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Autore: theprophetlemonade    24/03/2015    2 recensioni
Jean Kirschtein non sa esattamente perché ci sia bisogno di qualcuno per pulire la piscina, dato che nessuno sembra mai nuotarci dentro, ma, quando vede sua madre che proprio non riesce a smettere di fare gli occhi dolci al nuovo inserviente, Jean capisce che potrebbe non essere l’unica.
A quanto pare, cercare di instaurare una relazione con quel ragazzo della piscina coperto di lentiggini è più complicato di quanto sembra, se aggiungi una situazione familiare più che disastrosa, uno stronzo infedele come padre e un’esistenza seriamente solitaria.
Un’AU fluff e angst in egual misura, dove vedrete alcuni ragazzi che puliscono piscine, altri che fumano sui tetti, tanti problemi con i genitori e soprattutto Marco a petto nudo.
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter 2: Welcome To The Black Parade



Per non so quale magnifico atto di coraggio, sono riuscito a svegliarmi prima delle tre del pomeriggio.

E con “magnifico atto di coraggio” ovviamente mi riferisco al fatto che il Jack Russell dei vicini ha pensato bene di mettersi ad abbaiare al gatto che passeggiava sul tetto del loro giardino d’inverno più o meno intorno alle sei. Le sei del mattino. Nessuna persona sana di mente dovrebbe essere costretta a vedere le lancette segnare quell’orario. “Le sei del mattino” non è neanche un orario. È uno stato d’animo a sé.

Permettetemi di dire che il mio stato d’animo in quel momento era abbastanza fottutamente intrattabile.
Ho sopportato almeno un anno intero di quel latrato incessante, finché i vicini finalmente hanno deciso di tenere quel cane bastardo dentro casa, probabilmente per evitare di ritrovarsi con qualche denuncia per rumori molesti o qualcosa del genere. Ma ormai il danno è fatto e il sonno non sembra avermi preso troppo in simpatia. Ho dovuto optare per un paio d’ore di dolce far niente sotto le lenzuola.

Mi rigiro continuamente sotto le coperte, lottando per trovare una posizione che possa mantenere per più di cinque minuti senza morire di caldo. Pare che quest’afa non abbia la minima intenzione di andarsene presto. Mi rigiro verso il lato del letto più vicino al muro, con le caviglie goffamente intrappolate tra le lenzuola, e inizio a cercare una cosa, tastando un po’ ovunque. Conservo sempre i miei sketchbook ben nascosti dietro al lato del materasso – certo che è ridicolo, li nascondo anche meglio delle sigarette.

Sfoglio qualche pagina piena di schizzi che ormai non mi piacciono per niente, finché non arrivo alla prima pagina vuota.

A volte mi chiedo perché al me di un anno fa non è mai venuto in mente di scegliere arte come materia secondaria, invece di quella fottutissima filosofia. Almeno so disegnare quasi decentemente. Ma mi ricordo più di una conversazione in cui i miei elencavano tutte le materie che valgono come “vere materie”. Arte sicuramente non era una di queste.

Tiro un sospiro, inspiro profondamente dal naso mentre picchietto con la matita sul blocco da disegno, aspettando che arrivi l’ispirazione. …La mia mente è praticamente vuota, cazzo! Potrei disegnare Mikasa. Ma la disegno sempre. Se qualcuno vedesse questi sketchbook probabilmente mi crederebbe un perfetto stalker. Mi limito a tenere in bilico la matita sul labbro superiore mentre mi rigiro sulla schiena e mi accingo a guardare quell’entusiasmante spettacolo del mio soffitto.

“Jean”, la voce squillante di mia madre si incanala su per le scale “Jeaaaaaaaan, sto uscendo! Mi raccomando, ricordati di pagare Marco quando arriva!”

Lascio che la matita mi cada sul petto mentre allungo un braccio verso il comodino per recuperare il telefono. 11:58. Be’, ho passato un bel po’ di tempo a rigirarmi nel letto senza far nulla.

“Sì, mamma!” grido in risposta, sebbene abbia ancora la voce roca. Ad ogni modo, dubito che mi abbia sentito: è già uscita, sbattendo la porta d’ingresso.

Ripongo lo sketchbook ancora vuoto nella fessura tra il letto e il muro, sistemando un po’ il lenzuolo per coprire bene il nascondiglio, per poi provare a saltare fuori dal letto. Ho detto “saltare”, sì, ma ho i piedi ancora intrappolati nelle lenzuola, per cui, non appena provo ad abbandonare la comodità del mio materasso, finisco per cadere rovinosamente, faccia a terra, sul pavimento duro e legnoso.

“’Fanculo”, mi lamento ad alta voce. Pare che accada più spesso di quanto mi piaccia ammettere.

Resto lì sul pavimento per un po’, contemplando lo squallore generale che contraddistingue la mia esistenza. Penso anche un po’ al dolore sordo che sto sentendo al polso…temo di esserci maldestramente caduto sopra.

