Chapter 2: Welcome To The Black Parade
Per
non so quale magnifico atto di coraggio, sono riuscito a
svegliarmi prima delle tre del pomeriggio.
E
con “magnifico atto di coraggio” ovviamente mi
riferisco al
fatto che il Jack Russell dei vicini ha pensato bene di mettersi ad
abbaiare al
gatto che passeggiava sul tetto del loro giardino d’inverno
più o meno intorno
alle sei. Le sei del mattino. Nessuna persona sana di mente dovrebbe
essere
costretta a vedere le lancette segnare quell’orario.
“Le sei del mattino” non è
neanche un orario. È uno stato d’animo a
sé.
Permettetemi
di dire che il mio
stato d’animo in quel momento era abbastanza fottutamente intrattabile.
Ho sopportato almeno un anno intero
di quel latrato incessante, finché i vicini finalmente hanno
deciso di tenere
quel cane bastardo dentro casa, probabilmente per evitare di ritrovarsi
con
qualche denuncia per rumori molesti o qualcosa del genere. Ma ormai il
danno è
fatto e il sonno non sembra avermi preso troppo in simpatia. Ho dovuto
optare
per un paio d’ore di dolce far niente sotto le lenzuola.
Mi
rigiro continuamente sotto le coperte, lottando per trovare
una posizione che possa mantenere per più di cinque minuti
senza morire di
caldo. Pare che quest’afa non abbia la minima intenzione di
andarsene presto.
Mi rigiro verso il lato del letto più vicino al muro, con le
caviglie
goffamente intrappolate tra le lenzuola, e inizio a cercare una cosa,
tastando
un po’ ovunque. Conservo sempre i miei sketchbook ben
nascosti dietro al lato
del materasso – certo che è ridicolo, li nascondo
anche meglio delle sigarette.
Sfoglio
qualche pagina piena di schizzi che ormai non mi
piacciono per niente,
finché non
arrivo alla prima pagina vuota.
A
volte mi chiedo perché al me di un anno fa non è
mai venuto in
mente di scegliere arte come materia secondaria, invece di quella
fottutissima
filosofia. Almeno so disegnare quasi decentemente. Ma mi ricordo
più di una
conversazione in cui i miei elencavano tutte le materie che valgono
come “vere
materie”. Arte sicuramente non era una di queste.
Tiro
un sospiro, inspiro profondamente dal naso mentre
picchietto con la matita sul blocco da disegno, aspettando che arrivi
l’ispirazione. …La mia mente è
praticamente vuota, cazzo! Potrei disegnare
Mikasa. Ma la disegno sempre. Se qualcuno vedesse questi sketchbook
probabilmente
mi crederebbe un perfetto stalker. Mi limito a tenere in bilico la
matita sul
labbro superiore mentre mi rigiro sulla schiena e mi accingo a guardare
quell’entusiasmante spettacolo del mio soffitto.
“Jean”,
la voce squillante di mia madre si incanala su per le
scale “Jeaaaaaaaan, sto uscendo! Mi raccomando, ricordati di
pagare Marco
quando arriva!”
Lascio
che la matita mi cada sul petto mentre allungo un braccio
verso il comodino per recuperare il telefono. 11:58. Be’, ho
passato un bel po’
di tempo a rigirarmi nel letto senza far nulla.
“Sì,
mamma!” grido in risposta, sebbene abbia ancora la voce
roca. Ad ogni modo, dubito che mi abbia sentito: è
già uscita, sbattendo la
porta d’ingresso.
Ripongo
lo sketchbook ancora vuoto nella fessura tra il letto e
il muro, sistemando un po’ il lenzuolo per coprire bene il
nascondiglio, per
poi provare a saltare fuori dal letto. Ho detto
“saltare”, sì, ma ho i piedi
ancora intrappolati nelle lenzuola, per cui, non appena provo ad
abbandonare la
comodità del mio materasso, finisco per cadere
rovinosamente, faccia a terra,
sul pavimento duro e legnoso.
“’Fanculo”,
mi lamento ad alta voce. Pare che accada più spesso
di quanto mi piaccia ammettere.
Resto
lì sul pavimento per un po’, contemplando lo
squallore
generale che contraddistingue la mia esistenza. Penso anche un
po’ al dolore
sordo che sto sentendo al polso…temo di esserci
maldestramente caduto sopra.
Alla
fine barcollo giù per le scale fino ad arrivare in cucina,
trascinando
i piedi sulle mattonelle color bianco sporco, con aria imbronciata. Sul
bancone
c’è una caffettiera ancora mezza piena, quindi mi
riempio una tazza. Il caffè è
tiepido e mi fa storcere il naso per il disgusto. Ma lo bevo comunque.
Di certo
non mi prenderò la briga di prepararne dell’altro.
Prendo
posto sullo stesso sgabello di ieri e non posso fare a meno di
pensare a quanto questa giornata non sembri per nulla promettente.
Mi
ci vogliono circa dieci minuti a fissare l’abisso di caffeina
nella mia
tazza prima di rendermi conto che il cancello posteriore si sta aprendo
e il
ragazzo della piscina, abbronzato e lentigginoso, è intento
a trascinare due
secchi dall’aria particolarmente pesante e un lungo tubo
flessibile nel prato
del cortile.
