amica non si sono mosse, ma sono animate in una conversazione piuttosto seria su un’amica in comune e sulle sue vicende amorose con il suo capo.

Quando riemergo nel cortile, Marco mi dà le spalle, accovacciato sul sistema di scolo della piscina mentre smanetta con l’alimentatore. Una serie di lentiggini segue la curva della schiena, scomparendo sotto l’elastico dei pantaloncini – mi schiaffeggio mentalmente per essere rimasto a fissarlo.
Cosa stai facendo, Jean.

“E-ehi” lo chiamo con un tono un po’ teso. Tossisco per schiarirmi la voce. “Una Ralph Lauren va bene? Non ho nient’altro.”

“O-oh, sei sicuro?” risponde lui, rimettendosi in piedi con un respiro profondo. Ha nuovamente il viso un po’ rosso. Troppo sole? “Sbaglio o è piuttosto…costosa?”

“Non c’è problema” alzo le spalle con nonchalance, lanciandogli la maglietta bianca, che afferra maldestramente con entrambe le mani. “Ne ho un sacco. E non le uso più di tanto. È una fissazione di mia madre.”

Marco sembra ancora esitante mentre tiene stretta la polo fra le mani. Alzo le sopracciglia, in attesa. Alla fine accetta la sconfitta, infilando l’indumento sulla testa.

È più alto di me di qualche centimetro e ha le spalle decisamente più larghe delle mie (come?, mi chiedo io, che esercizio fisico fa un ragazzo per pulire piscine? Ma, al solito, parla quello che passa le sue giornate a non fare un cazzo sul divano…), persino la M sembra andargli un po’ stretta sul petto ed è più corta del dovuto, lasciando visibile una striscia di pelle fra la maglietta e l’inizio dei pantaloncini color cachi. Si strofina rapidamente lo stomaco con il palmo della mano per allisciare la stoffa con aria soddisfatta.

“Quella maglietta sta mille volte meglio a te, e non è neanche della tua taglia” mormoro fra me e me, ma riesce a sentirmi lo stesso, e un sorriso insolito gli illumina i lineamenti scuri. Ad essere sinceri, sono un po’ invidioso. Incrocio le braccia davanti al petto-decisamente-troppo-magro in confronto al suo, come a volermi difendere. “Ma, sai com’è, ti sto salvando da un potenziale assalto di mia madre, quindi sei perdonato.”

Marco inizia a ridere – è una risata musicale e piacevole da ascoltare, di quelle che riescono a trasformare il mio ghigno sarcastico in un sorriso genuino. Il suo volto sembra illuminarsi vedendo il cambiamento nella mia espressione.

“Penso proprio di doverti un favore, Jean.”

 


 

Per la prima volta in tutta la mia vita, quella sera non sento il bisogno impellente di accendere una sigaretta. Invece, arriva finalmente l’ispirazione per disegnare, dopo una vacanza piuttosto lunga.

La matita viaggia sul foglio in linee incerte e sconosciute – ho qualche difficoltà a ricordare tutti i dettagli. Non è come quando disegno Mikasa – l’ho disegnata così tante volte che probabilmente potrei fare uno schizzo anche a occhi chiusi (non credo che la cosa le farebbe tanto piacere, se lo venisse a sapere…probabilmente mi picchierebbe a sangue. E poi mi pesterebbe anche Eren, con altrettanta probabilità…). L’anatomia sembra un po’ strana e quasi sicuramente i muscoli non sono al posto giusto, e poi sono certo di non aver messo abbastanza lentiggini – ma in qualche modo, più o meno gli somiglia. Più o meno.

Passo una mano sul foglio per togliere i residui della gomma da cancellare, ma serve solo a imbrattare le linee di matita sotto il mio tocco. Borbotto infastidito. Tanto era solo un semplicissimo schizzo. Volto pagina e continuo a disegnare.

Non viene fuori niente di che, ma è bello riuscire finalmente a buttare giù qualche linea a matita ogni tanto. Disegno Marco qualche altra volta; disegno mia madre e la sua amica, accovacciate sul bancone mentre incombono sui loro cocktail; disegno mio padre e il modo in cui si accascia sulla sedia come un maiale quando siamo a cena. Finisco per rappresentare un po’ tutta la mia giornata in una serie di tratti disordinati e quasi accennati.