 


 

Alla fine barcollo giù per le scale fino ad arrivare in cucina, trascinando i piedi sulle mattonelle color bianco sporco, con aria imbronciata. Sul bancone c’è una caffettiera ancora mezza piena, quindi mi riempio una tazza. Il caffè è tiepido e mi fa storcere il naso per il disgusto. Ma lo bevo comunque. Di certo non mi prenderò la briga di prepararne dell’altro.

Prendo posto sullo stesso sgabello di ieri e non posso fare a meno di pensare a quanto questa giornata non sembri per nulla promettente.

Mi ci vogliono circa dieci minuti a fissare l’abisso di caffeina nella mia tazza prima di rendermi conto che il cancello posteriore si sta aprendo e il ragazzo della piscina, abbronzato e lentigginoso, è intento a trascinare due secchi dall’aria particolarmente pesante e un lungo tubo flessibile nel prato del cortile.

Sta lì in piedi per un po’ di tempo, con le mani sui fianchi e lo sguardo concentrato sulla piscina – non mi sembra niente di interessante, cazzo, è semplicemente acqua! Correggetemi se sbaglio. Una brezza leggera gli scompiglia i capelli e il colletto di quell’oscena polo bluette, e poi eccolo lì che si incammina di gran carriera verso il capannone. Da come continua a passarsi le mani fra i capelli, mi pare proprio che abbia completamente dimenticato la combinazione per aprire la serratura.

Lo guardo con aria compiaciuta e mi sporgo per bussare forte sul vetro della finestra. Fa un salto di un miglio per la paura, strappandomi un verso divertito.

Cinque-tre-cinque-uno, gli faccio segno con le dita; al che Marco alza entrambi i pollici in segno di approvazione e mi rivolge un sorriso smagliante. Che idiota.

Dopo un po’ di tentativi riesce finalmente a rimuovere il lucchetto, per poi girarsi nuovamente verso di me e muovere le labbra in un “grazie” silenzioso. Lo guardo basito e salto giù dallo sgabello con ancora in mano la tazza di caffè, ormai troppo freddo per essere considerato accettabile. Finisce immediatamente giù per lo scarico del lavandino.

Afferro uno strofinaccio e lo uso per aprire il rubinetto dell’acqua calda finché il getto irruento non aggredisce il lavabo. Prendo il manico della tazza fra pollice e indice e la mantengo sotto il flusso caldo, tenendo le mani il più distante possibile dall’acqua corrente. Sciacquo il recipiente un paio di volte, aiutandomi con una quantità generosa di detergente liquido, per poi mollarlo sullo sgocciolatoio con un rumore metallico. Chiudo il rubinetto storcendo il naso e mi asciugo le mani sui jeans energicamente.

Marco sta ammirando una specie di strisciolina di carta, tenendola alta in aria mentre si scherma gli occhi dal sole. Dev’essere una sorta di cromatografia, immagino. Ho studiato qualcosa di simile in chimica lo scorso trimestre.

Lo guardo mentre fa su e giù tra il capannone e il tubo almeno mezza dozzina di volte, di corsa, prima di accorgermi di essermi imbambolato. Quel cane maledetto. Ho bisogno di dormire. Stringo la radice del naso fra le dita, tenendo gli occhi chiusi per un (lungo) secondo.

Quando li riapro sono piuttosto sorpreso di trovare Marco a fissarmi dall’altra parte della finestra, con il pugno sospeso davanti al vetro. Mi rivolge un sorriso mortificato e probabilmente anche leggermente preoccupato – per tutta risposta, provo a placare lo sguardo torvo che quasi sicuramente ho stampato in volto. Mamma dice che sembro perennemente arrabbiato. Diamine, non è colpa mia se ogni cosa mi infastidisce. (Giusto per la cronaca, sto scherzando.)

Alzo le sopracciglia, in attesa, mentre lui lascia cadere il braccio, per poi riportarlo dietro la nuca, strofinandosi il collo con aria imbarazzata.

“Scusami” sento la sua voce attraversare il vetro. “Per caso…avete un secchio o qualcosa del genere per mischiare delle sostanze chimiche? Pensavo di averlo portato, e invece…” I suoi occhi scuri luccicano nel pieno della luce solare quando incrocia il mio sguardo, con l’espressione ancora ansiosa.

“Uh, sì” farfuglio in risposta, prima di realizzare che probabilmente non riesce a sentirmi se parlo così piano. Indico la porta senza dire nient’altro, in un maldestro tentativo di spiegare che, sì, la sto aprendo così magari riesco a risponderti.
“Scusa” inizio a parlare mentre muovo un primo passo nel cortile. Un errore madornale. Il cemento è caldo, cazzo. Riesco praticamente a sentire la puzza di bruciato provenire dai miei piedi nudi. “Oh, merda! È bollente!” saltello in giro come un completo idiota, raggiungendo con un ultimo salto l’erba, decisamente molto più fresca.

“T-tutto bene?” mi chiede Marco in una risata sempre più imbarazzata, guardandomi con le sopracciglia sollevate mentre continuo a borbottare una serie di imprecazioni sottovoce.