Sta
lì in piedi per un po’ di tempo, con le mani sui
fianchi e lo sguardo
concentrato sulla piscina – non mi sembra niente di
interessante, cazzo, è
semplicemente acqua! Correggetemi
se
sbaglio. Una brezza leggera gli scompiglia i capelli e il colletto di
quell’oscena polo bluette, e poi eccolo lì che si
incammina di gran carriera
verso il capannone. Da come continua a passarsi le mani fra i capelli,
mi pare
proprio che abbia completamente dimenticato la combinazione per aprire
la
serratura.
Lo
guardo con aria compiaciuta e mi sporgo per bussare forte sul vetro
della finestra. Fa un salto di un miglio per la paura, strappandomi un
verso
divertito.
Cinque-tre-cinque-uno,
gli faccio segno con le dita; al che Marco alza entrambi i pollici in
segno di approvazione e mi rivolge un sorriso smagliante. Che idiota.
Dopo
un po’ di tentativi riesce finalmente a rimuovere il
lucchetto, per
poi girarsi nuovamente verso di me e muovere le labbra in un
“grazie”
silenzioso. Lo guardo basito e salto giù dallo sgabello con
ancora in mano la
tazza di caffè, ormai troppo freddo per essere considerato
accettabile. Finisce
immediatamente giù per lo scarico del lavandino.
Afferro
uno strofinaccio e lo uso per aprire il rubinetto dell’acqua
calda
finché il getto irruento non aggredisce il lavabo. Prendo il
manico della tazza
fra pollice e indice e la mantengo sotto il flusso caldo, tenendo le
mani il
più distante possibile dall’acqua corrente.
Sciacquo il recipiente un paio di
volte, aiutandomi con una quantità generosa di detergente
liquido, per poi
mollarlo sullo sgocciolatoio con un rumore metallico. Chiudo il
rubinetto
storcendo il naso e mi asciugo le mani sui jeans energicamente.
Marco
sta ammirando una specie di strisciolina di carta, tenendola alta in
aria mentre si scherma gli occhi dal sole. Dev’essere una
sorta di
cromatografia, immagino. Ho studiato qualcosa di simile in chimica lo
scorso
trimestre.
Lo
guardo mentre fa su e giù tra il capannone e il tubo almeno
mezza
dozzina di volte, di corsa, prima di accorgermi di essermi imbambolato.
Quel
cane maledetto. Ho bisogno di dormire. Stringo la radice del naso fra
le dita,
tenendo gli occhi chiusi per un (lungo) secondo.
Quando
li riapro sono piuttosto sorpreso di trovare Marco a fissarmi
dall’altra parte della finestra, con il pugno sospeso davanti
al vetro. Mi
rivolge un sorriso mortificato e probabilmente anche leggermente
preoccupato –
per tutta risposta, provo a placare lo sguardo torvo che quasi
sicuramente ho
stampato in volto. Mamma dice che sembro perennemente arrabbiato.
Diamine, non
è colpa mia se ogni cosa mi infastidisce. (Giusto per la
cronaca, sto
scherzando.)
Alzo
le sopracciglia, in attesa, mentre lui lascia cadere il braccio, per
poi riportarlo dietro la nuca, strofinandosi il collo con aria
imbarazzata.
“Scusami”
sento la sua voce attraversare il vetro. “Per
caso…avete un
secchio o qualcosa del genere per mischiare delle sostanze chimiche?
Pensavo di
averlo portato, e invece…” I suoi occhi scuri
luccicano nel pieno della luce
solare quando incrocia il mio sguardo, con l’espressione
ancora ansiosa.
“Uh,
sì” farfuglio in risposta, prima di realizzare che
probabilmente non
riesce a sentirmi se parlo così piano. Indico la porta senza
dire nient’altro,
in un maldestro tentativo di spiegare che, sì,
la sto aprendo così magari riesco a risponderti.
“Scusa” inizio a parlare mentre muovo un primo
passo nel cortile. Un errore
madornale. Il cemento è caldo,
cazzo.
Riesco praticamente a sentire la puzza di bruciato provenire dai miei
piedi
nudi. “Oh, merda! È bollente!” saltello
in giro come un completo idiota, raggiungendo
con un ultimo salto l’erba, decisamente molto
più fresca.
“T-tutto
bene?” mi chiede Marco in una risata sempre più
imbarazzata,
guardandomi con le sopracciglia sollevate mentre continuo a borbottare
una
serie di imprecazioni sottovoce.
“Cazzo,
quanto odio questo caldo” mi lamento io, ispezionandomi
attentamente le piante dei piedi in cerca di eventuali danni. Sembrano
a posto.
Per ora.
“È
perfetto per nuotare, almeno” ridacchia, mentre attraverso il
prato per
raggiungere il capannone. Tutta quella roba che nessuno si prende mai
la briga
di gettare di solito finisce lì dentro.
“Sì,
immagino di sì” mormoro guardandomi dietro le
spalle, nascondendo le
mani nelle tasche dei jeans. Nuotare. O magari una bella maratona
completa di
Titanfall, accompagnata da quella fantastica invenzione che
è l’aria
condizionata. Questo sì
che è un
passatempo nelle mie corde.
