Chapter 3: Give Me Convenience or Give
Me Death
Quando
andavo alle medie, quasi tutti i miei
amici mi invidiavano per la mia casa. Ricordo che Connie tornava quasi
ogni
giorno qui dopo la scuola semplicemente per sedersi sul nostro divano
(che, a
detta sua, era praticamente grande quanto tutto il suo soggiorno), e
non tanto
per passare effettivamente del tempo con me. Quando veniva anche Sasha
era
sempre difficile trascinarla via dal freezer (Connie spesso scherzava
dicendo
che avremmo dovuto chiuderla direttamente lì dentro
perché ehi, probabilmente
era abbastanza grande per accoglierla e regalarle anche
un’esistenza piuttosto
agiata!) – poi Sasha provava a picchiare Connie con la prima
cosa che riuscisse
a trovare in giro: di solito con un cuscino, o la sua felpa, ma quella
volta in
cui usò il telecomando dell’Xbox la
ricorderò per sempre.
Non riesco neanche a ricordare l’ultima volta che ci siano
stati amici a casa –
a volte mi chiedo perché non abbia fatto il possibile per
renderla un’occasione
memorabile, in qualche modo. D’altro canto, però,
probabilmente non c’era
proprio nulla da ricordare; sarà stato un incontro per
qualche motivo banale –
forse Connie aveva dimenticato il telefono fra i cuscini del divano come sempre, o magari Sasha voleva che
le prestassi dei libri perché il suo cane aveva deciso che i
suoi Iams non fossero un mezzo di
sostentamento sufficiente. Ed è proprio la
banalità a fare così male.
Non
potrei mai essere invidioso di questa
casa. Più cresco e più mi sembra grande. O forse
mi dà solo fastidio il fatto
di dovermi alzare dal divano per prendere quel cazzo di telecomando da
sopra la
TV. Già. Dieci passi sono decisamente troppi.
Mi
sono quasi pentito di non aver cercato
alloggio nei dormitori dell’università quando ho
iniziato il college, l’anno
scorso – ho detto “quasi”,
perché nonostante sia pigro, per quanto sia restio a
muovere il culo per prendere qualsiasi cosa dall’altra parte
della stanza,
probabilmente sarei ancor meno contento di essere costretto a
condividere la
stanza con qualcun altro.
Inoltre,
non è che avesse molto senso per me
trasferirsi in un’altra città per il college
– da qui al campus sono solo
quindici minuti in auto, forse venti al massimo. E poi, se mi fossi
trasferito,
chi sarebbe rimasto a casa a intercettare tutte le chiamate della
segretaria di
papà al telefono di casa? Nessuno, esattamente.
Rimango
a poltrire sul divano, con un braccio dietro la testa mentre fisso la
TV.
Inizia la sigla di quel cazzo di Spongebob Squarepants. Ecco, ci sono
alcune cose per cui sono decisamente
disposto ad attraversare la stanza. I programmi televisivi del sabato
toccano
veramente il fondo.
Addio, finalmente, borbotto
arrabbiato nella mia testa mentre premo decisamente il bottone di
spegnimento
sul telecomando. La TV si spegne con un bip.
Con
l’assenza del coro di “sì, signor
capitano” a distruggermi i timpani, mi rendo conto che mamma
ha compagnia in
cucina. Tiro fuori il telefono dalla tasca dei jeans a fatica, e
controllo
l’orario: sono le due e mezzo del pomeriggio. Contraggo la
bocca in una smorfia.
Probabilmente Marco è già arrivato. Per il suo
bene, spero che qualsiasi cosa a
cui mia madre lo stia sottoponendo non stia traumatizzando quel povero
inserviente
lentigginoso a vita.
Con
mia sorpresa (e un leggero senso di sollievo),
non è Marco la persona che mia madre è riuscita a
trascinare in cucina – è
un’altra donna, probabilmente una delle sue amiche del corso
di aerobica, o del
parrucchiere, o di qualsiasi cazzo di
attività svolga mia madre nel suo tempo libero.
Sono entrambe appollaiate
sugli sgabelli da bar rivolti verso la finestra, e tutt’e due
stringono i
bicchieri da cocktail fra le mani con le unghie smaltate, parlottando a
bassa
voce.
Ho
tre ipotesi sull’oggetto della
conversazione.
“Mamma”
dico io, allertandola della mia
presenza sulla porta della cucina e facendole sobbalzare entrambe.
“Sta
iniziando a diventare una vera e propria molestia sessuale, ti sto
avvisando.”
“Jean”
si lamenta, inclinando il bicchiere
nella mia direzione, “Stiamo solo ammirando.”
La sua amica inizia a ridacchiare come una stupida, e mia madre le fa
presto
compagnia; per tutta risposta, io emetto un gemito contrariato.
Mentre
attraverso la cucina per ispezionare
il frigo, lancio uno sguardo fuori dalla finestra e mi fermo
immediatamente, a
bocca aperta. Certo che Marco non fa nulla per migliorare la situazione.
“Per
favore, dimmi che non hai niente a che
fare con quello” indico
spudoratamente l’abbronzatissimo,
lentigginoso
e molto, molto, uh… tonico
ragazzo
della piscina, che al momento non indossa alcuna maglietta.
“No”,
piagnucola mia madre – anche se dubito
fortemente che le sarebbe dispiaciuto essere il motivo della sua
semi-nudità, conoscendola.
“Ha fatto tutto da solo. È davvero quello che
pensi di me, Jean? Oh Dio!”
