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Autore: Rei_    09/04/2015    16 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Il fumo della sigaretta si levava sinuoso nell’aria, diffondendo l'odore di nicotina in tutto lo spiazzo vuoto del tetto del palazzo.
«Si potrà stare qui?» chiese Giorgio, avvicinando la sigaretta alla fiamma accesa che l'amico gli porgeva.
«Non lo so Giò, è il primo giorno, credo che siamo scusati per non saperlo!» rispose Nicolò, tirando una boccata molto lunga e appoggiandosi al muretto con la schiena.
«Dovevo immaginarlo» sorrise pazientemente Giorgio.
Per entrambi era la prima volta in Parlamento, e il fatto di essere entrambi vestiti con camicia rossa e cravatta ornata con lo stemma del partito lasciava intendere quanto il protocollo istituzionale era l'ultimo dei loro problemi.
In realtà, nessuno dei due uomini si era candidato con la seria intenzione di essere eletto. La notte delle elezioni, tutti e due si trovavano alla sede c’entrale di Milano, con il fiato sospeso e il bicchiere in mano, pronti a festeggiare i loro colleghi. Quando la voce del giornalista aveva annunciato che il Fronte per l'Indipendenza aveva eletto a Milano Nicolò Andreani e Giorgio Iannello, si erano subito guardati negli occhi, eccitati e intimoriti allo stesso tempo.
Avevano puntato a fare campagna elettorale sui candidati di spicco della sezione milanese: quelli che erano stati più apprezzati durante la scorsa legislatura e quelli che avevano lavorato di più sul territorio.
Quella di Nicolò e Giorgio era stata solamente una candidatura di servizio per riempire le liste, nulla di più.
Anche se, a dirla tutta, per Nicolò era stata anche un premio. Era dentro quel partito da solo un anno e mezzo, ma fin da subito si era impegnato a testa bassa, aveva fatto tante iniziative, aveva messo tutto il suo cuore in quel progetto. Così, derogando una regola del partito lo avevano candidato e, contro ogni previsione, ce l'aveva fatta.
Il problema era che nessuno dei due si era preparato all'eventualità della propria elezione, sicuri com'erano di non prendere abbastanza preferenze. Per tutto il tragitto in treno si erano interrogati su come se la sarebbero cavata una volta lì dentro. Però, a mano a mano che il treno superava la pianura e scendeva sempre più a sud, avevano iniziato a scambiarsi battute e a guadagnare entusiasmo, capendo che quella era una grande occasione da prendere al balzo.
Giorgio era un veterano uomo di partito. Era entrato in quel mondo da giovanissimo, e aveva passato anni a portare avanti le sue idee, anche quando era rimasto da solo contro tutti. Per Nicolò invece era una sfida, ma le sfide per lui non erano mai state un elemento di preoccupazione.
L'idea di mettersi “in divisa” il primo giorno era venuta a uno di loro, e subito era stata accettata da tutti con entusiasmo. L'effetto era riuscito alla grande, e aveva già fatto il grosso del lavoro di creazione dello spirito di gruppo. Così, quando in riunione il promotore dell'idea si propose come capogruppo, l’elezione avvenne per acclamazione.
I due deputati scesero alla buvette, per festeggiare il loro primo giorno insieme agli altri. Nicolò sentiva dentro un fuoco fortissimo. Lui, che non si era mai interessato alla politica e che a malapena andava a votare prima di allora oggi era lì, e brindava insieme a persone che avevano la sua stessa voglia di lottare.
«Al governo andrà il Nuovo Partito Popolare, sicuro. E Sinistra Democratica gli voterà la fiducia. Stanno facendo patti, lo sanno tutti».
Nicolò ascoltava senza troppo interesse le teorie dell’amico. Odiava le logiche politiche, preferendo la lotta diretta e plateale. Come quando era bambino, che sognava di essere un nativo americano che difendeva la sua terra dagli invasori spagnoli, con l’arco e le frecce, da solo contro le baionette.
Si prese del tempo per uscire di nuovo per fumare in cortile. Era una bella notte, non poteva negarlo, e lui si sentiva bene, ma quella non era veramente casa sua. Dentro di sé sapeva che la politica era solo una passione temporanea, un momento della sua crescita, che poi sarebbe passato. Aveva trentuno anni e aveva viaggiato in diversi posti, lavorando dove capitava, e ogni viaggio gli regalava qualcosa di diverso. Ogni volta che rimetteva piede a casa sua e disfava le valigie sentiva un forte senso di malinconia dentro di sé, una sensazione inesprimibile che riusciva a far tacere solo con un altro viaggio, come se viaggiare fosse l'unica ancora della sua vita, l'unica fonte di novità.
Di sicuro non aveva mai avuto problemi di soldi. I suoi genitori erano soci di una fortunata azienda milanese, ma questo non c’entrava nulla né con le sue idee politiche né con l’indipendenza che si era guadagnato da solo. In effetti, la sua posizione economica non aveva nulla che potesse essere associato all’idea di “proletario”, che tanto era caro ad alcuni membri del suo partito, ma ugualmente era riuscito a guadagnarsi l'affetto e la stima dei suoi compagni.
Già, era stata la politica ad arrivare come un fulmine a ciel sereno nella sua vita, portandolo verso nuove rotte.
All'una di notte, Nicolò e Giorgio solcarono le vie di Roma a bordo di un motorino blu cromato, arrivando in una traversa buia nei pressi di San Giovanni. Il trabiccolo a due ruote era di Nicolò. In qualunque città avesse abitato non si era quasi mai spostato in macchina, neanche per lavoro. La moto era parte integrante della sua libertà, come un cavallo per il cowboy.
Nessuno dei due, quella sera, aveva voglia di disfare le valigie, perciò passarono il tempo nella piccola cucina, a fumare e parlare.
«Che tipo è il nostro capogruppo?»
«Un pazzo, Nico, un pazzo. È de Roma, e ti assicuro che qua sono tutti pazzi. Ho visto come fa alle riunioni. È capace di rimproverarti per mezza parola in più detta a un giornalista, e il momento dopo te lo ritrovi a ballare sul tavolo».
Nicolò si accigliò. Era strano vedere tipi del genere nelle fila del suo partito. Lui era dentro da poco, ma già aveva compreso la sottile logica dietro alcune ferree regole. La prima, più importante, era che non ci si poteva candidare se non dopo cinque anni di militanza nel partito. L’impegno che avevi messo in quegli anni doveva essere anche valutato positivamente dagli altri compagni, che davano il vaglio alla tua candidatura. Così facendo non c’era rischio di avere nelle proprie fila approfittatori o matti.
Solo per Nicolò era stato fatto lo strappo alla regola.
«Non lo so, Giò. Non mi piace com’è fatto. Questa cosa di metterci in divisa… mi aspettavo una cosa meno pacchiana e più combattiva. Insomma, è la prima volta che siamo così tanti in Parlamento, no?»
«Dagli tempo, dagli tempo» sorrise l’amico, «faremo grandi cose in questa legislatura, me lo sento».
E, tra una chiacchiera e l’altra, tirarono mattina.
 