“Cazzo, quanto odio questo caldo” mi lamento io, ispezionandomi attentamente le piante dei piedi in cerca di eventuali danni. Sembrano a posto. Per ora.

“È perfetto per nuotare, almeno” ridacchia, mentre attraverso il prato per raggiungere il capannone. Tutta quella roba che nessuno si prende mai la briga di gettare di solito finisce lì dentro.

“Sì, immagino di sì” mormoro guardandomi dietro le spalle, nascondendo le mani nelle tasche dei jeans. Nuotare. O magari una bella maratona completa di Titanfall, accompagnata da quella fantastica invenzione che è l’aria condizionata. Questo sì che è un passatempo nelle mie corde.

Nel capannone non c’è neanche un secchio, quindi sono costretto a offrirgli un vecchio annaffiatoio, sperando che vada bene comunque.

“Tieni” dico bruscamente, distendendo il braccio con un’aria rigida. A quanto pare non sono solo le piscine e i miei piedi bruciati a farlo sorridere. Penso proprio che essere così felici per un cazzo di innaffiatoio sia piuttosto esagerato. “Mi dispiace, niente secchi.”

“No, tranquillo, andrà benissimo!” risponde Marco con aria contenta, vedo qualche ruga comparirgli intorno agli occhi quando li strizza per assicurarsi che non ci siano buchi evidenti nel contenitore. “Grazie, Jean.”

Alzo le spalle con sufficienza ed esco dal capannone a capo chino.
 


 

Nelle ore successive mi ritrovo a girovagare per casa come al solito; gioco un po’ a Titanfall, ma è pieno di cretini che fanno gioco di squadra; dopo circa mezz’ora già non riesco più a sopportare il fatto di non essere il giocatore migliore. Che andassero tutti a fanculo.
Stupidi dodicenni senza una vita sociale.
Neanche tu hai una vita sociale, Jean, aggiungo mentalmente. Aggrotto le sopracciglia, contrariato.
Non appena spengo la tv sento la voce stonata di qualcuno le cui orecchie indubbiamente non sono connesse al cervello. Sono abbastanza sicuro che la canzone sia Welcome To The Black Parade, ma non ci scommetterei, se capite cosa intendo…

Ovviamente è Marco a cantare. (Probabilmente sarebbe giusto un po’ strano se fosse qualche sconosciuto a caso che pensava che il mio cortile fosse il posto migliore per lanciarsi in una pessima interpretazione dei My Chemical Romance.)

Nel corso per pulire piscine non davano lezioni di canto, questo è poco ma sicuro.

Mi alzo per andare a chiudere la finestra, ma mi fermo appena vedo Marco che imbraccia il retino come una chitarra in una maniera assolutamente ridicola. Wow. Stavo quasi per urlargli qualcosa – dovrò pur diligentemente informarlo del fatto che sembra un completo idiota, no? – ma riesco a tenere la bocca chiusa; probabilmente sembrerei inquietante se si accorgesse che sto spiando il suo grande concerto da qui.

Gli cade il retino in un assolo particolarmente energico, schizzandogli tutti i pantaloncini color cachi. Riesco a stento a soffocare una risata. Questo ragazzo è veramente incredibile…

Inginocchiandosi a bordo piscina prova a raggiungere il retino che galleggia a un braccio di distanza – allunga le dita più che può e sì, spero quasi che cada in acqua, giusto per aggiungere la ciliegina sulla torta. Ma non cade. Recupera il retino e sistema le cuffie attorno al collo. Immagino che si sia divertito abbastanza, per oggi.

Sento il mio stomaco brontolare, così mi allontano dalla finestra, nel tentativo di scivolare in cucina senza intoppi (tentativo decisamente fallimentare, dato che i piedi si appiccicano alle mattonelle). Il frigo vanta un bel niente che possa placare il mio stomaco affamato; prego in silenzio affinché mamma passi dal supermercato dopo la lezione di aerobica (io sicuramente non mi prenderò la briga di prendere l’auto e andare a fare la spesa).

Intanto Marco sta raccogliendo le sue cose dal cortile – risciacqua l’innaffiatoio nella piscina prima di riportarlo nel capannone e riavvolge quel lungo tubo di gomma bianca che aveva portato con sé (con scarso successo, a giudicare da come cerchi di sfuggire dalla sua presa più di una volta). Controllo il cassetto del bancone della cucina e, come mi aspettavo, ecco la busta bianca, con la grafia pazzesca di mia madre: Servizi di Manutenzione e Riparazione Piscine di Trost (Marco). 

Almeno non ci sono faccine con l’occhiolino. Be’…per ora.
“Ehi, ho quasi finito qui” mi informa Marco appena mi vede uscire dalla cucina (saltellando rapidamente nel cortile). Ovviamente si può tradurre in: ehi, puoi darmi i soldi adesso, ma a quanto pare questo tipo non solo è incredibilmente allegro, ha anche l’educazione di un santo.