Penso
solo che sei piuttosto disperata, cazzo,
rimugino fra me e me – e comunque sono
convinto che mi stia solo assecondando. Continuo a camminare in linea
retta
verso il frigo, con lo sguardo incollato al pavimento.
La
luce del frigorifero è come un faro di
normalità in questa gabbia di matti; prendo una lattina di
Coca-Cola, sfiorando
con la mano la brocca di limonata nello sportello. Nel momento esatto
in cui
stringo le dita sull’alluminio fresco e rosso della lattina,
mia madre grida
qualcosa alle mie spalle:
“Ah,
offri qualcosa da bere a Marco, okay?”
Sul
serio. Cos’ho fatto per meritarmi tutto
questo.
Mormoro
una serie di imprecazioni sottovoce e
afferro una lattina di Dr. Pepper che pare non manchi mai nel nostro
frigo,
nonostante non piaccia a nessuno in famiglia.
Arranco
a fatica fuori in giardino,
trascinando deliberatamente i piedi a ogni passo, solo per far notare a
mia
madre quanto non sia d’accordo a fare…qualsiasi
cosa stia facendo. Marco alza
lo sguardo dalla porzione di acqua che sta setacciando con il retino e
un ampio
sorriso gli illumina il volto.
“Ehi”,
mi saluta con un tono di voce gioioso
mentre abbandona il retino a bordo piscina, assicurandosi le cuffie
attorno al
collo e avanzando a grandi passi verso di me per salutarmi. Ritiro
qualsiasi
cosa abbia detto in precedenza sulla tonicità del suo
fisico. Non è
semplicemente tonico. Si potrebbe
grattugiare il formaggio su quegli addominali.
Sento
la mia stessa ombra rimpicciolirsi se inizio
a pensare a quanto sono magro e flaccido. Non è per niente
giusto, cazzo. Dio
mio.
“Ti
ho portato qualcosa da bere” farfuglio,
porgendogli la lattina di Dr. Pepper estendendo un braccio rigido.
Provo a
recuperare quel poco di decenza che mi rimane. “…o
puoi prendere la mia
Coca-Cola, se preferisci.”
Le
lentiggini sembrano scomparirgli nelle
guance rosse. Per un breve momento mi domando se si degni di usare la
crema
solare o meno. Allunga una mano davanti a sé con un gesto
agitato.
“N-no!
Mi va benissimo la Dr Pepper! Grazie!”
Prende
rapidamente la lattina dalla mia mano
e fa scattare la linguetta. Io lo imito con noncuranza, ingoiando quasi
metà
della mia Coca in un unico sorso.
“…Sai
che non fai altro che peggiorare la
situazione così, vero?” aggiungo con un
po’ di esitazione, allontanando la
lattina dalle labbra. Indico la cucina con un cenno del capo, gli occhi
scuri
di Marco seguono attentamente il mio movimento. Sono quasi sicuro di
vederlo
indietreggiare leggermente. “Così…come?”
Gesticolo con la mano libera per indicare il suo petto nudo e il
rossore non fa
che aumentare sul suo viso, mentre si strofina la nuca con aria
imbarazzata.
“Mi dispiace” dice lui inclinando la testa. Non
capisco esattamente perché si
stia scusando con me, che sono fin troppo abituato alle
assurdità di mia madre.
“È che prima mi sono schizzato la maglia con la
soluzione di cloro. Quella roba
ha scolorito una macchia gigantesca proprio qui davanti, e puzzava tantissimo-”
Non
riesco a trattenere un grugnito
divertito, nascondendo un ghigno dietro la mano. Marco apre la bocca
per
aggiungere qualcos’altro ma poi si ferma, mordendosi il
labbro.
“Questa
sì che è sfortuna, eh…”
osservo,
spostando il peso sui talloni. Lancio uno sguardo rapido alle mie
spalle verso
la finestra della cucina – come pensavo, sono ancora
lì, con gli occhi
incollati alla mia conversazione con la loro preda –
cioè, con il loro…no,
credo che preda sia proprio il termine giusto. Mia madre alza una mano
per
mandarci un saluto con aria civettuola. Marco le offre un sorriso
educato con
non poca riluttanza.
“Dovrei
sapere cosa si stanno dicendo
laggiù?” mi chiede, incrociando le braccia al
petto come a volersi proteggere.
Scuoto
la testa, ormai incapace di nascondere
il sorriso sornione che mi occupa il volto.
“Meglio
di no” rido sotto i baffi,
sogghignando nel vedere le sue spalle abbassarsi per lo sconforto.
“Vuoi che ti
presti una maglietta? Sai, per mantenere un minimo di
decenza.”
Annuisce,
mentre io mi scolo gli ultimi sorsi
di Coca-Cola rimasti. Sento nel naso la fastidiosissima effervescenza
delle
bollicine di diossido di carbonio, quindi espiro con forza, il che
probabilmente sembra quasi un verso di scherno. Faccio scricchiolare la
lattina
in mano.
“Anche
se non posso garantire di avere
qualcosa che ti possa andar bene” aggiungo, sarcastico.
“Penso proprio che
tutti quei muscoli non siano umanamente possibili, Marco.”
Non posso che
rimanere soddisfatto dalla reazione agitata che gli si legge in volto.
Ridacchio fra me e me e torno verso casa, girandomi solo un attimo per
dirgli
“Vedrò cosa riesco a trovare.”
“Sto
andando a prendere una maglietta per Marco” affermo,
attraversando rapidamente
la cucina. Nonostante le proteste di mia madre, continuo: “Qualcuno dovrà pur salvarlo
dalle tue avances, okay?”