A mezzanotte mi accorgo di aver riempito mezza dozzina di pagine con schizzi di questo genere. Probabilmente già domani mattina non me ne piacerà neanche uno. Ma credo oche ne sia valsa la pena comunque, ha avuto il suo valore terapeutico… Quando vado a dormire, mi sento un po’ meno arrabbiato con il mondo rispetto al solito.

 


 

Non è domenica se non succede qualcosa.

Salto giù dal letto maledicendo il caldo che non mi permette di arrotolarmi nel piumino e sfoggiare lo stile-burrito in casa per tutto il giorno. Opto per l’abbinamento maglietta e pantaloni di tuta dell’Università di Trost; è deciso: sì, oggi mi sento un barbone.

La faccia di mia madre quando mi vede comparire sulle scale ben oltre mezzogiorno è incredibile; mi guarda storto, con il naso all’insù, lamentandosi ad alta voce immaginando cosa potrebbero mai pensare i vicini se mi vedessero vestito così.

Le ricordo seccamente che probabilmente ai vicini non gliene fregherebbe proprio un cazzo.

Mi fa compagnia in cucina mentre preparo una caffettiera, indispensabile come carburante per tutta la mia giornata, appoggiandomi al bancone per premere i tasti della macchina del caffè con aria assonnata.

“Ho incontrato la signora Braus dal parrucchiere, stamattina.”

Pronuncia le parole di punto in bianco, con una sfumatura nella voce che suggerisce che la sua affermazione non vuole essere una semplice conversazione tanto per parlare.

Mi volto verso di lei, provando a infilare le mani in tasca – per poi accorgermi che i pantaloni della tuta in effetti non ce le hanno, le tasche, finendo per sembrare un idiota mentre lascio cadere le mani inermi sui fianchi.

“Ah, sì” provo a fingere noncuranza, “Come sta, tutto bene?”

“Mhm, sì, sta bene” risponde mia madre con un cenno del capo. “Sai, mi ha chiesto di te.”

“Ah sì?” non mi piace per niente la piega che sta prendendo la conversazione. Concentro tutti i miei pensieri sul caffè, sperando che sia pronto al più presto.

“Già. Dice che Sasha non parla più di te tanto spesso.”

Be’, non mi sorprende affatto, mamma. Non è chissà che notizia scioccante.

“…Continui a non parlare con loro, Jean?”

La macchina del caffè emette un “bip” acuto e io mi giro per ritirare la caffettiera colma di liquido nero intriso di caffeina. Lo travaso immediatamente in una tazza e ne bevo un sorso; è così forte che sa praticamente di petrolio. Mando giù il primo sorso, ingoiandolo rumorosamente.

“Sì” le rispondo, con il tono un po’ più sommesso di quanto avrei voluto. Poi aggiungo: “Ma neanche loro hanno intenzione di parlare con me.”

Mia madre sembra studiarmi ancora per un po’ di tempo, quindi rimango lì a fissarla, stringendo saldamente la tazza di caffè con una mano. Ad ogni modo, non credo che riesca a capire più di tanto guardandomi. Quando riprende a parlare torna ad essere la mamma a cui sono più abituato.

“Un vero peccato, però. Sasha mi piaceva. È una ragazza molto carina. Ed è anche di buona famiglia. È il tipo di ragazza che spero porterai a casa un giorno, lo sai.”

Le rivolgo uno sguardo esasperato, soffiando sulla tazza fumante. Perfetto, Jean. Quando non le importa niente di te, ti dà fastidio. Quando effettivamente le importa qualcosa, ti dà fastidio lo stesso. Congratulazioni per essere così difficile.

“Mi dispiace deluderti, mamma. Non accadrà mai.”

 


 

La seconda cosa terribile che rende questa domenica ancora più merdosa, è il fatto che intercetto un’altra chiamata dalla bionda svampita.

Il telefono squilla nel bel mezzo di una sparatoria particolarmente avvincente su NCIS e rispondo con un tono decisamente scorbutico: “sì? Chi è?”

Non riesco a trattenere un’espressione di estremo disgusto quando sento quello stridore orribile riecheggiare dall’altra parte della linea.

“Saaalve, potrei parlare con il signor Kirschtein, per favore?”

Non mi degno neanche di risponderle, filando dritto al piano di sopra nell’ufficio di mio padre, senza nemmeno bussare.