 
*
 
 
«Un’intervista. Non è passata neanche una settimana e già mi chiedono un’intervista»
Thomas Greco sbuffava percorrendo Transatlantico, agitando i ricci biondi come un’anima in pena.
Michele, su suggerimento di Arturo, aveva rimediato dei vestiti nuovi e ora si confondeva elegantemente con gli altri suoi colleghi. Quel giorno aveva addosso un completo grigio con una cravatta rossa fiammante. I capelli corti e scuri erano stati tagliati e pettinati, e al polso spiccava l'orologio che Arturo gli aveva regalato anni fa, per la sua laurea.
Thomas, invece, ogni giorno sfoggiava un nuovo improbabile completo dai colori sgargianti. Ormai Michele si era convinto che quello era il suo strambo modo di mantenere il personaggio, non c’erano altre spiegazioni.
«Oh, Martino» Marcello Pasqui li raggiunse a passi svelti, «ti ho inserito in commissione Affari Costituzionali, d’accordo?»
Michele si guardò intorno, cercando sostegno. Thomas gli ammiccò.
«Tu invece, ovviamente sei agli Esteri» continuò il capogruppo, noncurante della possibile risposta di Michele.
«Ovviamente, compagno.»
I due si scambiarono un mezzo sorriso prima che l’altro se ne andasse.
Michele lanciò un’occhiata dubbiosa a Thomas.
«Pensavo che perlomeno chiedesse…»
«Certo che no! Lui non ha bisogno di chiedere».
 