Salgo
due scalini alla volta, arrivando alla porta della mia stanza con il
fiato più
corto di quanto mi piaccia ammettere.
Guardati
un po’ mentre ti comporti
effettivamente da persona amichevole,
rimarca la mia mente. Dovresti scattare
una foto per fare tesoro di questo momento, Jean.
Sono sicuro che una delle polo Ralph
Lauren (con cui mia madre riempie regolarmente il mio
armadio) sia la
scelta migliore per Marco – mamma ha iniziato solo
recentemente ad azzeccare la
mia taglia (nonostante viviamo insieme da diciannove
anni, tengo a specificare), di solito sceglieva sempre misure
più grandi del
dovuto. Controllo la targhetta di qualche maglia, finché non
trovo quello che
cerco nel colletto di una polo piuttosto semplice, bianca: una M. La
strattono
via dalla gruccia, che cade sul pavimento. La raccoglierò
dopo.
Per
poco non inciampo nei miei stessi piedi mentre galoppo al piano di
sotto,
slittando in cucina sui miei calzini, rischiando quasi di schiantarmi
sul
bancone, che riesco a evitare per un pelo. Mamma e la sua amica non si
sono
mosse, ma sono animate in una conversazione piuttosto seria su
un’amica in
comune e sulle sue vicende amorose con il suo capo.
Quando
riemergo nel cortile, Marco mi dà le spalle, accovacciato
sul sistema di scolo
della piscina mentre smanetta con l’alimentatore. Una serie
di lentiggini segue
la curva della schiena, scomparendo sotto l’elastico dei
pantaloncini – mi
schiaffeggio mentalmente per essere rimasto a fissarlo.
Cosa stai facendo, Jean.
“E-ehi”
lo chiamo con un tono un po’ teso. Tossisco per schiarirmi la
voce. “Una Ralph Lauren
va bene? Non ho
nient’altro.”
“O-oh,
sei sicuro?” risponde lui, rimettendosi in piedi con un
respiro profondo. Ha
nuovamente il viso un po’ rosso. Troppo sole?
“Sbaglio o è
piuttosto…costosa?”
“Non
c’è problema” alzo le spalle con
nonchalance, lanciandogli la maglietta bianca,
che afferra maldestramente con entrambe le mani. “Ne ho un
sacco. E non le uso
più di tanto. È una fissazione di mia
madre.”
Marco
sembra ancora esitante mentre tiene stretta la polo fra le mani. Alzo
le
sopracciglia, in attesa. Alla fine accetta la sconfitta, infilando
l’indumento
sulla testa.
È
più alto di me di qualche centimetro e ha le spalle
decisamente più larghe
delle mie (come?, mi chiedo io, che esercizio fisico fa un ragazzo per
pulire
piscine? Ma, al solito, parla quello che passa le sue giornate a non
fare un
cazzo sul divano…), persino la M sembra andargli un
po’ stretta sul petto ed è
più corta del dovuto, lasciando visibile una striscia di
pelle fra la maglietta
e l’inizio dei pantaloncini color cachi. Si strofina
rapidamente lo stomaco con
il palmo della mano per allisciare la stoffa con aria soddisfatta.
“Quella
maglietta sta mille volte meglio a te, e non è neanche della
tua taglia”
mormoro fra me e me, ma riesce a sentirmi lo stesso, e un sorriso
insolito gli
illumina i lineamenti scuri. Ad essere sinceri, sono un po’
invidioso. Incrocio
le braccia davanti al petto-decisamente-troppo-magro in confronto al
suo, come
a volermi difendere. “Ma, sai com’è, ti
sto salvando da un potenziale assalto
di mia madre, quindi sei perdonato.”
Marco
inizia a ridere – è una risata musicale e
piacevole da ascoltare, di quelle che
riescono a trasformare il mio ghigno sarcastico in un sorriso genuino.
Il suo
volto sembra illuminarsi vedendo il cambiamento nella mia espressione.
“Penso
proprio di doverti un favore, Jean.”
Per
la prima volta in tutta la mia vita, quella sera
non sento il bisogno impellente di accendere una sigaretta. Invece,
arriva finalmente
l’ispirazione per disegnare,
dopo una vacanza piuttosto lunga.
La
matita viaggia sul foglio in linee incerte e
sconosciute – ho qualche difficoltà a ricordare
tutti i dettagli. Non è come
quando disegno Mikasa – l’ho disegnata
così tante volte che probabilmente
potrei fare uno schizzo anche a occhi chiusi (non credo che la cosa le
farebbe
tanto piacere, se lo venisse a sapere…probabilmente mi
picchierebbe a sangue. E
poi mi pesterebbe anche Eren, con altrettanta
probabilità…). L’anatomia sembra
un po’ strana e quasi sicuramente i muscoli non sono al posto
giusto, e poi
sono certo di non aver messo abbastanza lentiggini – ma in
qualche modo, più o
meno gli somiglia. Più o meno.
Passo
una mano sul foglio per togliere i residui della
gomma da cancellare, ma serve solo a imbrattare le linee di matita
sotto il mio
tocco. Borbotto infastidito. Tanto era solo un semplicissimo schizzo.
Volto
pagina e continuo a disegnare.
Non
viene fuori niente di che, ma è bello riuscire
finalmente a buttare giù qualche linea a matita ogni tanto.
Disegno Marco
qualche altra volta; disegno mia madre e la sua amica, accovacciate sul
bancone
mentre incombono sui loro cocktail; disegno mio padre e il modo in cui
si
accascia sulla sedia come un maiale quando siamo a cena. Finisco per
rappresentare un po’ tutta la mia giornata in una serie di
tratti disordinati e
quasi accennati.