“Ecco qui” dico semplicemente, porgendogli la busta bianca. “Mia madre l’ha lasciata per te. Spero ci sia tutto.” Prende la busta con un sorriso colmo di gratitudine.

“Grazie” mi risponde mantenendo il sorriso. Ripone la busta in tasca senza nemmeno controllarne il contenuto, ma dà due colpetti secchi sulle tasche come per accertarsi della sua presenza. “Tornerò mercoledì per continuare il lavoro. Tua madre – uh, Céline – ha detto che il mercoledì va bene per voi, giusto? Mercoledì e sabato.”

Faccio spallucce, come a voler dire sì, penso di sì. Non ho lezioni il mercoledì, quindi sono a casa e spesso c’è anche mamma. E a papà piace lavorare fino a tardi.

Marco raccoglie tutto l’equipaggiamento tra le braccia e si dirige verso il cancello. Mi volto per rientrare in casa, ma ho un momento di esitazione. Giro solo la testa, chiamandolo da sopra la spalla “Ehi…”

Marco si gira a guardarmi, sembra un giocoliere mentre lotta con il tubo flessibile e cerca di non lasciarsi sfuggire il catenaccio. Ha strabuzzato gli occhi, come se fosse sorpreso dal fatto che proprio io abbia deciso di parlargli.

“…magari la prossima volta lascia perdere i My Chemical Romance, okay?”

Quando le sue sopracciglia quasi raggiungono l’attaccatura dei capelli la mia bocca si distende in un sorriso soddisfatto, mentre le sue guance diventano di un rosso che ricorda quello di un pomodoro.

“V-va bene…!”

Rientro in casa; adesso sì che posso dirmi abbastanza soddisfatto di me stesso, cazzo!

 


 

Il vero miracolo  della giornata avviene quando mio padre si trova effettivamente a casa per l’ora di cena. È domenica, ma trova sempre una scusa per lavorare. Neanche ricordo l’ultima volta in cui abbia passato un’intera giornata a casa.

Si toglie la giacca elegante nel minuto esatto in cui oltrepassa la porta, lasciandola sull’estremità della ringhiera della scala; la sua pancia adesso è ben visibile sopra la cintura – e poi dice a me che sembro un fottutissimo sciattone.

La mia maglietta dei Ramones non è neanche tanto trasandata, alla fine. Certo, avrà avuto giorni migliori. Ma sono i Ramones, dai! Non devo mica indossare giacca e cravatta a casa mia.
Sempre meglio di mamma, comunque. Lei probabilmente preferirebbe vedermi indosso dei gilet o qualcosa di altrettanto stupido. Ho già una vasta gamma di polo Ralph Lauren mai indossate a occuparmi l’armadio, potrei indossarle per tutta la vita senza bisogno di lavare nulla per quante sono, l’ultima cosa di cui ho bisogno sono i gilet Ralph Lauren.

Comunque, decido di indossare una giacca sportiva per accontentare mio padre.

A quanto pare questo non gli impedisce di farmi il terzo grado per tutta la sera. Sono piuttosto contento che il nostro tavolo da pranzo sia così lungo, così stiamo seduti abbastanza distanti perché io non senta bisogno impellente di affondare nella sedia. Solo un “leggero” bisogno. Ugh.

Ovviamente vuole sapere come va con filosofia. Non gli potrebbe interessare un bel niente del fatto che, ehi, magari ho preso una bella A in chimica!, nonostante abbia un professore di merda. Mento spudoratamente:  gli dico che sto ripetendo alla grande e che tutte quelle cazzate di Bertrand Russell mi vanno proprio a genio. (Odio Bertrand Russell con tutto me stesso, lasciatemelo dire.)

Così il suo atteggiamento cambia nel giro di un istante. Inizia immediatamente a informarmi delle copie di Battlefield 4 e Dead Rising 3 che è riuscito a ottenere da un tizio in ufficio – il che è grandioso, visto che so già che mi regala tutti questi giochi solo per compensare il fatto che stia tornando alle dieci passate ogni sera nelle ultime settimane, e non potrebbe fregarmene meno di così (perché ehi, preferisco di gran lunga giocare alla Xbox piuttosto che essere costretto a sopportare altre emozionanti conversazioni sulla mia vita universitaria con quest’uomo) – ma mamma si acciglia subito.

Inizia a blaterare qualcosa su quanto i videogiochi incoraggino la violenza, comportamenti anti-sociali e sul fatto che forse non sono uscito di casa neanche mezza volta se non per andare e tornare dal college, ma mio padre la interrompe.

“Ma dai, Céline – Jean ha diciannove anni. Lascia che si diverta con i videogiochi, se gli va.”

Ecco, questo la dice veramente lunga su mio padre e la sua doppia faccia. A volte ho come l’impressione che tutto il suo interesse per il mio impegno scolastico in fin dei conti sia solo di facciata. Non gli importa realmente dei miei voti. Ha già deciso che andrò a lavorare per lui una volta finita l’università.