Nel
capannone non c’è neanche un secchio, quindi sono
costretto a offrirgli
un vecchio annaffiatoio, sperando che vada bene comunque.
“Tieni”
dico bruscamente, distendendo il braccio con un’aria rigida.
A
quanto pare non sono solo le piscine e i miei piedi bruciati a farlo
sorridere.
Penso proprio che essere così felici per un cazzo di
innaffiatoio sia piuttosto
esagerato. “Mi dispiace, niente secchi.”
“No,
tranquillo, andrà benissimo!” risponde Marco con
aria contenta, vedo
qualche ruga comparirgli intorno agli occhi quando li strizza per
assicurarsi
che non ci siano buchi evidenti nel contenitore. “Grazie,
Jean.”
Alzo
le spalle
con sufficienza ed esco dal capannone a capo chino.
Nelle
ore successive mi ritrovo a girovagare per casa come al solito; gioco
un po’ a Titanfall, ma è pieno di cretini che
fanno gioco di squadra; dopo
circa mezz’ora già non riesco più a
sopportare il fatto di non essere il
giocatore migliore. Che andassero
tutti a fanculo.
Stupidi dodicenni senza una vita sociale.
Neanche tu hai una vita sociale, Jean,
aggiungo mentalmente. Aggrotto le sopracciglia, contrariato.
Non appena spengo la tv sento la voce stonata di qualcuno le cui
orecchie indubbiamente non sono
connesse al
cervello. Sono abbastanza sicuro che la canzone sia Welcome
To The Black Parade, ma non ci scommetterei, se capite cosa
intendo…
Ovviamente
è Marco a cantare. (Probabilmente sarebbe giusto un
po’ strano
se fosse qualche sconosciuto a caso che pensava che il mio cortile
fosse il
posto migliore per lanciarsi in una pessima interpretazione dei My
Chemical
Romance.)
Nel
corso per pulire piscine non davano lezioni di canto, questo
è poco ma
sicuro.
Mi
alzo per andare a chiudere la finestra, ma mi fermo appena vedo Marco
che imbraccia il retino come una chitarra in una maniera assolutamente
ridicola. Wow. Stavo quasi per urlargli qualcosa –
dovrò pur diligentemente
informarlo del fatto che sembra un completo idiota, no? – ma
riesco a tenere la
bocca chiusa; probabilmente sembrerei inquietante se si accorgesse che
sto spiando
il suo grande concerto da qui.
Gli
cade il retino in un assolo particolarmente energico, schizzandogli
tutti i pantaloncini color cachi. Riesco a stento a soffocare una
risata. Questo
ragazzo è veramente incredibile…
Inginocchiandosi
a bordo piscina prova a raggiungere il retino che
galleggia a un braccio di distanza – allunga le dita
più che può e sì, spero
quasi che cada in acqua, giusto per aggiungere la ciliegina sulla
torta. Ma non
cade. Recupera il retino e sistema le cuffie attorno al collo. Immagino
che si
sia divertito abbastanza, per oggi.
Sento
il mio stomaco brontolare, così mi allontano dalla finestra,
nel
tentativo di scivolare in cucina senza intoppi (tentativo decisamente
fallimentare, dato che i piedi si appiccicano alle mattonelle). Il
frigo vanta
un bel niente che possa placare il
mio stomaco affamato; prego in silenzio affinché mamma passi
dal supermercato
dopo la lezione di aerobica (io sicuramente
non mi prenderò la briga di prendere l’auto e
andare a fare la spesa).
Intanto Marco sta raccogliendo le sue cose dal cortile – risciacqua l’innaffiatoio nella piscina prima di riportarlo nel capannone e riavvolge quel lungo tubo di gomma bianca che aveva portato con sé (con scarso successo, a giudicare da come cerchi di sfuggire dalla sua presa più di una volta). Controllo il cassetto del bancone della cucina e, come mi aspettavo, ecco la busta bianca, con la grafia pazzesca di mia madre: Servizi di Manutenzione e Riparazione Piscine di Trost (Marco).
Almeno
non ci sono faccine con l’occhiolino.
Be’…per ora.
“Ehi, ho quasi finito qui” mi informa Marco appena
mi vede uscire dalla cucina
(saltellando rapidamente nel cortile). Ovviamente si può
tradurre in: ehi, puoi
darmi i soldi adesso, ma a quanto pare questo tipo non
solo è incredibilmente
allegro, ha anche l’educazione di un santo.
“Ecco
qui” dico semplicemente, porgendogli la busta bianca.
“Mia madre l’ha lasciata per te. Spero ci sia
tutto.” Prende la busta con un
sorriso colmo di gratitudine.
“Grazie”
mi risponde mantenendo il sorriso. Ripone la busta
in tasca senza nemmeno controllarne il contenuto, ma dà due
colpetti secchi
sulle tasche come per accertarsi della sua presenza.
“Tornerò mercoledì per
continuare il lavoro. Tua madre – uh, Céline
– ha detto che il mercoledì va
bene per voi, giusto? Mercoledì e sabato.”