 
I giorni procedevano speditamente. Il governo venne finalmente formato con l’accordo tra i popolari e SD, e andò a giurare nelle mani del presidente. A tutti i media venne presentato come una grande vittoria, per il solo fatto che l'immagine principale del governo era la premier: Anita de Santis.
Donna del Nuovo Partito Popolare, naturalmente. Una donna di una certa età, che andava bene un po’ a tutti, perché in fondo aveva la fama dell’onestà.
Il giorno della fiducia era cominciato un po' come tutti gli altri. Arturo aveva portato Michele e Thomas a fare colazione in un bar abbastanza mediocre. Lo faceva spesso, ricordando loro che era importante stare in mezzo alla gente comune e sentire ciò che dicevano. L'anziano osservava sempre con attenzione la gente e lo schema era più o meno lo stesso ogni giorno: qualcuno leggeva il giornale, lo gettava in malo modo sul tavolo, poi si produceva in commenti acidi del tipo: «Tutte cazzate!» oppure «non c'è più giustizia in questo Stato!» A quel punto, le persone vicine rispondevano con gesti di approvazione, oppure si univano anche loro ai commenti, ciascuno aumentando l’intensità scurrile rispetto al commento precedente. Arturo di solito ascoltava e basta, con lo sguardo fisso e pensieroso.
«È un metodo stupido» commentava sempre Thomas, «le persone dicono la prima cosa che pensano e spesso si fermano all'opinione più superficiale».
«Proprio per questo vanno ascoltate» ribatteva sempre Arturo, placidamente.
Poi, avevano fatto come ogni giorno la strada a piedi fino a Montecitorio. La mattina presto, a Roma, non c'era in giro nessuno a parte qualche turista, spesso giapponesi riuniti in gruppo, sempre fermi con la bocca aperta e la fotocamera accesa davanti a una chiesa 
o una fontana davanti alle quali i deputati passavano tutti i giorni senza nemmeno guardarle.
Ogni tanto alcuni cittadini fermavano Thomas per una foto. Non tutti sapevano che era un politico, la maggior parte lo riconosceva come uno che stava in TV, ma lui accettava sempre e si metteva in posa con il suo smagliante sorriso.
Nel palazzo, l'aria era carica di elettricità. I giornalisti inseguivano ciascun deputato per il corridoio, chiedendogli un’opinione sul nuovo governo, e a Michele impressionò quanto i deputati evitassero i microfoni come la peste. Thomas gli spiegò il fenomeno dicendo che quelli nuovi avevano paura di sbagliare le parole da dire, e quelli vecchi erano abbastanza esperti per avere un discreto timore dei “mostri della penna”.
«Onorevole! Perché il vostro partito ha ottenuto solo due ministri? Che compromesso c'è stato?»
La domanda che gli arrivò di sorpresa alle spalle riuscì a farlo trasalire. Non se l’aspettava che prendessero di mira lui.
Si girò istintivamente verso Arturo, che gli annuì sorridendo. In un lampo la paura svanì e le parole iniziarono a fluire da sole.
«Noi siamo stati impegnati a formare un governo che possa esprimere le competenze e le volontà giuste per il cambiamento, soprattutto per l'approvazione della Nuova Carta Antifascista... » disse tutto d'un fiato, «le poltrone non ci interessano».
Respirò profondamente, pensando di essersela cavata così. Non fece in tempo a tirare il fiato che però subito un altro giornalista gli avvicinò il secondo microfono.
«Ci risulta che il vostro ministro dell'agricoltura sia indagato per riciclaggio di denaro. Non le sembra una pessima figura affidare proprio a lui quel ministero?»
Se avesse risposto di no, avrebbe voluto dire che approvava quel tipo di comportamento, e a quel punto il titolo-vergogna era bello pronto per i giornali. Doveva aggirare la domanda, in qualche modo.
«Guardi, in questo momento ci interessa avere un governo che funzioni. Le indagini faranno il loro corso, ma il problema giudiziario non è in questo momento un problema politico».
 