A
mezzanotte mi accorgo di aver riempito mezza dozzina
di pagine con schizzi di questo genere. Probabilmente già
domani mattina non me
ne piacerà neanche uno. Ma credo oche ne sia valsa la pena
comunque, ha avuto
il suo valore terapeutico… Quando vado a dormire, mi sento
un po’ meno
arrabbiato con il mondo rispetto al solito.
Non
è domenica se non succede qualcosa.
Salto
giù dal letto maledicendo il caldo che non mi
permette di arrotolarmi nel piumino e sfoggiare lo stile-burrito in
casa per
tutto il giorno. Opto per l’abbinamento maglietta e pantaloni
di tuta
dell’Università di Trost; è deciso:
sì, oggi mi sento un barbone.
La
faccia di mia madre quando mi vede comparire sulle scale
ben oltre mezzogiorno è incredibile; mi guarda storto, con
il naso all’insù,
lamentandosi ad alta voce immaginando cosa potrebbero mai pensare i
vicini se
mi vedessero vestito così.
Le
ricordo seccamente che probabilmente ai vicini non
gliene fregherebbe proprio un cazzo.
Mi
fa compagnia in cucina mentre preparo una
caffettiera, indispensabile come carburante per tutta la mia giornata,
appoggiandomi al bancone per premere i tasti della macchina del
caffè con aria
assonnata.
“Ho
incontrato la signora Braus dal parrucchiere,
stamattina.”
Pronuncia
le parole di punto in bianco, con una
sfumatura nella voce che suggerisce che la sua affermazione non vuole
essere
una semplice conversazione tanto per parlare.
Mi
volto verso di lei, provando a infilare le mani in
tasca – per poi accorgermi che i pantaloni della tuta in
effetti non ce le
hanno, le tasche, finendo per sembrare un idiota mentre lascio cadere
le mani
inermi sui fianchi.
“Ah,
sì” provo a fingere noncuranza, “Come
sta, tutto
bene?”
“Mhm,
sì, sta bene” risponde mia madre con un cenno
del capo. “Sai, mi ha chiesto di te.”
“Ah
sì?” non mi piace per niente la piega che sta
prendendo la conversazione. Concentro tutti i miei pensieri sul
caffè, sperando
che sia pronto al più presto.
“Già.
Dice che Sasha non parla più di te tanto
spesso.”
Be’,
non mi sorprende affatto, mamma. Non è chissà che
notizia scioccante.
“…Continui
a non parlare con loro, Jean?”
La
macchina del caffè emette un “bip” acuto
e io mi
giro per ritirare la caffettiera colma di liquido nero intriso di
caffeina. Lo
travaso immediatamente in una tazza e ne bevo un sorso; è
così forte che sa
praticamente di petrolio. Mando giù il primo sorso,
ingoiandolo rumorosamente.
“Sì”
le rispondo, con il tono un po’ più sommesso di
quanto avrei voluto. Poi aggiungo: “Ma neanche loro hanno
intenzione di parlare
con me.”
Mia
madre sembra studiarmi ancora per un po’ di tempo,
quindi rimango lì a fissarla, stringendo saldamente la tazza
di caffè con una
mano. Ad ogni modo, non credo che riesca a capire più di
tanto guardandomi.
Quando riprende a parlare torna ad essere la mamma a cui sono
più abituato.
“Un
vero peccato, però. Sasha mi piaceva. È una
ragazza molto carina. Ed è anche di buona famiglia.
È il tipo di ragazza che
spero porterai a casa un giorno, lo sai.”
Le
rivolgo uno sguardo esasperato, soffiando sulla
tazza fumante. Perfetto, Jean. Quando non
le importa niente di te, ti dà fastidio. Quando
effettivamente le importa
qualcosa, ti dà fastidio lo stesso. Congratulazioni per
essere così difficile.
“Mi
dispiace deluderti, mamma. Non accadrà mai.”
La
seconda cosa terribile che rende questa domenica
ancora più merdosa, è il fatto che intercetto
un’altra chiamata dalla bionda
svampita.
Il
telefono squilla nel bel mezzo di una sparatoria
particolarmente avvincente su NCIS e rispondo con un tono decisamente
scorbutico: “sì? Chi è?”
Non
riesco a trattenere un’espressione di estremo
disgusto quando sento quello stridore orribile riecheggiare
dall’altra parte
della linea.
“Saaalve,
potrei parlare con il signor Kirschtein, per
favore?”
Non
mi degno neanche di risponderle, filando dritto al
piano di sopra nell’ufficio di mio padre, senza nemmeno
bussare.
“Da
quando non si bussa, Jean-“ inizia lui,
minimizzando il documento che teneva aperto sul desktop mentre gira la
sedia
per guardarmi duramente. Gli porgo il telefono con uno sguardo che
spero mostri
anche solo la metà di quanto sono incazzato in questo
momento.
“Dille
di smettere di chiamare al telefono di casa”, taglio
corto io.
“È
la mia segretaria, Jean. Quante volte te lo devo
dire? È per lavoro.”
Prova
a gettarmi il fumo negli occhi ogni volta. E
ogni volta mi viene voglia di tirargli un pugno in faccia.
Possibilmente mentre
ho ancora in mano il telefono.
Me
lo toglie di mano e copre il ricevitore con il
palmo. Ovviamente ha realizzato che non credo alle sue cazzate.
“Dovremmo
parlare”, mi dice.