Faccio
spallucce, come a voler dire
sì, penso di sì. Non ho
lezioni il mercoledì, quindi sono a casa e spesso
c’è anche mamma. E a papà
piace lavorare fino a tardi.
Marco
raccoglie tutto l’equipaggiamento tra le braccia e si
dirige verso il cancello. Mi volto per rientrare in casa, ma ho un
momento di
esitazione. Giro solo la testa, chiamandolo da sopra la spalla
“Ehi…”
Marco
si gira a guardarmi, sembra un giocoliere mentre lotta
con il tubo flessibile e cerca di non lasciarsi sfuggire il catenaccio.
Ha
strabuzzato gli occhi, come se fosse sorpreso dal fatto che proprio io
abbia
deciso di parlargli.
“…magari
la prossima volta lascia perdere i My Chemical
Romance, okay?”
Quando
le sue sopracciglia quasi raggiungono l’attaccatura
dei capelli la mia bocca si distende in un sorriso soddisfatto, mentre
le sue
guance diventano di un rosso che ricorda quello di un pomodoro.
“V-va
bene…!”
Rientro
in casa; adesso sì che posso dirmi abbastanza
soddisfatto di me stesso, cazzo!
Il
vero miracolo della
giornata
avviene quando mio padre si trova effettivamente a casa per
l’ora di cena. È
domenica, ma trova sempre una scusa per lavorare. Neanche ricordo
l’ultima
volta in cui abbia passato un’intera giornata a casa.
Si
toglie la giacca elegante nel minuto esatto in cui oltrepassa la porta,
lasciandola
sull’estremità della ringhiera della scala; la sua
pancia adesso è ben visibile
sopra la cintura – e poi dice a me che
sembro un fottutissimo sciattone.
La
mia maglietta dei Ramones non
è neanche tanto trasandata, alla fine. Certo,
avrà avuto giorni migliori. Ma
sono i Ramones, dai! Non devo mica
indossare giacca e cravatta a casa mia.
Sempre meglio di mamma, comunque. Lei probabilmente preferirebbe
vedermi
indosso dei gilet o qualcosa di altrettanto stupido. Ho già
una vasta gamma di
polo Ralph Lauren mai indossate a
occuparmi l’armadio, potrei indossarle per tutta la vita
senza bisogno di
lavare nulla per quante sono, l’ultima cosa di cui ho bisogno
sono i gilet Ralph
Lauren.
Comunque,
decido di indossare una giacca sportiva per accontentare mio
padre.
A
quanto pare questo non gli impedisce di farmi il terzo grado per tutta
la
sera. Sono piuttosto contento che il nostro tavolo da pranzo sia
così lungo,
così stiamo seduti abbastanza distanti perché io
non senta bisogno impellente
di affondare nella sedia. Solo un “leggero”
bisogno. Ugh.
Ovviamente
vuole sapere come va con filosofia. Non gli potrebbe interessare
un bel niente del fatto che, ehi, magari ho preso una bella A in
chimica!,
nonostante abbia un professore di merda. Mento spudoratamente: gli dico che sto ripetendo
alla grande e che tutte
quelle cazzate di Bertrand Russell mi vanno proprio a genio. (Odio
Bertrand
Russell con tutto me stesso, lasciatemelo dire.)
Così
il suo atteggiamento cambia nel giro di un istante. Inizia
immediatamente a informarmi delle copie di Battlefield
4 e Dead Rising 3 che
è riuscito
a ottenere da un tizio in ufficio – il che è
grandioso, visto che so già che mi
regala tutti questi giochi solo per compensare il fatto che stia
tornando alle
dieci passate ogni sera nelle ultime settimane, e non potrebbe
fregarmene meno
di così (perché ehi, preferisco di gran lunga
giocare alla Xbox piuttosto che
essere costretto a sopportare altre emozionanti conversazioni sulla mia
vita
universitaria con quest’uomo) – ma mamma si
acciglia subito.
Inizia
a blaterare qualcosa su quanto i videogiochi incoraggino la
violenza, comportamenti anti-sociali e sul fatto che forse
non sono uscito di casa neanche mezza volta se non per andare
e tornare dal college, ma mio padre la interrompe.
“Ma
dai, Céline – Jean ha diciannove anni. Lascia che
si diverta con i
videogiochi, se gli va.”
Ecco,
questo la dice veramente lunga su mio padre e la sua doppia faccia. A
volte ho come l’impressione che tutto il suo interesse per il
mio impegno
scolastico in fin dei conti sia solo di facciata. Non gli importa
realmente dei
miei voti. Ha già deciso che andrò a lavorare per
lui una volta finita
l’università.
Non
mi pare di essere mai stato coinvolto in questa
decisione.
Il
lunedì mattina sembra un trapano elettrico puntato in testa.
Il letto è
fin troppo comodo e sono disposto persino a soprassedere al caldo pur
di avere
altri cinque minuti. Per favore,
Dio,
Gesù, Buddha, chiunque.
Purtroppo,
anche pregare per circa cinquanta divinità diverse non aiuta
a
evitare la lezione di matematica delle 9.