Si era fatto prendere dal panico. Le mani gli sudavano, il cuore aveva automaticamente accelerato, tanto che era quasi sicuro che si potessero sentire i battiti attraverso quel microfono e, più gli imponeva di rallentare, più sembrava di non volerne sapere.
Eppure la risposta, inaspettatamente, sembrò placare i giornalisti, che lo liberarono dall'ingombro dei microfoni.
Michele riprese a respirare. Si voltò verso Arturo, che lo stava osservando da lontano, sorridendo.
«Niente male, ragazzino!» commentò Thomas, battendogli una sonora pacca sulla spalla.
 
 
L’aula di Montecitorio era gremita per il voto di fiducia.
Dalle tribune si sentivano continuamente partire raffiche di click quando entrava un deputato importante, ma per il resto dello spazio non volava una mosca.
Michele appuntò sulla sua agenda tutto l'intervento della De Santis, cosa non molto semplice, perché la parlata era tutt'altro che spedita.
«Guarda come se la ridono quelli» Thomas indicò i banchi del Nuovo Partito Popolare, «tutti i ministeri chiave sono loro. Scommetto che Marchesi gli ha promesso di tutto pur di farci andare al governo».
«Ne sei sicuro?» chiese Michele. Non poteva credere che avrebbero dovuto sottostare completamente al programma di quel partito di stampo conservatore, molto distante dai loro ideali.
«Vedrai quando inizieranno ad arrivare le proposte di legge. Ci sarà da ridere, se non da piangere».
Restarono a discutere, coinvolgendo anche i colleghi a fianco, finché Goffredo, il presidente del partito, si voltò. A quel punto Arturo impose il silenzio con un gesto secco della mano e tutti si ammutolirono all’istante.
Per Michele era impressionante vedere quanto quell’uomo godeva di un rispetto fortissimo all’interno di Sinistra Democratica. Non sapeva tantissimo sulla sua storia, almeno non più di quello che sapevano anche gli altri, perché Arturo era sempre stato riservato. Sapeva che 
da parlamentare aveva condotto una grande lotta contro la mafia, scrivendo delle leggi insieme ai magistrati e alle vittime delle stragi. Poi però il PCI si era sciolto, lui si era candidato per la segreteria della neonata Sinistra Democratica e, dopo aver perso, si era ritirato dalla vita politica finché non aveva conosciuto Michele.
Gli interventi da parte dei gruppi parlamentari si susseguivano velocemente. Michele cercava di appuntare tutto, Thomas invece parlava in continuazione con chiunque gli desse corda.
«Chiede la parola il deputato Nicolò Andreani per il Fronte per l'Indipendenza. Ne ha facoltà» annunciò ad un certo punto il presidente della Camera.
«Non è un altro il capogruppo del Fronte? Un certo Chiarelli?» chiese Michele, ricordandosi di aver visto recentemente sul giornale la foto di un uomo con le folte sopracciglia e i capelli a caschetto. Già dalla faccia quell'uomo gli era sembrato uno strambo, quasi quanto Thomas.
«Sì, ma all'ultimo momento hanno deciso di far parlare questo. Dicono in giro che sia uno che ha fatto tanti comizi a Milano e che si è preso qualche decina di migliaia di preferenze» rispose Thomas, senza nascondere una certa invidia.
L’intervento di Andreani non assomigliava per niente a quelli degli altri deputati. Anzi, non assomigliava nemmeno ad un qualsiasi intervento mai pronunciato da un politico. Le sue parole rompevano gli schemi della formalità con una sicurezza disarmante. Era evidente che quell’uomo era abituato a fare comizi in piazza.
«Dunque, la presidente De Santis farà sicuramente meglio perché è donna, dicono i popolari. È molto bello vedere che i centristi rivalutano le donne, dopo averle volute per anni in casa a figliare». Tutto il gruppo di Andreani rise ed applaudì. Il resto dell'aula era chiuso in un silenzio imbarazzante, e anche i deputati vicino a Michele si guardavano perplessi.
«Ma i nostri migliori auguri vanno al ministro dell'agricoltura! Dov'è? Ah, eccolo! Buongiorno!» Andreani salutò con la mano il ministro, il quale fece però finta di non vederlo, «per fortuna che almeno c'è un ministro di sinistra in questo governo! Ah, in effetti è 
indagato per riciclaggio. Sembrerebbe che tra le fila di SD non ne hanno trovato uno senza un processo in corso».
Scattarono altri applausi da parte del Fronte. Qualcuno di Sinistra Democratica si alzò per fischiare, ma Pasqui riuscì velocemente a farlo tacere.
Michele sentiva il cuore battere forte, incerto se fosse per l'indignazione o per l'imbarazzo di sentire parole così forti e così arroganti in quello che lui aveva sempre considerato il tempio della democrazia. Cercò subito con gli occhi l'autore di quell'intervento e vide un uomo in piedi, con giacca nera e camicia rossa, circa tre file più in basso a sinistra di lui. La pelle era leggermente scura, i capelli castani erano raccolti in una specie di codino. Tra le mani teneva dei fogli che in realtà non sembrava neanche stesse leggendo, muovendoli da una parte all'altra con una mano, mentre con l'altra gesticolava rivolto verso la presidenza.
«Il nostro, quindi, è di sicuro un no alla fiducia a questo governo. Non aspettatevi però che ci fermeremo e che vi permetteremo di danneggiare questo Paese con le vostre leggi scellerate. Auguri, soprattutto per i vostri processi in corso.»
Finito l'intervento ci fu un’ovazione da parte del Fronte. Una macchia di giacche nere e camicie rosse si alzò in piedi, applaudendo per un bel po' di tempo, sotto gli occhi sprezzanti dell’aula.
Michele aveva notato Pasqui continuare a scrivere di getto durante quell’intervento, in preda ad una rabbia compulsiva. Arturo, invece, mostrava una certa preoccupazione nel viso scavato nelle rughe, ma non diceva niente.
Subito dopo toccò proprio a Pasqui parlare. Il suo intervento era abbastanza prevedibile: complimenti alla De Santis, difesa del programma di governo, e un attacco a volto scoperto al deputato che aveva appena parlato.
«Trovo disdicevole, parlo a nome del mio gruppo, che si usi quest'aula del Parlamento come un mercato del pesce, dove si urla e la si spara grossa. Pregherei al deputato Andreani di tornare a fare comizi nelle piazze. Questo è un posto per gente seria, non per buffoni».