“Da quando non si bussa, Jean-“ inizia lui, minimizzando il documento che teneva aperto sul desktop mentre gira la sedia per guardarmi duramente. Gli porgo il telefono con uno sguardo che spero mostri anche solo la metà di quanto sono incazzato in questo momento.

“Dille di smettere di chiamare al telefono di casa”, taglio corto io.

“È la mia segretaria, Jean. Quante volte te lo devo dire? È per lavoro.”

Prova a gettarmi il fumo negli occhi ogni volta. E ogni volta mi viene voglia di tirargli un pugno in faccia. Possibilmente mentre ho ancora in mano il telefono.

Me lo toglie di mano e copre il ricevitore con il palmo. Ovviamente ha realizzato che non credo alle sue cazzate.

“Dovremmo parlare”, mi dice.

E di cosa?, penso io. Perché l’unica cosa che vorrei sapere è perché ti sto ancora coprendo in questa situazione.

“No, non dovremmo”, rispondo. Giro i tacchi e me ne vado, assicurandomi di sbattere la porta. Mi fermo davanti alle scale per ascoltare. Dopo qualche secondo di silenzio, ecco la voce bassa di mio padre al telefono.

“Charlotte, non ti avevo detto di non chiamare al numero di casa? Non vorrei che rispondesse mia moglie.”

Non credo di voler origliare il resto della conversazione.


 

Provo a concentrarmi sui libri, ripetendo per gli esami nel resto della settimana – principalmente perché la maggior parte dei libri giace ancora sulla scrivania senza che li abbia mai aperti, nonostante manchi solo un mese agli esami, e la cosa mi sta terrorizzando, cazzo! Ma anche per cercare di allontanare il più possibile tutti gli altri pensieri che mi passano per la testa. Ho addirittura trovato qualche aspetto positivo in Bertrand Russell. Temo di essere impazzito.

Persino mercoledì mi comporto da eroe, sacrificando una delle mie solite dormite prolungate per iniziare a svolgere qualche problema di chimica la mattina presto. Apro il blocco di appunti su un lato della scrivania, scorrendo rapidamente fino alla pagina sull’epossidazione. Chimica organica, non hai scampo.

Dopo un bel po’ di imprecazioni, accartocciando una dopo l’altra circa una dozzina di reazioni non riuscite e dopo essermi deciso a mettere i Dead Kennedys a volume altissimo, sono circa a metà di una lunghissima relazione quando sento il sole torrido entrare dalla finestra e bruciarmi la spalla. Dev’essere più o meno mezzogiorno. Mentre riecheggiano le ultime note di California Über Alles, sento mia madre parlare ad alta voce giù in cortile. Abbasso il volume del computer per provare a capire cosa stia dicendo.

“-ascolta quella roba terribile a volume fin troppo alto e…oh, l’ha abbassato?”

Lascio rotolare la sedia da scrivania vicino alla finestra, facendo leva sul pavimento con i piedi. Abbasso la testa sotto la cornice superiore della finestra e mi accorgo che l’interlocutore con cui mia madre si sta lamentando non è altri che Marco. Certo – è mercoledì.

“Lo sai che non è carino parlare alle spalle della gente!” grido, facendo sobbalzare mia madre, che si porta una mano al petto per lo spavento. Vederla camminare su e giù mentre cerca di ricomporsi mi strappa un sorriso subdolo.

“Jean!” squittisce lei in protesta, gesticolando ampiamente verso la finestra della mia camera al primo piano. “Non gridare così! Potevi farmi venire un infarto!” Marco incrocia le braccia e soffoca una risata dietro le dita. “Senti, puoi scendere un attimo?”

“Sto studiando, mamma!” ribatto, “Basta che urli più forte così ti sento anche da qui!”

Mia madre apre la bocca per rispondere, ma Marco la interrompe subito.

“Volevo solo restituirti la maglietta, Jean”, sorride, mentre mia madre sporge le labbra carnose in una smorfia esasperata. “Te la ridò dopo, quando finisci di studiare, se preferisci!”

“Ah, è vero!” esclamo in risposta, “No, puoi darmela adesso, non c’è problema! Potresti lanciarla quassù? Sto cercando di finire una relazione.”

Sembra che Marco stia cercando di valutare la distanza fra il terreno e la mia finestra, calcolando le probabilità che finisca intrappolata sulla grondaia prima di raggiungere la destinazione.

“F-forse è meglio se te la porto su, se per te va bene? Non credo di avere una mira abbastanza buona!”