E
di cosa?,
penso io. Perché
l’unica cosa che vorrei sapere è perché
ti sto ancora coprendo in questa situazione.
“No,
non dovremmo”, rispondo. Giro i tacchi e me ne
vado, assicurandomi di sbattere la porta. Mi fermo davanti alle scale
per
ascoltare. Dopo qualche secondo di silenzio, ecco la voce bassa di mio
padre al
telefono.
“Charlotte,
non ti avevo detto di non chiamare al
numero di casa? Non vorrei che rispondesse mia moglie.”
Non
credo di voler origliare il resto della
conversazione.
Provo
a concentrarmi sui libri, ripetendo per gli
esami nel resto della settimana – principalmente
perché la maggior parte dei
libri giace ancora sulla scrivania senza che li abbia mai aperti,
nonostante
manchi solo un mese agli esami, e la cosa mi sta terrorizzando,
cazzo! Ma anche per cercare di allontanare il più
possibile tutti gli altri pensieri che mi passano per la testa. Ho
addirittura
trovato qualche aspetto positivo in Bertrand Russell. Temo di essere
impazzito.
Persino
mercoledì mi comporto da eroe, sacrificando
una delle mie solite dormite prolungate per iniziare a svolgere qualche
problema di chimica la mattina presto. Apro il blocco di appunti su un
lato
della scrivania, scorrendo rapidamente fino alla pagina
sull’epossidazione.
Chimica organica, non hai scampo.
Dopo
un bel po’ di imprecazioni, accartocciando una
dopo l’altra circa una dozzina di reazioni non riuscite e
dopo essermi deciso a
mettere i Dead Kennedys a volume
altissimo,
sono circa a metà di una lunghissima relazione quando sento
il sole torrido
entrare dalla finestra e bruciarmi la spalla. Dev’essere
più o meno
mezzogiorno. Mentre riecheggiano le ultime note di California
Über Alles,
sento mia madre parlare ad alta voce giù in cortile. Abbasso
il volume del
computer per provare a capire cosa stia dicendo.
“-ascolta
quella roba terribile a volume fin troppo
alto e…oh, l’ha abbassato?”
Lascio
rotolare la sedia da scrivania vicino alla
finestra, facendo leva sul pavimento con i piedi. Abbasso la testa
sotto la
cornice superiore della finestra e mi accorgo che
l’interlocutore con cui mia
madre si sta lamentando non è altri che Marco. Certo
– è mercoledì.
“Lo
sai che non è carino parlare alle spalle della
gente!” grido, facendo sobbalzare mia madre, che si porta una
mano al petto per
lo spavento. Vederla camminare su e giù mentre cerca di
ricomporsi mi strappa
un sorriso subdolo.
“Jean!”
squittisce lei in protesta, gesticolando
ampiamente verso la finestra della mia camera al primo piano.
“Non gridare
così! Potevi farmi venire un infarto!” Marco
incrocia le braccia e soffoca una
risata dietro le dita. “Senti, puoi scendere un
attimo?”
“Sto
studiando, mamma!” ribatto, “Basta che urli
più
forte così ti sento anche da qui!”
Mia
madre apre la bocca per rispondere, ma Marco la
interrompe subito.
“Volevo
solo restituirti la maglietta, Jean”, sorride,
mentre mia madre sporge le labbra carnose in una smorfia esasperata.
“Te la
ridò dopo, quando finisci di studiare, se
preferisci!”
“Ah,
è vero!” esclamo in risposta, “No, puoi
darmela
adesso, non c’è problema! Potresti lanciarla
quassù? Sto cercando di finire una
relazione.”
Sembra
che Marco stia cercando di valutare la distanza
fra il terreno e la mia finestra, calcolando le probabilità
che finisca
intrappolata sulla grondaia prima di raggiungere la destinazione.
“F-forse
è meglio se te la porto su, se per te va
bene? Non credo di avere una mira abbastanza buona!”
Alzo
le spalle e mi allontano nuovamente dalla
finestra sulle ruote della sedia, girando un po’ troppo
energicamente – afferro
la scrivania con entrambe le mani per evitare di ribaltarmi
rovinosamente.
Poso
lo sguardo su qualche domanda sull’idrolasi, ma
le parole non trovano alcuna connessione con il mio cervello. Provo a
leggere
la domanda successiva, per poi sentire dei passi incerti nel corridoio.
“È
questa la stanza!” alzo la voce, senza staccare gli
occhi dal foglio nemmeno al rumore della porta che si apre.
“E-ehi”,
mi saluta Marco, scivolando lentamente dentro
la stanza. Nelle mani stringe la polo, piegata meticolosamente, proprio
come mi
aspettavo da quel poco che ho capito di lui. Pare non abbia intenzione
di
muoversi dalla porta, quindi mi giro fino a trovarmi di fronte a lui,
tendendo
una mano per ricevere la maglietta.”
“Passa
qui”
sorrido; lo sguardo di Marco rimbalza tra la maglietta ben piegata e la
mia
mano, e ha qualche momento di esitazione prima di lanciarmela.
Fortunatamente
per la mia dignità non la faccio cadere.
Rotolo
insieme alla sedia fino all’armadio, dove
inizio a cercare una gruccia vuota (il che si rivela un compito
più difficile
del previsto, dato che ho davvero troppi vestiti
inutilizzati…).
Marco
muove qualche passo e, con la coda dell’occhio,
noto che qualcosa ha catturato la sua attenzione.
“…
Sai disegnare?”
Mi
irrigidisco immediatamente, con la maglietta per
metà posizionata sull’appendiabiti. Merda. Ho
lasciato lo sketchbook sulla
scrivania.
