“Secondo te funzioneremmo anche fuori?”.
Ha il coraggio di chiederlo, Zoro, ma non di guardarla negli occhi, che si aprono lentamente, sotto l’aggrottamento delle sopracciglia, diffidenti e sorpresi.
“Si, insomma…” aggiunge, lo sguardo perso a fissare un punto con tale intensità che lei si ritrova a pensare cosa mai ci veda nel vuoto, “…non mi offenderei mica se tu, un domani, ti stancassi…se…se volessi qualcun altro!”.
L’ultima parola è quasi un urlo di rabbia, ma a sconcertarla di più è come possano sorgere certi dubbi ad una persona che fino a pochi istanti prima la stringeva quasi il domani non esistesse. E poi nota la mano che Zoro sfrega sul lenzuolo e quel suo modo di serrare la bocca attorno ai denti, è nervoso. Il silenzio che lo circonda, infatti, solitamente ricercato ed ora estraneo, non lo lascia tranquillo.
Rimangiarsi tutto è forse l’unico rimedio contro il senso di soffocamento che gli asserraglia la gola, ma, mentre tenta di voltarsi, qualcosa lo sospinge verso di lei. Ha appena il tempo di vedere gli arti scomparire che Robin piega il ginocchio verso l’esterno, permettendo al suo bacino di scivolarle lungo le cosce per ricongiungerli in un abbraccio umido e inatteso.
Lì la voce si estingue, muore sotto i baci che ripassano la linea tesa del collo, risorge in un verso roco quando un morso si chiude sul mento.
Robin mugugna, s’inarca felina. Sembra un gatto in cerca d’attenzione e quando la ottiene, le sue labbra assumono una piega strana, indecifrabile che può essere la promessa di un sorriso o di ghigno, del piacere più torbido o dello strazio più acuto.
“Chi dice che sarò io a stancarmi?”. È un soffio sulla bocca.
Zoro la osserva e sa che non sta mentendo, perché il corpo di Robin lo sta supplicando e le suppliche sono sempre sincere.
Le passa, quindi, una mano dietro la schiena per avvicinarla, lo sguardo fisso all’orizzonte dove una linea di luce annuncia il nascere di un nuovo giorno.
È già domani, ma a nessuno dei due sembra importare.
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