In
matematica generalmente non ho grossi problemi. Voglio dire che o vai
bene o sbagli completamente, non c’è
quell’incomprensibile via di mezzo. Però
è
anche una delle lezioni che segue anche Connie.
Anche
Armin segue il corso di matematica, ma non è nulla di
sorprendente,
dato che è un tipo sveglio. Molto sveglio. È
anche una persona decente in fin
dei conti, perché ogni tanto si degna di rivolgermi la
parola, nonostante una
volta abbia gonfiato di botte il suo migliore amico. (Come ho
già detto
precedentemente: non è colpa mia, cazzo. Eren Jaeger ha
avuto solo quel che
meritava.)
In
effetti, oggi è una giornata particolarmente interessante
dal punto di
vista delle interazioni sociali (o almeno, per i miei standard lo
è).
“Stai
capendo meglio, adesso?” mi chiede Armin quando mi vede
posare
finalmente la matita, soddisfatto per essere riuscito a concludere
qualcosa con
queste cazzate sulla Serie di Taylor. “Penso sia
più facile farlo così rispetto
al metodo che ci ha insegnato il professor Pixis…”
Annuisco
fermamente, ripercorrendo ogni passaggio dei miei calcoli,
relativamente sicuro di averci capito qualcosa, stavolta.
“Già,
grazie, Armin, penso proprio di aver capito, adesso. Il tuo metodo
è
moooolto meglio.”
“Mi
fa piacere” mi risponde con un lieve sorriso
dall’aria soddisfatta.
“Sembri quasi sempre sul punto di strapparti i capelli in
questi giorni, Jean.
Sono contento di poterti aiutare un po’.”
“Tsk…sì”,
sbuffo, passandomi una mano tra i capelli. “La ripetizione
per
gli esami in questo periodo mi sta facendo impazzire.”
È una bugia innocente.
Passo la maggior parte del tempo a guardare la mole crescente di
appunti e
lezioni da ripetere e a deprimermi perché non ho un briciolo
di motivazione per
mettermi effettivamente a studiare. Non che Armin debba saperlo
– probabilmente
i compiti non gli sono mai sembrati una scocciatura in tutta la vita.
“Come
se avessi bisogno di passare questi esami” Connie mi rivolge
un mezzo
sorriso, una volta girato nella nostra direzione per unirsi alla
conversazione.
Non so esattamente quanta sorpresa si evinca dalla mia espressione, ma
Connie
sembra non notare nulla. “Sei fortunato ad avere la tua
famiglia. Hai già un
lavoro assicurato dopo tutto questo. Non sai quanto diavolo ti
invidio!”
Pixis
ci strilla contro, dicendo che o parliamo di matematica, o possiamo
portare il culo fuori dalla sua aula. Perciò ci azzittiamo
subito.
Ma
vi dirò la verità, sono piuttosto sorpreso,
cazzo. Non riesco neanche a
ricordare l’ultima volta che Connie mi rivolse la parola. Mi
mordo un labbro
per nascondere un sorrisetto compiaciuto.
Nel
pomeriggio, arrampicandomi sul tetto con una sigaretta di
autocommiserazione ben salda tra i denti, mi ripeto nella mente le
parole di
Connie, e le ripeto ancora e ancora. Provo a ricordare il suono della
sua voce,
ma più ripeto le sue parole e più mi sembra di
sentirlo distante.
Con
grande imbarazzo (anche se sono completamente e inequivocabilmente
solo), mi ritrovo a tossire via il fumo che mi blocca la gola. Continuo
a
tossicchiare, sono costretto a colpirmi il petto più volte
per evitare di
sputare via i polmoni.
Arriva
a ondate – tutto il fastidio di questa situazione, intendo.
Di
solito mi immergo abbastanza a fondo in tutti quei nuovi videogiochi
per l’Xbox
e non devo pensare a Connie, a Sasha o a Eren Jaeger.
Mi
chiedo cosa succederebbe se…morissi, così,
semplicemente? Proprio
adesso, qui su questo tetto. A quante persone importerebbe? Quante
invece farebbero finta di
importarsene
qualcosa?
Fanculo.
L’ultima
volta che sono stato
così male fu la
mattina dopo l’ultima
partita dei Titans – Connie ha sempre supportato la squadra
dei Trost Titans,
da che ne ho memoria, e quando i suoi riuscirono a regalargli un pass
per
un’intera stagione, all’inizio del secondo anno
delle superiori, diventò una
specie di tradizione, una cosa tra me e lui. Non ci perdevamo una
singola
partita (non che il football mi interessi più di tanto, ma
diciamo che
crescendo ho dovuto imparare ad apprezzarlo, ecco). Ebbene, dopo tutto
quel
fiasco con Eren Jaeger, avevo dato per scontato che questa tradizione
non fosse
più la nostra tradizione.
Ma la
partita dei Titan della scorsa settimana ha rigirato ancora di
più il coltello
nella piaga; Connie è andato a vedere la partita con Mikasa
ed Eren (e con
Sasha, ovviamente) e proprio non
riuscivano a parlare d’altro.
Faccio
un tiro, cautamente,
una volta placato il soffocamento generale. Il fumo mi raschia il fondo
della
gola.