“Uh…non
proprio”, rispondo imbarazzato.
“Faccio…uh…giusto qualche scarabocchio
quando mi annoio, niente di più. Non
sono molto bravo…”
“Posso…posso
dare un’occhiata?” Sento il bisogno
disperato di domandargli: perché, esattamente, il nostro
inserviente della
piscina è in camera mia a ficcare il naso nelle mie cose
private? Be’, lo
domando solo a me stesso. Ma lo sguardo pieno di curiosità
con cui guarda il
mio sketchbook, con quel sorriso gigantesco che gli nasconde le
lentiggini fra
le fossette, in qualche modo riesce ad addolcire i miei pensieri.
“Uh…se
proprio vuoi?”
Abbassa
la testa umilmente e inizia a sfogliare lentamente
il blocco di fogli, sfiorando appena le sottili pagine bianche.
Intanto
io rimetto a posto la gruccia – con tanto di
maglietta – nell’armadio, per poi posare nuovamente
lo sguardo su di lui,
guardandolo da una certa distanza. Il suo sorriso ha lasciato il posto
a
un’espressione profondamente concentrata che gli fa
increspare la pelle in
mezzo alle sopracciglia. Sfoglia una serie di disegni di Mikasa, gli
scarabocchi incerti che raffigurano i miei genitori, e sussulta quando
si
ritrova di fronte a quello che è senza dubbio un suo disegno
(anche se, a
proposito, ho realizzato che l’anatomia è una
completa schifezza). Stringe la
pagina successiva sospesa fra pollice e indice mentre continua a
guardare le
linee disordinate per un bel po’ di tempo. Posso praticamente
sentire il mio
sudore colare in questo silenzio imbarazzante.
“Sono…veramente
bellissimi, Jean”, mi dice finalmente,
alzando lo sguardo per incontrare il mio. Nient’altro. Non
accenna minimamente
al più-che-leggermente-inquietante problema di fondo. Mi
passo una mano tra i
capelli fino a posarla sulla nuca, dove sento il calore che mi
attanaglia il
collo per l’imbarazzo.
“…Ti
ringrazio, davvero.”
“È
questo che studi all’università? Arte,
intendo.”
“Oh…
uh, no” rispondo rapidamente – forse anche troppo
rapidamente, visto che le sopracciglia di Marco si sollevano per la
sorpresa.
Indico la pila di libri di chimica dall’altra parte della
scrivania. “Non mi
piaceva tanto.”
“Huh.
È fantastico.” Ho come l’impressione che
non
stia parlando direttamente con me in questo momento. Gira il foglio con
le
dita, per notare di essere giunto alla fine delle pagine disegnate. La
sua
postura si raddrizza e mi sembra come se non sapesse esattamente cosa
fare.
Rigiro
la lingua all’interno della guancia,
tamburellando le dita sul bordo della sedia da scrivania su cui sono
seduto. Ho
decisamente bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non
impazzire con
questo silenzio, non tanto per impazienza. Le labbra di Marco si aprono
con
l’intenzione di dire qualcosa, ma le richiude immediatamente;
noto che quand’è
imbarazzato tende a mordicchiare il labbro inferiore. Prova di nuovo a
dare
forma a quello che ha in mente.
“Pensi
che… uh, come posso dire…” Solleva una
mano
come a voler grattare i capelli corti sulla nuca. “Sono
veramente stupendi,
Jean. Pensi che potrei – ecco – potrei prendere
quello…dove ci sono io?”
Oh.
Oh, okay. Questa non me l’aspettavo. Penso si noti
chiaramente dalla mia faccia.
“Oh!
A meno che tu non voglia!” Marco si
rimangia in fretta la parola, allontanandosi
di un passo dalla scrivania, sollevando le mani nella mia direzione in
un gesto
quasi difensivo.
Non
mi ero neanche accorto di essermi alzato dalla
sedia, fino a quando non mi ritrovo davanti alla scrivania a chiudere
lo
sketchbook con una ventata di forza. Marco sembra spaventato a morte
all’idea
di avermi detto qualcosa di male.
“Quello
non era poi così bello” borbotto io,
sottovoce. Sono agitato. Molto, molto
agitato, cazzo. “Probabilmente è meglio se
– ecco – te ne disegno uno più
bello. Se per te va bene.”
Con la coda dell’occhio osservo ogni minimo cambiamento nella
sua espressione:
varia da impaurita a sorpresa fino a distendersi nel sorriso
più fottutamente
ridicolo che abbia mai visto sulla sua faccia. La mia
faccia è diventata bollente, nel frattempo.
“…
Cosa fai adesso, aspetti che la piscina si pulisca
da sola?” provo a mantenere l’espressione
più seria possibile, ma non riesco a
non lasciarmi sfuggire un sorriso imbarazzato.
Non
riesco proprio a tornare a scrivere una relazione di chimica dopo
quell’episodio, nonostante tutti i miei sforzi (che a dire il
vero non sono poi
tanti). Provo a studiare un po’ di filosofia ma arrivo a un
vicolo cieco nella
mia mente. Stessa cosa con matematica, idem per storia europea. Finisco
per aprire
il libro di francese, giusto per illudermi di essere produttivo. Posso
studiare
francese.
I
miei occhi provano a filtrare qualche capitolo sui cambiamenti della
letteratura francese del ventunesimo secolo dal punto di vista di
qualche
critico irrilevante ed estremamente noioso, e io mi sorprendo a
sorridere. Come
un fottutissimo idiota. Come Marco. Mi copro gli occhi con una mano e
premo le
dita sulle tempie, ma proprio non riesco a smettere di sorridere.