Alzo le spalle e mi allontano nuovamente dalla finestra sulle ruote della sedia, girando un po’ troppo energicamente – afferro la scrivania con entrambe le mani per evitare di ribaltarmi rovinosamente.

Poso lo sguardo su qualche domanda sull’idrolasi, ma le parole non trovano alcuna connessione con il mio cervello. Provo a leggere la domanda successiva, per poi sentire dei passi incerti nel corridoio.

“È questa la stanza!” alzo la voce, senza staccare gli occhi dal foglio nemmeno al rumore della porta che si apre.

“E-ehi”, mi saluta Marco, scivolando lentamente dentro la stanza. Nelle mani stringe la polo, piegata meticolosamente, proprio come mi aspettavo da quel poco che ho capito di lui. Pare non abbia intenzione di muoversi dalla porta, quindi mi giro fino a trovarmi di fronte a lui, tendendo una mano per ricevere la maglietta.”

 “Passa qui” sorrido; lo sguardo di Marco rimbalza tra la maglietta ben piegata e la mia mano, e ha qualche momento di esitazione prima di lanciarmela. Fortunatamente per la mia dignità non la faccio cadere.

Rotolo insieme alla sedia fino all’armadio, dove inizio a cercare una gruccia vuota (il che si rivela un compito più difficile del previsto, dato che ho davvero troppi vestiti inutilizzati…).

Marco muove qualche passo e, con la coda dell’occhio, noto che qualcosa ha catturato la sua attenzione.

“… Sai disegnare?”

Mi irrigidisco immediatamente, con la maglietta per metà posizionata sull’appendiabiti. Merda. Ho lasciato lo sketchbook sulla scrivania.

“Uh…non proprio”, rispondo imbarazzato. “Faccio…uh…giusto qualche scarabocchio quando mi annoio, niente di più. Non sono molto bravo…”

“Posso…posso dare un’occhiata?” Sento il bisogno disperato di domandargli: perché, esattamente, il nostro inserviente della piscina è in camera mia a ficcare il naso nelle mie cose private? Be’, lo domando solo a me stesso. Ma lo sguardo pieno di curiosità con cui guarda il mio sketchbook, con quel sorriso gigantesco che gli nasconde le lentiggini fra le fossette, in qualche modo riesce ad addolcire i miei pensieri.

“Uh…se proprio vuoi?”

Abbassa la testa umilmente e inizia a sfogliare lentamente il blocco di fogli, sfiorando appena le sottili pagine bianche.

Intanto io rimetto a posto la gruccia – con tanto di maglietta – nell’armadio, per poi posare nuovamente lo sguardo su di lui, guardandolo da una certa distanza. Il suo sorriso ha lasciato il posto a un’espressione profondamente concentrata che gli fa increspare la pelle in mezzo alle sopracciglia. Sfoglia una serie di disegni di Mikasa, gli scarabocchi incerti che raffigurano i miei genitori, e sussulta quando si ritrova di fronte a quello che è senza dubbio un suo disegno (anche se, a proposito, ho realizzato che l’anatomia è una completa schifezza). Stringe la pagina successiva sospesa fra pollice e indice mentre continua a guardare le linee disordinate per un bel po’ di tempo. Posso praticamente sentire il mio sudore colare in questo silenzio imbarazzante.

“Sono…veramente bellissimi, Jean”, mi dice finalmente, alzando lo sguardo per incontrare il mio. Nient’altro. Non accenna minimamente al più-che-leggermente-inquietante problema di fondo. Mi passo una mano tra i capelli fino a posarla sulla nuca, dove sento il calore che mi attanaglia il collo per l’imbarazzo.

“…Ti ringrazio, davvero.”

“È questo che studi all’università? Arte, intendo.”

“Oh… uh, no” rispondo rapidamente – forse anche troppo rapidamente, visto che le sopracciglia di Marco si sollevano per la sorpresa. Indico la pila di libri di chimica dall’altra parte della scrivania. “Non mi piaceva tanto.”

“Huh. È fantastico.” Ho come l’impressione che non stia parlando direttamente con me in questo momento. Gira il foglio con le dita, per notare di essere giunto alla fine delle pagine disegnate. La sua postura si raddrizza e mi sembra come se non sapesse esattamente cosa fare.