Non
so neanche perché mi abbia
dato tanto fastidio – dopo più o meno un anno mi
ero abituato alla loro assenza
nella mia vita, ma questo fatto della partita mi è rimasto
impresso. Mi ricordo
di aver lasciato il pranzo a metà quel giorno,
l’appetito era improvvisamente
scomparso sentendo Eren che raccontava agli altri, entusiasta, dei
posti
fantastici che erano riusciti a rimediare.
Chissà
se Connie ha notato il
modo in cui sono uscito dalla caffetteria, a disagio, forse ha fatto
due più
due. E ha deciso di parlarmi oggi perché non mi sentissi
completamente,
totalmente di merda. Sì, probabilmente è per
questo che mi ha parlato. Figurati
se hanno superato quello che è successo con Eren.
Rido
a quel pensiero assurdo –
una risata vuota. Chi voglio prendere in giro? Nemmeno io ho superato
quello
che è successo con Eren. Ma a quanto pare ascoltare la mia
versione dei fatti è
fuori discussione.
Jean,
aggiungo
mentalmente. La tua versione dei fatti non si
è mai spinta oltre alla frase: sei
solo un coglione, Jaeger! Hai fatto una cazzata.
Spero
che la decisione di
Connie di parlarmi non sia stata solo una tantum, ma martedì
e mercoledì passano
senza che accada di nuovo. Avrei potuto sicuramente scavargli dei
solchi nella
nuca con l’intensità dei miei sguardi, ma
ovviamente non se n’è neanche
accorto. Oh be’. Estinguo ogni minimo, stupido briciolo di
speranza con cui mi
stavo aggrappando all’idea che le cose potessero tornare
com’erano un tempo. Diamine.
Quando
mi sveglio mercoledì
riaffiorano i ricordi del viaggio in auto che io, Connie e Sasha
abbiamo fatto
due estati fa. Sono decisamente contento di non avere lezioni oggi. Mi
siedo
con la testa fra le mani, ascoltando il tic-tic-tic
del mio orologio sulla mensola – finché non inizia
a diventare irritante,
cazzo, e faccio volare via quel coso con un colpo della mano. Atterra a
faccia
in giù sul pavimento. Spero proprio di non averlo rotto.
Indosso
un paio di jeans tra
quelli sparsi sul pavimento – e persino io riesco ad
ammettere che la mia
maglietta dei Ramones puzza un
po’ di
stantio, quindi prendo un’altra t-shirt
dall’armadio, alla cieca. Non mi
accorgo, fino a quando non vedo la scritta distesa sul petto, che
è una delle
magliette dell’Università di Trost, di quelle che
hanno certamente visto giorni
migliori. Mamma dovrà farsene una ragione.
Mi stropiccio gli occhi
– per la stanchezza,
ma anche per rendere un po’ più chiare tutte le
immagini che mi scorrono in
testa. E perché mi fa sentire incredibilmente bene. Non vi
capita mai di non
riuscire a smettere di strofinarvi gli occhi? Questa è
masturbazione oculare,
cazzo. Un attimo, probabilmente è una cosa inquietante da
dire…
Raggiungo
il piano di sotto
con passi incerti e mi faccio una tazza di caffè nero, forte, quasi roboticamente; intontito
come sono, ci metto qualche
secondo per realizzare che riesco a sentire distintamente la voce di
mamma,
anche se non riesco effettivamente a vederla. Oh dio, sta facendo la risata.
Mi
avvicino furtivamente alla
porta che dà sul cortile, tenendomi stretta la tazza di
caffè per il bene della
mia sanità mentale. Mia madre mi lancia un rapido sguardo,
adocchiando con
scetticismo il mio aspetto malconcio, e mi osserva mentre scivolo lungo
il muro
della cucina, attaccato alla finestra, nell’ombra proiettata
dalla casa,
evitando come la peste i punti del cortile illuminati dal sole. Sembra
proprio
un puma, stesa su una di quelle sedie reclinabili; i jeans sembrano
praticamente
dipinti sulla sua pelle, mentre la camicetta è fin troppo
scollata perché possa
sperare di guardarla senza farmi sentire il bisogno di lavarmi gli
occhi con la
candeggina per il resto della mia vita. Agguanta un bicchiere di
limonata fra
le unghie appena smaltate di color argento, mescolando delicatamente i
cubetti
di ghiaccio con un ombrellino da cocktail rosa. I suoi occhi sono
puntati su
Marco, immerso fino alle ginocchia nella parte meno profonda della
piscina,
intento a raschiare il fondo con il retino.
Povero,
povero Marco.
“Mamma”, le dico, impassibile.
“Cosa. Stai. Facendo.”
È
una domanda stupida, in
realtà. Vedo perfettamente cosa sta facendo. Sta cercando di
predare il ragazzo
della piscina.
Allontana
immediatamente lo sguardo da Marco per fissarmi
con aria severa, smettendo di mescolare la limonata.
“Marco
mi stava solo raccontando un po’ degli altri
clienti”, dice, con un tono di voce leggermente
più alto di quanto mi
aspettassi, strappandomi una smorfia e facendomi rizzare i capelli sul
collo.