È una vera
fortuna che non ci sia nessun altro in questo momento.
Sai una cosa, Jean Kirschtein? Penso che
tu abbia appena ottenuto l’impossibile. Pare che tu abbia
appena stretto
amicizia.
Forse
qualcuno lassù da qualche parte mi sta guardando,
perché in quella stessa settimana, dopo il seminario di
filosofia di venerdì, è
successo qualcosa che ha del miracoloso.
Esco
dalla classe barcollando vistosamente, più che
contento di poter finalmente scappare lontano dall’eccessiva
razionalizzazione
del professor Dok su qualche strana teoria sulla conoscenza che quasi
sicuramente avrei già dovuto studiare a questo punto del
trimestre.
Appoggio
la borsa sul solito tavolo del bar, i libri
cadono sulla superficie di linoleum con un tonfo che ricorda
più una tonnellata
di mattoni. Stamattina ero in ritardo, quindi il mio zaino vanta solo
di una
barretta sciolta di Mars e un misero pacchetto di patatine. Non appena
apro il
pacchetto con un rumore secco, vedo Connie e Sasha entrare nel bar,
seguiti dal
gruppo più numeroso formato da Eren, Mikasa, Armin, Historia
e la sua
diciamo-abbastanza-spaventosa ragazza Ymir, del secondo anno. Parlano
tra loro,
vicinissimi; Connie gesticola selvaggiamente mentre Sasha fa una
smorfia da cui
traspare frustrazione. Il brusio generale del bar mi impedisce di
sentire una
parola, quindi decido di accingermi a leccare via dalle dita i residui
di
patatine.
Alzo
lo sguardo solo quando un’ombra bassa dai capelli
rasati si presenta al mio tavolo e uno zaino dall’aspetto
malconcio viene
gettato affianco al mio.
È
Connie. E non è il solito Connie con l’aria da sì-sto-cercando-di-evitarti.
Il mio
sguardo si indurisce. Si è seduto di fronte a me.
“Tutto
bene?” inizia a parlare, e riesco ad avvertire
giusto un pizzico di esitazione nelle sue parole. Ma sta provando con
tutto se
stesso a non farlo notare. “È da un po’
che non ci si sente.”
“…Già”,
rispondo io con aria sospettosa, affondando
nuovamente la mano nel pacchetto di patatine. Non ho idea di cosa si
aspetti
che gli risponda adesso che si è seduto qui di fronte a me
dopo avermi
spudoratamente ignorato per dodici mesi. Ovviamente avverte la
goffaggine di
tutta questa situazione – come potrebbe non
avvertirla, anche se stiamo parlando di Connie.
“Hai giocato a Titanfall,
ultimamente?” È sempre stato un po’
fuori di testa, ma questo sì che è strano.
Mangio
una patatina, le sopracciglia ancora
aggrottate. Forse se mi acciglio abbastanza riuscirò a
decifrare cosa vuole
realmente. O perlomeno mi lascerà stare.
“Cos’è
questa storia, Connie?”
Mi
sembra abbastanza spiazzato, gli occhi
castani-dorati spalancati. Incrocia le braccia sul tavolo e si sporge
leggermente in avanti.
“Che
c’è? Volevo solo sapere se ce l’avessi.
Immaginavo di sì.”
E
non si sbaglia. Ma non ci vuole certo un genio per
capirlo (tanto per la cronaca, lui non
è sicuramente un genio). Gioco a quella saga da prima
dell’incidente con Eren.
“Penso
che Sasha sia riuscita a contagiarmi,
parlandomene in continuazione”, continua lui, fermandosi a
stento per
riprendere aria fra un periodo e l’altro. “Sono al
livello quarantanove, sai?
Ancora uno e posso fare quella roba della rigenerazione. Oh, ho anche
sbloccato
due classi l’altro giorno, Ogre e Stryder. È
proprio fico.”
“Non
mi sorprende che ci sia riuscita”, mormoro. “Sei
veramente venuto qui a parlarmi di Titanfall,
Connie? O è solo un modo per chiedermi di passarti gli
appunti di filosofia?”
Connie
sospira, grattandosi la testa mentre pensa a
cosa dire. Per una volta in tutta la sua vita, mi sembra stranamente
riluttante.
“Non
voglio i tuoi appunti di filosofia” risponde in
un sospiro. “Voglio solo parlare di videogiochi.
Come facevamo un tempo.”
“Sai
anche tu che le cose sono cambiate da allora.”
“…
E chi lo dice?”
Alla
fine trovo abbastanza determinazione per guardarlo
negli occhi. Ha un’aria combattuta, mentre giocherella con i
polsini logori
della giacca. Sposto lo sguardo oltre le sue spalle, verso il tavolo
dove sono
seduti gli altri: Eren e Ymir stanno discutendo in maniera piuttosto
concitata,
con le braccia di lui che si agitano ovunque mentre lei sogghigna, e
Historia
si aggrappa al braccio della sua ragazza nel tentativo di rimetterla a
sedere.
Non riesco a vedere il viso di Mikasa, ma sono certo che li stia
fulminando con
lo sguardo. Sasha è seduta dall’altro lato di
Mikasa, e noto che i suoi occhi
si abbassano immediatamente quando si accorge che la sto guardando.
“Sasha
ci sta fissando”, osservo, facendo un cenno
nella sua direzione.
“Lo
so”, risponde Connie, guardando brevemente alle
sue spalle. In quel momento il suo telefono vibra con una suoneria
irritante.