Applaudì tutto il gruppo. Thomas si alzò addirittura in piedi. Dai banchi del Fronte si levarono fischi, ma ormai la discussione era chiusa. La fiducia venne approvata con 427 voti.
 
 
*
 
 
Ci furono abbracci, pacche e strette di mano. Chiarelli, il capogruppo del Fronte, ci mise un bel po' a riuscire a separare Nicolò dalla comitiva di onorevoli che lo stavano per portare in trionfo, esaltati dall’energia trasmessa da quell’intervento.
«Ti ringrazio per aver accettato di parlare al posto mio. Sai, alla scorsa legislatura non ho mai parlato tanto, avevo paura di non fare un intervento efficace. Tu invece sei bravissimo, li hai lasciati tutti a bocca aperta, avresti dovuto vedere le loro facce...»
Nicolò si stupì per quel riconoscimento. Non gli stava molto simpatico il capogruppo, ma rispose al sorriso e gli strinse la mano. Quello era sempre stato il suo modo di fare, ovunque si trovasse.
Così era diventato qualcuno: regalando una buona parola a tutti.
«Ti ringrazio io per avermi fatto parlare. Sei certamente un capogruppo molto capace. Dovremmo agire sempre con questo spirito di unità».
A fine serata, Nicolò prese la via di casa con il suo nuovo motorino. Passò per via Cavour, osservando i turisti che passeggiavano per la città senza una meta. Poi costeggiò Santa Maria Maggiore e percorse tutta via Merulana fino al suo appartamento a San Giovanni.
Restò ad osservare a lungo il tramonto dal balcone. La città non gli piaceva così tanto, anzi, Forse era una delle peggiori nella quale era finito, per la confusione e la sporcizia. Eppure, in qualche modo, quelle guglie irregolari che tagliavano il tramonto stavano iniziando a dargli un senso di serenità.
Per ora sarebbe stato quello il suo posto.


 
   
 
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