“Dice che fra quelle che pulisce lui, la nostra è
la piscina più bella. E
anche la casa.”
Poi, sottovoce, aggiunge: “E lui non ha le
braccia più belle che abbia mai visto?”
Oh
cielo. Bevo un lungo sorso del mio caffè; mi brucia
la gola, ma mi sforzo di mandarlo giù. Ne ho bisogno.
Mia
madre si raddrizza improvvisamente sulla sdraio, posando
il bicchiere sul tavolino affianco a un altro bicchiere, pieno di
limonata.
“Marcoooo”,
canticchia lei (e io rabbrividisco),
facendo alzare lo sguardo dell’inserviente nella nostra
direzione, le
sopracciglia si sollevano per la sorpresa. “Starai morendo di
caldo lì, sotto
al sole! Vieni a bere qualcosa!”
Marco
– come ho notato l’altro giorno –
è
incredibilmente educato. Ci raggiunge con una breve corsetta senza
pensarci un
attimo, con un sorriso ampio e smagliante a occupargli il volto coperto
di
lentiggini. Man mano che si avvicina, noto che le lentiggini
più vicine agli
occhi sembrano scomparire nelle rughe d’espressione. Mi
chiedo: è solo
eccezionalmente ingenuo, o accetta di essere abbordato dalla mia
disperatissima
madre ultraquarantenne? (Mi vengono i brividi al pensiero.)
I
suoi occhi incrociano i miei per un breve momento
mentre ci raggiunge, ma sfrecciano su qualche altro soggetto con la
stessa
rapidità. Nascondo una risatina con un altro sorso di
caffè. Potrei scommettere
su cosa sta ricordando.
“Ecco
qui, caro”, trilla mia madre, passandogli
cautamente il bicchiere ancora pieno, che lui prende con entrambe le
mani
abbronzate, con aria colma di gratitudine. “Su, bevi! Sembra
che tu stia
facendo un gran lavoraccio
laggiù.”
Beve
un sorso veloce prima di adagiare nuovamente la
limonata sul tavolo.
“Niente
a cui non sia abituato, signora Kirschtein”,
cinguetta lui – cinguetta, cazzo.
“Sono nato a Jinae, laggiù le estati sono ancora
più calde.”
“Oh,
che bello”, mormora mia madre, posando
timidamente il mento nel palmo. “È una bellissima
città, vero? Ci siamo stati
un paio di volte in vacanza, no, Jean? Oh, tu però non la
sopportavi! Non
smettevi di lamentarti del caldo, non so se ricordi!” Ride
come un’oca; anche
Marco inizia a ridere, ma dalla sua risata traspare un chiaro imbarazzo.
“Non
ami particolarmente il caldo, eh, Jean?” aggiunge
Marco, girandosi verso di me con una mano sul fianco. Alzo gli occhi al
cielo,
esasperato, e borbotto: “già, pensavo
l’avessimo già constatato l’altro
giorno.” Non so dire se mi abbia
sentito, perché il telefono inizia a squillare in cucina.
“Scusami
un attimo, Marco” è mia madre a parlare,
mentre si alza in piedi barcollando. Digrigno i denti, ben oltre la
semplice
esasperazione. Penso che sarebbe grandioso sprofondare semplicemente
nel
terreno in questo preciso istante.
Traballa
fino in cucina e presto la sento rispondere
al telefono. Marco si gratta la nuca con aria imbarazzata mentre io
continuo a
guardare fisso nel punto in cui spero che il pavimento si apra per
ingoiarmi per
sempre.
“Tua
madre…è proprio particolare” pronuncia
le parole
con una leggera esitazione. Faccio un verso nasale, divertito, per poi
bere il
resto del caffè. “È sempre
così…gentile?”
Oh
mio dio, ma è un
idiota.
Mi
stringo la radice del naso e non riesco a fare a
meno di ridere sottovoce fra me e me. Con questo ha superato il limite
dell’“eccezionalmente ingenuo” da un
miglio, cazzo.
“Ci
sta provando
con te.”
Mi
guarda per un po’ di tempo a bocca aperta, interdetto.
“O-oh.
Oh. Oh
dio.”
La
sua trasformazione da
proprio-non-capisco-che-intendi fino all’orribile
consapevolezza è un cazzo di
spettacolo incredibile. Continua a passarsi una mano fra i capelli
corti sulla
nuca, prima di guardarmi con aria seriamente preoccupata.
“M-ma
sei sicuro? Pensavo che stesse solo--” si
blocca, sicuramente registrando la mia espressione come una risposta al
suo
divertentissimo panico. “Oh, ma come ho fatto a non
accorgermene…”
Alzo
le spalle, ma non riesco a togliermi quel sorriso
dalla faccia. Questo ragazzo. Questo
ragazzo. È in completo stato di panico, dovreste
vederlo per credermi. Wow.
“L’estate
scorsa non è riuscita a farsi il ragazzo
della piscina prima che mio padre minacciasse di tagliargli le
palle” ridacchio
io, davanti allo sguardo terrificato di Marco. “Probabilmente
dovresti iniziare
a pensare di…evitare di incoraggiarla, ecco.