Rigiro la lingua all’interno della guancia, tamburellando le dita sul bordo della sedia da scrivania su cui sono seduto. Ho decisamente bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non impazzire con questo silenzio, non tanto per impazienza. Le labbra di Marco si aprono con l’intenzione di dire qualcosa, ma le richiude immediatamente; noto che quand’è imbarazzato tende a mordicchiare il labbro inferiore. Prova di nuovo a dare forma a quello che ha in mente.

“Pensi che… uh, come posso dire…” Solleva una mano come a voler grattare i capelli corti sulla nuca. “Sono veramente stupendi, Jean. Pensi che potrei – ecco – potrei prendere quello…dove ci sono io?”

Oh. Oh, okay. Questa non me l’aspettavo. Penso si noti chiaramente dalla mia faccia.

“Oh! A meno che tu non voglia!” Marco si  rimangia in fretta la parola, allontanandosi di un passo dalla scrivania, sollevando le mani nella mia direzione in un gesto quasi difensivo.

Non mi ero neanche accorto di essermi alzato dalla sedia, fino a quando non mi ritrovo davanti alla scrivania a chiudere lo sketchbook con una ventata di forza. Marco sembra spaventato a morte all’idea di avermi detto qualcosa di male.

“Quello non era poi così bello” borbotto io, sottovoce. Sono agitato. Molto, molto agitato, cazzo. “Probabilmente è meglio se – ecco – te ne disegno uno più bello. Se per te va bene.”
Con la coda dell’occhio osservo ogni minimo cambiamento nella sua espressione: varia da impaurita a sorpresa fino a distendersi nel sorriso più fottutamente ridicolo che abbia mai visto sulla sua faccia. La mia faccia è diventata bollente, nel frattempo.

“… Cosa fai adesso, aspetti che la piscina si pulisca da sola?” provo a mantenere l’espressione più seria possibile, ma non riesco a non lasciarmi sfuggire un sorriso imbarazzato.

 


 

Non riesco proprio a tornare a scrivere una relazione di chimica dopo quell’episodio, nonostante tutti i miei sforzi (che a dire il vero non sono poi tanti). Provo a studiare un po’ di filosofia ma arrivo a un vicolo cieco nella mia mente. Stessa cosa con matematica, idem per storia europea. Finisco per aprire il libro di francese, giusto per illudermi di essere produttivo. Posso studiare francese.

I miei occhi provano a filtrare qualche capitolo sui cambiamenti della letteratura francese del ventunesimo secolo dal punto di vista di qualche critico irrilevante ed estremamente noioso, e io mi sorprendo a sorridere. Come un fottutissimo idiota. Come Marco. Mi copro gli occhi con una mano e premo le dita sulle tempie, ma proprio non riesco a smettere di sorridere. È una vera fortuna che non ci sia nessun altro in questo momento.
Sai una cosa, Jean Kirschtein? Penso che tu abbia appena ottenuto l’impossibile. Pare che tu abbia appena stretto amicizia.

 


 

Forse qualcuno lassù da qualche parte mi sta guardando, perché in quella stessa settimana, dopo il seminario di filosofia di venerdì, è successo qualcosa che ha del miracoloso.

Esco dalla classe barcollando vistosamente, più che contento di poter finalmente scappare lontano dall’eccessiva razionalizzazione del professor Dok su qualche strana teoria sulla conoscenza che quasi sicuramente avrei già dovuto studiare a questo punto del trimestre.

Appoggio la borsa sul solito tavolo del bar, i libri cadono sulla superficie di linoleum con un tonfo che ricorda più una tonnellata di mattoni. Stamattina ero in ritardo, quindi il mio zaino vanta solo di una barretta sciolta di Mars e un misero pacchetto di patatine. Non appena apro il pacchetto con un rumore secco, vedo Connie e Sasha entrare nel bar, seguiti dal gruppo più numeroso formato da Eren, Mikasa, Armin, Historia e la sua diciamo-abbastanza-spaventosa ragazza Ymir, del secondo anno. Parlano tra loro, vicinissimi; Connie gesticola selvaggiamente mentre Sasha fa una smorfia da cui traspare frustrazione. Il brusio generale del bar mi impedisce di sentire una parola, quindi decido di accingermi a leccare via dalle dita i residui di patatine.

Alzo lo sguardo solo quando un’ombra bassa dai capelli rasati si presenta al mio tavolo e uno zaino dall’aspetto malconcio viene gettato affianco al mio.