Non mi pare di essere mai stato coinvolto in questa decisione.

 


 

Il lunedì mattina sembra un trapano elettrico puntato in testa. Il letto è fin troppo comodo e sono disposto persino a soprassedere al caldo pur di avere altri cinque minuti. Per favore, Dio, Gesù, Buddha, chiunque.

Purtroppo, anche pregare per circa cinquanta divinità diverse non aiuta a evitare la lezione di matematica delle 9.

In matematica generalmente non ho grossi problemi. Voglio dire che o vai bene o sbagli completamente, non c’è quell’incomprensibile via di mezzo. Però è anche una delle lezioni che segue anche Connie.

Anche Armin segue il corso di matematica, ma non è nulla di sorprendente, dato che è un tipo sveglio. Molto sveglio. È anche una persona decente in fin dei conti, perché ogni tanto si degna di rivolgermi la parola, nonostante una volta abbia gonfiato di botte il suo migliore amico. (Come ho già detto precedentemente: non è colpa mia, cazzo. Eren Jaeger ha avuto solo quel che meritava.)

In effetti, oggi è una giornata particolarmente interessante dal punto di vista delle interazioni sociali (o almeno, per i miei standard lo è).

“Stai capendo meglio, adesso?” mi chiede Armin quando mi vede posare finalmente la matita, soddisfatto per essere riuscito a concludere qualcosa con queste cazzate sulla Serie di Taylor. “Penso sia più facile farlo così rispetto al metodo che ci ha insegnato il professor Pixis…”

Annuisco fermamente, ripercorrendo ogni passaggio dei miei calcoli, relativamente sicuro di averci capito qualcosa, stavolta.

“Già, grazie, Armin, penso proprio di aver capito, adesso. Il tuo metodo è moooolto meglio.”

“Mi fa piacere” mi risponde con un lieve sorriso dall’aria soddisfatta. “Sembri quasi sempre sul punto di strapparti i capelli in questi giorni, Jean. Sono contento di poterti aiutare un po’.”

“Tsk…sì”, sbuffo, passandomi una mano tra i capelli. “La ripetizione per gli esami in questo periodo mi sta facendo impazzire.” È una bugia innocente. Passo la maggior parte del tempo a guardare la mole crescente di appunti e lezioni da ripetere e a deprimermi perché non ho un briciolo di motivazione per mettermi effettivamente a studiare. Non che Armin debba saperlo – probabilmente i compiti non gli sono mai sembrati una scocciatura in tutta la vita.

“Come se avessi bisogno di passare questi esami” Connie mi rivolge un mezzo sorriso, una volta girato nella nostra direzione per unirsi alla conversazione. Non so esattamente quanta sorpresa si evinca dalla mia espressione, ma Connie sembra non notare nulla. “Sei fortunato ad avere la tua famiglia. Hai già un lavoro assicurato dopo tutto questo. Non sai quanto diavolo ti invidio!”

Pixis ci strilla contro, dicendo che o parliamo di matematica, o possiamo portare il culo fuori dalla sua aula. Perciò ci azzittiamo subito.

Ma vi dirò la verità, sono piuttosto sorpreso, cazzo. Non riesco neanche a ricordare l’ultima volta che Connie mi rivolse la parola. Mi mordo un labbro per nascondere un sorrisetto compiaciuto.

 


 

Nel pomeriggio, arrampicandomi sul tetto con una sigaretta di autocommiserazione ben salda tra i denti, mi ripeto nella mente le parole di Connie, e le ripeto ancora e ancora. Provo a ricordare il suono della sua voce, ma più ripeto le sue parole e più mi sembra di sentirlo distante.

Con grande imbarazzo (anche se sono completamente e inequivocabilmente solo), mi ritrovo a tossire via il fumo che mi blocca la gola. Continuo a tossicchiare, sono costretto a colpirmi il petto più volte per evitare di sputare via i polmoni.

Arriva a ondate – tutto il fastidio di questa situazione, intendo. Di solito mi immergo abbastanza a fondo in tutti quei nuovi videogiochi per l’Xbox e non devo pensare a Connie, a Sasha o a Eren Jaeger.

Mi chiedo cosa succederebbe se…morissi, così, semplicemente? Proprio adesso, qui su questo tetto. A quante persone importerebbe? Quante invece farebbero finta di importarsene qualcosa?

Fanculo.

L’ultima volta che sono stato così male fu  la mattina dopo l’ultima partita dei Titans – Connie ha sempre supportato la squadra dei Trost Titans, da che ne ho memoria, e quando i suoi riuscirono a regalargli un pass per un’intera stagione, all’inizio del secondo anno delle superiori, diventò una specie di tradizione, una cosa tra me e lui. Non ci perdevamo una singola partita (non che il football mi interessi più di tanto, ma diciamo che crescendo ho dovuto imparare ad apprezzarlo, ecco). Ebbene, dopo tutto quel fiasco con Eren Jaeger, avevo dato per scontato che questa tradizione non fosse più la nostra tradizione. Ma la partita dei Titan della scorsa settimana ha rigirato ancora di più il coltello nella piaga; Connie è andato a vedere la partita con Mikasa ed Eren (e con Sasha, ovviamente) e proprio non riuscivano a parlare d’altro.