Tipo…”
Mi
fermo a guardare la faccia di Marco, mentre lui
pende dalle mie labbra, sperando che io sia tanto gentile da offrirgli
delle
perle di saggezza che lo aiutino a evitare le molestie sessuali di mia
madre.
“Tipo…tutta
quella roba dei sorrisi. Magari evita un
po’ di tutta quest’allegria.” Non so
perché scelgo proprio questa fra tante
cose da dire, ma è la prima cosa che mi viene in mente.
Marco sembra arrossire,
le lentiggini sulle guance scompaiono lentamente.
“…E non accettare la limonata
in futuro, okay?”
Annuisce
con decisione, strofinandosi un braccio
timidamente. Apro la bocca per dire qualcos’altro, ma sono
interrotto dalle
urla di mia madre: “Jeeeeean, c’è la
nonna al telefono! Vieni a parlare con
lei!”
Alzo
gli occhi al cielo con aria terribilmente
drammatica e Marco mi rivolge un sorriso sia comprensivo che
riconoscente. Mi
giro verso la porta della cucina, ma gli sorrido guardandolo da sopra
la
spalla: “Buona fortuna. Ne avrai bisogno.”
Parlo
al telefono con mia
nonna per quasi un’ora intera. Be’, quello che
intendo dire è: mia nonna parla con
me per un’ora, e io le offro qualche
vago “sì” e “no”
ogni tanto.
È
la solita roba da nonna: a
scuola tutto bene? Stai studiando molto? Come va con gli amici, tutto a
posto?
L’hai trovata la ragazza?”
“No, nonna” sospiro,
tamburellando le dita sul bancone da cucina
dove sono appoggiato, guardando il linguaggio del corpo di Marco che
rivela
sempre più imbarazzo mentre mia madre continua a flirtare
con lui, nel cortile.
È così agitato che sembra si sia bruciato al sole.
Ce la
sta mettendo tutta per assicurarsi di pulire ogni
singolo frammento di sporcizia da quella piscina.
Finisce
più o meno nello
stesso momento in cui mia nonna molla la sua presa verbale su di me, e
posso
riattaccare il telefono. Mia madre sembra balzare su di lui appena lo
vede
posare il retino, sventolando per aria la sottile bustina bianca mentre
gli
parla animatamente. Guardo la scena pietosa dalla sicurezza
dell’altra parte
della finestra, in cucina, sogghignando con cattiveria.
In
qualche modo, per la grazia
di non so quale Dio misericordioso, Marco riesce a raggiungere
lentamente il
cancello sul retro, stringendosi tutto l’equipaggiamento al
petto come se fosse
una barriera protettiva. Decido di fare il bravo ragazzo e di salvarlo
da
quest’orrore senza fine.
“Ehi,
maaaaaammaaaaaa” grido,
per farla voltare, “Puoi aiutarmi un attimo con una
cosa?”
La
guardo mentre
saluta Marco, e inizia a barcollare
nuovamente nel prato verso di me. Il viso arrossito di Marco si
trasforma
rapidamente in un sorriso riconoscente quando allunga una mano in una
breve
forma di saluto nella mia direzione. Per tutta risposta gli rivolgo un
mezzo
sorriso compiaciuto. Idiota.
Porto
una sigaretta sul tetto come al solito, non
appena il cielo inizia a diventare veramente scuro. Non fa male come
l’ultima
volta, anzi, apprezzo il sapore della nicotina e del fumo, provando
– e
fallendo miseramente – a soffiare qualche anello di fumo.
Gandalf lo fa
sembrare così facile.
La
mia mente torna a lunedì appena aspiro l’aria
più
fresca. Penso a Connie e agli altri. A quella che probabilmente
è e sarà
l’unica conversazione “amichevole solo per fingere
di essere amici” al corso di
matematica.
E
poi, per qualche motivo, questo mi fa pensare a
Marco.
Faccio
un tiro profondo dalla sigaretta. Amichevole
solo per fingere amicizia. Spero che non sia questo il caso. Sembra un
tipo
piuttosto divertente.
Mi
accorgo di essere leggermente impaziente per la
prossima visita di Marco, in fondo.
Note
dell’autrice:
Stavolta
il capitolo è leggermente più lungo! È
ancora
molto introduttivo, dato che sto ancora impostando la scena e i temi
principali
che ho intenzione di approfondire più avanti.
Quello che è successo effettivamente fra Jean ed Eren (che
ha fatto sì che gli
altri iniziassero a ignorarlo) sarà spiegato più
avanti nella storia… ma è
abbastanza importante. È solo che ancora non voglio
rivelarlo.
Ho
scelto I MCR per Marco principalmente perché ormai secondo
tutto il fandom in
generale li adora. Per come immagino Jean, i suoi gusti musicali si
concentrano
sul rock classico anni 70/80 – ecco perché i
Ramones. Penso che abbia una vasta
collezione di dischi.
È
stato un capitolo divertente da scrivere! Spero che
lo sia anche da leggere.
Continuerò a lavorare sodo e sfornare nuovi capitoli!
C’è ancora tanto
divertimento e situazioni imbarazzanti da svelare (incluso Erwin in
slip da
bagno ???), quindi continuate a seguire.