È Connie. E non è il solito Connie con l’aria da sì-sto-cercando-di-evitarti. Il mio sguardo si indurisce. Si è seduto di fronte a me.

“Tutto bene?” inizia a parlare, e riesco ad avvertire giusto un pizzico di esitazione nelle sue parole. Ma sta provando con tutto se stesso a non farlo notare. “È da un po’ che non ci si sente.”

“…Già”, rispondo io con aria sospettosa, affondando nuovamente la mano nel pacchetto di patatine. Non ho idea di cosa si aspetti che gli risponda adesso che si è seduto qui di fronte a me dopo avermi spudoratamente ignorato per dodici mesi. Ovviamente avverte la goffaggine di tutta questa situazione – come potrebbe non avvertirla, anche se stiamo parlando di Connie.
“Hai giocato a Titanfall, ultimamente?” È sempre stato un po’ fuori di testa, ma questo sì che è strano.

Mangio una patatina, le sopracciglia ancora aggrottate. Forse se mi acciglio abbastanza riuscirò a decifrare cosa vuole realmente. O perlomeno mi lascerà stare.

“Cos’è questa storia, Connie?”

Mi sembra abbastanza spiazzato, gli occhi castani-dorati spalancati. Incrocia le braccia sul tavolo e si sporge leggermente in avanti.

“Che c’è? Volevo solo sapere se ce l’avessi. Immaginavo di sì.”

E non si sbaglia. Ma non ci vuole certo un genio per capirlo (tanto per la cronaca, lui non è sicuramente un genio). Gioco a quella saga da prima dell’incidente con Eren.

“Penso che Sasha sia riuscita a contagiarmi, parlandomene in continuazione”, continua lui, fermandosi a stento per riprendere aria fra un periodo e l’altro. “Sono al livello quarantanove, sai? Ancora uno e posso fare quella roba della rigenerazione. Oh, ho anche sbloccato due classi l’altro giorno, Ogre e Stryder. È proprio fico.”

“Non mi sorprende che ci sia riuscita”, mormoro. “Sei veramente venuto qui a parlarmi di Titanfall, Connie? O è solo un modo per chiedermi di passarti gli appunti di filosofia?”

Connie sospira, grattandosi la testa mentre pensa a cosa dire. Per una volta in tutta la sua vita, mi sembra stranamente riluttante.

“Non voglio i tuoi appunti di filosofia” risponde in un sospiro. “Voglio solo parlare di videogiochi. Come facevamo un tempo.”

“Sai anche tu che le cose sono cambiate da allora.”

“… E chi lo dice?”

Alla fine trovo abbastanza determinazione per guardarlo negli occhi. Ha un’aria combattuta, mentre giocherella con i polsini logori della giacca. Sposto lo sguardo oltre le sue spalle, verso il tavolo dove sono seduti gli altri: Eren e Ymir stanno discutendo in maniera piuttosto concitata, con le braccia di lui che si agitano ovunque mentre lei sogghigna, e Historia si aggrappa al braccio della sua ragazza nel tentativo di rimetterla a sedere. Non riesco a vedere il viso di Mikasa, ma sono certo che li stia fulminando con lo sguardo. Sasha è seduta dall’altro lato di Mikasa, e noto che i suoi occhi si abbassano immediatamente quando si accorge che la sto guardando.

“Sasha ci sta fissando”, osservo, facendo un cenno nella sua direzione.

“Lo so”, risponde Connie, guardando brevemente alle sue spalle. In quel momento il suo telefono vibra con una suoneria irritante. “Le manchi, amico. Manchi a entrambi.”

Questo mi sorprende oltremisura. Sforzo incredibilmente il cervello per tentare di capire quale possa essere la causa di questa dichiarazione improvvisa, ma non mi viene in mente nulla. Niente di niente. Rimango qui a fissare quello che una volta era il mio migliore amico, mentre lui controlla i messaggi con il cellulare sotto al tavolo, in silenzio. Si lascia scappare una risata ansimante.

“Mi ha appena chiesto di che cosa stiamo parlando”, sorride, mostrandomi lo schermo del suo vecchio mattone di un Nokia. Infatti, è proprio quello che ha scritto. Solo con un po’ meno alfabetizzazione in generale, e con qualche dozzina di punti interrogativi in più. Molto da Sasha. “Cosa dovrei risponderle?”