Faccio un tiro, cautamente, una volta placato il soffocamento generale. Il fumo mi raschia il fondo della gola.

Non so neanche perché mi abbia dato tanto fastidio – dopo più o meno un anno mi ero abituato alla loro assenza nella mia vita, ma questo fatto della partita mi è rimasto impresso. Mi ricordo di aver lasciato il pranzo a metà quel giorno, l’appetito era improvvisamente scomparso sentendo Eren che raccontava agli altri, entusiasta, dei posti fantastici che erano riusciti a rimediare.

Chissà se Connie ha notato il modo in cui sono uscito dalla caffetteria, a disagio, forse ha fatto due più due. E ha deciso di parlarmi oggi perché non mi sentissi completamente, totalmente di merda. Sì, probabilmente è per questo che mi ha parlato. Figurati se hanno superato quello che è successo con Eren.

Rido a quel pensiero assurdo – una risata vuota. Chi voglio prendere in giro? Nemmeno io ho superato quello che è successo con Eren. Ma a quanto pare ascoltare la mia versione dei fatti è fuori discussione.

Jean, aggiungo mentalmente. La tua versione dei fatti non si è mai spinta oltre alla frase: sei solo un coglione, Jaeger! Hai fatto una cazzata.

 


 

Spero che la decisione di Connie di parlarmi non sia stata solo una tantum, ma martedì e mercoledì passano senza che accada di nuovo. Avrei potuto sicuramente scavargli dei solchi nella nuca con l’intensità dei miei sguardi, ma ovviamente non se n’è neanche accorto. Oh be’. Estinguo ogni minimo, stupido briciolo di speranza con cui mi stavo aggrappando all’idea che le cose potessero tornare com’erano un tempo. Diamine.

Quando mi sveglio mercoledì riaffiorano i ricordi del viaggio in auto che io, Connie e Sasha abbiamo fatto due estati fa. Sono decisamente contento di non avere lezioni oggi. Mi siedo con la testa fra le mani, ascoltando il tic-tic-tic del mio orologio sulla mensola – finché non inizia a diventare irritante, cazzo, e faccio volare via quel coso con un colpo della mano. Atterra a faccia in giù sul pavimento. Spero proprio di non averlo rotto.

Indosso un paio di jeans tra quelli sparsi sul pavimento – e persino io riesco ad ammettere che la mia maglietta dei Ramones puzza un po’ di stantio, quindi prendo un’altra t-shirt dall’armadio, alla cieca. Non mi accorgo, fino a quando non vedo la scritta distesa sul petto, che è una delle magliette dell’Università di Trost, di quelle che hanno certamente visto giorni migliori. Mamma dovrà farsene una ragione.

 Mi stropiccio gli occhi – per la stanchezza, ma anche per rendere un po’ più chiare tutte le immagini che mi scorrono in testa. E perché mi fa sentire incredibilmente bene. Non vi capita mai di non riuscire a smettere di strofinarvi gli occhi? Questa è masturbazione oculare, cazzo. Un attimo, probabilmente è una cosa inquietante da dire…

Raggiungo il piano di sotto con passi incerti e mi faccio una tazza di caffè nero, forte, quasi roboticamente; intontito come sono, ci metto qualche secondo per realizzare che riesco a sentire distintamente la voce di mamma, anche se non riesco effettivamente a vederla. Oh dio, sta facendo la risata.

Mi avvicino furtivamente alla porta che dà sul cortile, tenendomi stretta la tazza di caffè per il bene della mia sanità mentale. Mia madre mi lancia un rapido sguardo, adocchiando con scetticismo il mio aspetto malconcio, e mi osserva mentre scivolo lungo il muro della cucina, attaccato alla finestra, nell’ombra proiettata dalla casa, evitando come la peste i punti del cortile illuminati dal sole. Sembra proprio un puma, stesa su una di quelle sedie reclinabili; i jeans sembrano praticamente dipinti sulla sua pelle, mentre la camicetta è fin troppo scollata perché possa sperare di guardarla senza farmi sentire il bisogno di lavarmi gli occhi con la candeggina per il resto della mia vita. Agguanta un bicchiere di limonata fra le unghie appena smaltate di color argento, mescolando delicatamente i cubetti di ghiaccio con un ombrellino da cocktail rosa. I suoi occhi sono puntati su Marco, immerso fino alle ginocchia nella parte meno profonda della piscina, intento a raschiare il fondo con il retino.

Povero, povero Marco.

Mamma”, le dico, impassibile. “Cosa. Stai. Facendo.”

È una domanda stupida, in realtà. Vedo perfettamente cosa sta facendo. Sta cercando di predare il ragazzo della piscina.

Allontana immediatamente lo sguardo da Marco per fissarmi con aria severa, smettendo di mescolare la limonata.