“Le manchi, amico. Manchi a entrambi.”
Questo
mi sorprende oltremisura. Sforzo
incredibilmente il cervello per tentare di capire quale possa essere la
causa
di questa dichiarazione improvvisa, ma non mi viene in mente nulla.
Niente di
niente. Rimango qui a fissare quello che una volta era il mio migliore
amico,
mentre lui controlla i messaggi con il cellulare sotto al tavolo, in
silenzio. Si
lascia scappare una risata ansimante.
“Mi
ha appena chiesto di che cosa stiamo parlando”,
sorride, mostrandomi lo schermo del suo vecchio mattone di un Nokia.
Infatti, è
proprio quello che ha scritto. Solo con un po’ meno
alfabetizzazione in
generale, e con qualche dozzina di punti interrogativi in
più. Molto da Sasha.
“Cosa dovrei risponderle?”
Per
come immagino la situazione, potrebbe finire in
due modi. Il primo: potrei dirgli di smettere di sprecare il suo tempo.
Chiedergli se mi ha veramente perdonato per aver rotto il naso, una
clavicola e
due costole a Eren. Dirgli che Eren sicuramente non sarebbe felice di
vederci
chiacchierare così. Informarlo del fatto che sono uno
stronzo piuttosto
scontroso per la maggior parte del tempo, e che me la sono cavata
benissimo
senza di loro negli ultimi mesi.
Ma
so che non è del tutto vero. Ho fumato fin troppe
sigarette sul mio tetto per poter dire di non essere stato toccato da
questa
situazione.
Quindi,
vada per la seconda possibilità. Stare sempre
da solo fa schifo, cazzo. Voglio provare a sistemare le cose.
“Dille
che stiamo parlando degli chassis che abbiamo
sbloccato”, alzo le spalle. “E dille che
può unirsi a noi.”
Connie
sorride – e mi rendo conto di non aver visto
quel sorriso per un sacco di tempo. Veramente tantissimo tempo, cazzo.
“Certamente!”
Io
e il sonno non siamo esattamente in buoni rapporti,
stasera. Sono sul mio letto e fisso il soffitto per quelle che sembrano
ore,
steso a quattro di mazze. Stringo una sigaretta fra i denti, ma non
l’accendo.
La mastico per un po’ di tempo, finché non inizia
ad avere un sapore orrendo.
Io
e Connie abbiamo parlato di
Titanfall
per tutta la pausa pranzo – finché non
è arrivata Sasha per dirgli che dovevano
andare a lezione. Non era allegra come la Sasha che conoscevo un tempo,
e
sembrava sulla difensiva mentre tirava la giacca di Connie, che mi
stava ancora
spiegando animatamente come avesse risolto con una mano sola una mappa
su cui
io mi ero bloccato. In un modo o nell’altro comunque
è riuscita a trascinarlo
via, lasciandomi al divertimento della mia lezione di francese.
Ma
le parole con cui si è allontanato continuano a
ronzarmi in testa: “Ti devo portare questa specie di guida
che ho preso da
GameStop l’altro giorno, okay? Te la mostro
lunedì!”
Vorrei
essere felice. Completamente felice, al cento
per cento. E ci sono abbastanza vicino.
Ma
sento ancora distintamente una vocina nella mia
testa che mi dice: lo sai, non può
tornare semplicemente com’era prima. Hai fatto veramente un
casino, quella
volta. Ci vorrà molto tempo.
Mi
giro su un fianco, portando le ginocchia al petto
in posizione fetale. La mia mano sfiora la spirale dello sketchbook che
sbuca
dallo spazio che divide il letto e il muro. Passo le dita sul metallo
irregolare, immerso nei miei pensieri.
Voglio
il tempo passato a fumare sul cofano del pickup
di Connie nel punto d’osservazione dove andavamo sempre.
Voglio i messaggi
assurdi alle tre del mattino dove mi chiede perché il
minimarket notturno ha
finito il pane. Voglio i cori di “fallo per il
Vine!” mentre Connie tenta di
buttarsi fuori dalla finestra della sua camera da letto e poi sul
trampolino. Voglio
le maratone di videogiochi, i sassolini lanciati sulla mia finestra
(anche
quella volta in cui Sasha ha rotto il vetro), i viaggi in auto senza
una meta
precisa.
Voglio
veramente rimettere le cose a posto. Cazzo.
Notes:
Note
dell’autrice:
Questo
dovrebbe essere
conosciuto come il capitolo in cui non so niente di qualsiasi cosa che
riguardi
l’America. Vi dirò la verità, questo
sistema universitario mi confonde
terribilmente. Spero che la mia nazionalità inglese non sia
troppo ovvia.
A
parte questo, spero vi sia
piaciuto il capitolo. C’era un po’ più
di Marco, a petto nudo come promesso; lo
rivedrete.
L’amicizia tra Jean e Marco continuerà a crescere
nei prossimi capitoli e
inizieranno a conoscersi meglio. Sarà divertente.
Il
titolo del capitolo è il
nome di un album dei Dead Kennedys, per il semplice fatto che
è lo stesso che
stava ascoltando Jean in questo capitolo. Mi dispiace (in
realtà no) se gli ho
dato praticamente i miei stessi gusti musicali hahahaha
Vorrei
mostrarvi un bellissimo
disegno che ha fatto Sizzleart su tumblr per questa fanfiction:
http://sizzlesart.tumblr.com/post/82868404467/rich-kid-jean-and-pool-boy-marco-from-the-fic
E
giacché anche il mio tumblr:
theprophetlemonade.tumblr.com