Per come immagino la situazione, potrebbe finire in due modi. Il primo: potrei dirgli di smettere di sprecare il suo tempo. Chiedergli se mi ha veramente perdonato per aver rotto il naso, una clavicola e due costole a Eren. Dirgli che Eren sicuramente non sarebbe felice di vederci chiacchierare così. Informarlo del fatto che sono uno stronzo piuttosto scontroso per la maggior parte del tempo, e che me la sono cavata benissimo senza di loro negli ultimi mesi.

Ma so che non è del tutto vero. Ho fumato fin troppe sigarette sul mio tetto per poter dire di non essere stato toccato da questa situazione.

Quindi, vada per la seconda possibilità. Stare sempre da solo fa schifo, cazzo. Voglio provare a sistemare le cose.

“Dille che stiamo parlando degli chassis che abbiamo sbloccato”, alzo le spalle. “E dille che può unirsi a noi.”

Connie sorride – e mi rendo conto di non aver visto quel sorriso per un sacco di tempo. Veramente tantissimo tempo, cazzo.

“Certamente!”

 


 

Io e il sonno non siamo esattamente in buoni rapporti, stasera. Sono sul mio letto e fisso il soffitto per quelle che sembrano ore, steso a quattro di mazze. Stringo una sigaretta fra i denti, ma non l’accendo. La mastico per un po’ di tempo, finché non inizia ad avere un sapore orrendo.

Io e Connie abbiamo parlato  di Titanfall per tutta la pausa pranzo – finché non è arrivata Sasha per dirgli che dovevano andare a lezione. Non era allegra come la Sasha che conoscevo un tempo, e sembrava sulla difensiva mentre tirava la giacca di Connie, che mi stava ancora spiegando animatamente come avesse risolto con una mano sola una mappa su cui io mi ero bloccato. In un modo o nell’altro comunque è riuscita a trascinarlo via, lasciandomi al divertimento della mia lezione di francese.

Ma le parole con cui si è allontanato continuano a ronzarmi in testa: “Ti devo portare questa specie di guida che ho preso da GameStop l’altro giorno, okay? Te la mostro lunedì!”

Vorrei essere felice. Completamente felice, al cento per cento. E ci sono abbastanza vicino.

Ma sento ancora distintamente una vocina nella mia testa che mi dice: lo sai, non può tornare semplicemente com’era prima. Hai fatto veramente un casino, quella volta. Ci vorrà molto tempo.

Mi giro su un fianco, portando le ginocchia al petto in posizione fetale. La mia mano sfiora la spirale dello sketchbook che sbuca dallo spazio che divide il letto e il muro. Passo le dita sul metallo irregolare, immerso nei miei pensieri.

Voglio il tempo passato a fumare sul cofano del pickup di Connie nel punto d’osservazione dove andavamo sempre. Voglio i messaggi assurdi alle tre del mattino dove mi chiede perché il minimarket notturno ha finito il pane. Voglio i cori di “fallo per il Vine!” mentre Connie tenta di buttarsi fuori dalla finestra della sua camera da letto e poi sul trampolino. Voglio le maratone di videogiochi, i sassolini lanciati sulla mia finestra (anche quella volta in cui Sasha ha rotto il vetro), i viaggi in auto senza una meta precisa.

Voglio veramente rimettere le cose a posto. Cazzo.

 

Notes:

 

Note dell’autrice:

Questo dovrebbe essere conosciuto come il capitolo in cui non so niente di qualsiasi cosa che riguardi l’America. Vi dirò la verità, questo sistema universitario mi confonde terribilmente. Spero che la mia nazionalità inglese non sia troppo ovvia.

A parte questo, spero vi sia piaciuto il capitolo. C’era un po’ più di Marco, a petto nudo come promesso; lo rivedrete.
L’amicizia tra Jean e Marco continuerà a crescere nei prossimi capitoli e inizieranno a conoscersi meglio. Sarà divertente.

Il titolo del capitolo è il nome di un album dei Dead Kennedys, per il semplice fatto che è lo stesso che stava ascoltando Jean in questo capitolo. Mi dispiace (in realtà no) se gli ho dato praticamente i miei stessi gusti musicali hahahaha

Vorrei mostrarvi un bellissimo disegno che ha fatto Sizzleart su tumblr per questa fanfiction:
http://sizzlesart.tumblr.com/post/82868404467/rich-kid-jean-and-pool-boy-marco-from-the-fic

E giacché anche il mio tumblr: theprophetlemonade.tumblr.com

   
 
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