“Marco mi stava solo raccontando un po’ degli altri clienti”, dice, con un tono di voce leggermente più alto di quanto mi aspettassi, strappandomi una smorfia e facendomi rizzare i capelli sul collo. “Dice che fra quelle che pulisce lui, la nostra è la piscina più bella. E anche la casa.”
Poi, sottovoce, aggiunge: “E lui non ha le braccia più belle che abbia mai visto?”

Oh cielo. Bevo un lungo sorso del mio caffè; mi brucia la gola, ma mi sforzo di mandarlo giù. Ne ho bisogno.

Mia madre si raddrizza improvvisamente sulla sdraio, posando il bicchiere sul tavolino affianco a un altro bicchiere, pieno di limonata.

“Marcoooo”, canticchia lei (e io rabbrividisco), facendo alzare lo sguardo dell’inserviente nella nostra direzione, le sopracciglia si sollevano per la sorpresa. “Starai morendo di caldo lì, sotto al sole! Vieni a bere qualcosa!”

Marco – come ho notato l’altro giorno – è incredibilmente educato. Ci raggiunge con una breve corsetta senza pensarci un attimo, con un sorriso ampio e smagliante a occupargli il volto coperto di lentiggini. Man mano che si avvicina, noto che le lentiggini più vicine agli occhi sembrano scomparire nelle rughe d’espressione. Mi chiedo: è solo eccezionalmente ingenuo, o accetta di essere abbordato dalla mia disperatissima madre ultraquarantenne? (Mi vengono i brividi al pensiero.)

I suoi occhi incrociano i miei per un breve momento mentre ci raggiunge, ma sfrecciano su qualche altro soggetto con la stessa rapidità. Nascondo una risatina con un altro sorso di caffè. Potrei scommettere su cosa sta ricordando.

“Ecco qui, caro”, trilla mia madre, passandogli cautamente il bicchiere ancora pieno, che lui prende con entrambe le mani abbronzate, con aria colma di gratitudine. “Su, bevi! Sembra che tu stia facendo un gran lavoraccio laggiù.”

Beve un sorso veloce prima di adagiare nuovamente la limonata sul tavolo.

“Niente a cui non sia abituato, signora Kirschtein”, cinguetta lui – cinguetta, cazzo. “Sono nato a Jinae, laggiù le estati sono ancora più calde.”

“Oh, che bello”, mormora mia madre, posando timidamente il mento nel palmo. “È una bellissima città, vero? Ci siamo stati un paio di volte in vacanza, no, Jean? Oh, tu però non la sopportavi! Non smettevi di lamentarti del caldo, non so se ricordi!” Ride come un’oca; anche Marco inizia a ridere, ma dalla sua risata traspare un chiaro imbarazzo.

“Non ami particolarmente il caldo, eh, Jean?” aggiunge Marco, girandosi verso di me con una mano sul fianco. Alzo gli occhi al cielo, esasperato, e borbotto: “già, pensavo l’avessimo già constatato l’altro giorno.” Non so dire se mi abbia sentito, perché il telefono inizia a squillare in cucina.

“Scusami un attimo, Marco” è mia madre a parlare, mentre si alza in piedi barcollando. Digrigno i denti, ben oltre la semplice esasperazione. Penso che sarebbe grandioso sprofondare semplicemente nel terreno in questo preciso istante.

Traballa fino in cucina e presto la sento rispondere al telefono. Marco si gratta la nuca con aria imbarazzata mentre io continuo a guardare fisso nel punto in cui spero che il pavimento si apra per ingoiarmi per sempre.

“Tua madre…è proprio particolare” pronuncia le parole con una leggera esitazione. Faccio un verso nasale, divertito, per poi bere il resto del caffè. “È sempre così…gentile?”

Oh mio dio, ma è un idiota.

Mi stringo la radice del naso e non riesco a fare a meno di ridere sottovoce fra me e me. Con questo ha superato il limite dell’“eccezionalmente ingenuo” da un miglio, cazzo.

“Ci sta provando con te.”

Mi guarda per un po’ di tempo a bocca aperta, interdetto.

“O-oh. Oh. Oh dio.

La sua trasformazione da proprio-non-capisco-che-intendi fino all’orribile consapevolezza è un cazzo di spettacolo incredibile. Continua a passarsi una mano fra i capelli corti sulla nuca, prima di guardarmi con aria seriamente preoccupata.

“M-ma sei sicuro? Pensavo che stesse solo--” si blocca, sicuramente registrando la mia espressione come una risposta al suo divertentissimo panico. “Oh, ma come ho fatto a non accorgermene…”

Alzo le spalle, ma non riesco a togliermi quel sorriso dalla faccia. Questo ragazzo. Questo ragazzo. È in completo stato di panico, dovreste vederlo per credermi. Wow.

“L’estate scorsa non è riuscita a farsi il ragazzo della piscina prima che mio padre minacciasse di tagliargli le palle” ridacchio io, davanti allo sguardo terrificato di Marco. “Probabilmente dovresti iniziare a pensare di…evitare di incoraggiarla, ecco. Tipo…”

Mi fermo a guardare la faccia di Marco, mentre lui pende dalle mie labbra, sperando che io sia tanto gentile da offrirgli delle perle di saggezza che lo aiutino a evitare le molestie sessuali di mia madre.

“Tipo…tutta quella roba dei sorrisi. Magari evita un po’ di tutta quest’allegria.” Non so perché scelgo proprio questa fra tante cose da dire, ma è la prima cosa che mi viene in mente. Marco sembra arrossire, le lentiggini sulle guance scompaiono lentamente. “…E non accettare la limonata in futuro, okay?”

Annuisce con decisione, strofinandosi un braccio timidamente. Apro la bocca per dire qualcos’altro, ma sono interrotto dalle urla di mia madre: “Jeeeeean, c’è la nonna al telefono! Vieni a parlare con lei!”

Alzo gli occhi al cielo con aria terribilmente drammatica e Marco mi rivolge un sorriso sia comprensivo che riconoscente. Mi giro verso la porta della cucina, ma gli sorrido guardandolo da sopra la spalla: “Buona fortuna. Ne avrai bisogno.”

 


 

Parlo al telefono con mia nonna per quasi un’ora intera. Be’, quello che intendo dire è: mia nonna parla con me per un’ora, e io le offro qualche vago “sì” e “no” ogni tanto.

È la solita roba da nonna: a scuola tutto bene? Stai studiando molto? Come va con gli amici, tutto a posto? L’hai trovata la ragazza?”

No, nonna” sospiro, tamburellando le dita sul bancone da cucina dove sono appoggiato, guardando il linguaggio del corpo di Marco che rivela sempre più imbarazzo mentre mia madre continua a flirtare con lui, nel cortile. È così agitato che sembra si sia bruciato al sole. Ce la sta mettendo tutta per assicurarsi di pulire ogni singolo frammento di sporcizia da quella piscina.

Finisce più o meno nello stesso momento in cui mia nonna molla la sua presa verbale su di me, e posso riattaccare il telefono. Mia madre sembra balzare su di lui appena lo vede posare il retino, sventolando per aria la sottile bustina bianca mentre gli parla animatamente. Guardo la scena pietosa dalla sicurezza dell’altra parte della finestra, in cucina, sogghignando con cattiveria.

In qualche modo, per la grazia di non so quale Dio misericordioso, Marco riesce a raggiungere lentamente il cancello sul retro, stringendosi tutto l’equipaggiamento al petto come se fosse una barriera protettiva. Decido di fare il bravo ragazzo e di salvarlo da quest’orrore senza fine.

“Ehi, maaaaaammaaaaaa” grido, per farla voltare, “Puoi aiutarmi un attimo con una cosa?”

La guardo  mentre saluta Marco, e inizia a barcollare nuovamente nel prato verso di me. Il viso arrossito di Marco si trasforma rapidamente in un sorriso riconoscente quando allunga una mano in una breve forma di saluto nella mia direzione. Per tutta risposta gli rivolgo un mezzo sorriso compiaciuto. Idiota.

 


 

Porto una sigaretta sul tetto come al solito, non appena il cielo inizia a diventare veramente scuro. Non fa male come l’ultima volta, anzi, apprezzo il sapore della nicotina e del fumo, provando – e fallendo miseramente – a soffiare qualche anello di fumo. Gandalf lo fa sembrare così facile.

La mia mente torna a lunedì appena aspiro l’aria più fresca. Penso a Connie e agli altri. A quella che probabilmente è e sarà l’unica conversazione “amichevole solo per fingere di essere amici” al corso di matematica.

E poi, per qualche motivo, questo mi fa pensare a Marco.

Faccio un tiro profondo dalla sigaretta. Amichevole solo per fingere amicizia. Spero che non sia questo il caso. Sembra un tipo piuttosto divertente.

Mi accorgo di essere leggermente impaziente per la prossima visita di Marco, in fondo.

Note dell’autrice:

Stavolta il capitolo è leggermente più lungo! È ancora molto introduttivo, dato che sto ancora impostando la scena e i temi principali che ho intenzione di approfondire più avanti.
Quello che è successo effettivamente fra Jean ed Eren (che ha fatto sì che gli altri iniziassero a ignorarlo) sarà spiegato più avanti nella storia… ma è abbastanza importante. È solo che ancora non voglio rivelarlo.

Ho scelto I MCR per Marco principalmente perché ormai secondo tutto il fandom in generale li adora. Per come immagino Jean, i suoi gusti musicali si concentrano sul rock classico anni 70/80 – ecco perché i Ramones. Penso che abbia una vasta collezione di dischi.

È stato un capitolo divertente da scrivere! Spero che lo sia anche da leggere.
Continuerò a lavorare sodo e sfornare nuovi capitoli! C’è ancora tanto divertimento e situazioni imbarazzanti da svelare (incluso Erwin in slip da bagno ???), quindi continuate a seguire.

   
 
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