Si chiamava
Andreas, aveva settantantasei anni e abitava a Villafiorita da venti.
“Villafiorita”, lo si sentiva borbottare spesso, “che nome idiota per un manicomio”. Poi scuoteva la testa, lentamente. E tirava fuori le sue carte. Le carte da gioco di Andreas erano una leggenda ormai, nei corridoi della casa di cura. Venivano osservate con rispetto, quasi con timore. Non si sapeva esattamente da dove venissero nè chi, maldestramente, avesse versato un liquido rossastro sul lato superiore dell'asso di bastoni. Il mistero della loro presenza era strettamente legato a quell'omino pallido e malinconico che, tanti anni prima si era presentato alla casa di cura con una misera valigia marrone.
"Sono pazzo", aveva detto, "lasciatemi vivere qui".
Era una giornata tempestosa e lo scroscio di un tuono aveva coperto un sussurro che, come lacrime, si era disperso nella pioggia.
"Per favore"
Ma lui non
ci giocava, con le sue carte, lui costruiva castelli.
Delicate
creature sottili, effimere, ma al tempo stesso grandiose nella loro
vulnerabilità.
Sedeva ad
un tavolo, sempre diverso, tirava fuori le carte, le mescolava
con cura ed iniziava ad inseguire il suo sogno di carta plastificata.
Andreas
viveva a Villafiorita da vent’anni. Non aveva mai finito un
castello.
Non
per colpa sua, ovvio. Egli svolgeva il suo lavoro con la
serietà di uno
scolaro e la mano ferma di un chirurgo. Ne costruiva uno al giorno,
“Se
ne fai di più non vale”, diceva spesso,
“a volte è importante darsi
delle regole. E’ una cosa che agli uomini ormai non interessa
più.
Disciplinarsi”
Costruire
una qualcosa di delicato come un castello di carte in un manicomio non
è certo
la cosa più semplice del mondo. C’era sempre
qualcuno che urtava il
tavolo, che apriva improvvisamente una finestra o che,
intenzionalmente, lo colpiva per evitare che la sua delicata operazione
arrivasse a compimento. Ma lui non si arrabbiava, anzi, osservava
crollare la sua creatura con un misto di ammirazione e rispetto.
“Un
castello che crolla è qualcosa di bellissimo”, mi
aveva detto un
pomeriggio di Marzo, “ma lo senti il rumore? Quasi un
sussurro, una
sinfonia dolce, una ninna-nanna. Io vorrei morire proprio
così.
Afflosciarmi dolcemente come un castello di carte”, poi aveva
sorriso e
non era più tornato sul discorso.
Tutti, a
Villafiorita, sapevamo che prima o poi sarebbe successo.
Erano le
due del pomeriggio del quindici Dicembre.
Andreas aveva preso le carte e si era seduto ad un tavolo della grande
cucina del manicomio. Erano lì, lui ed il suo castello cha
nasceva pian
piano. Quando ad un certo punto era accaduto. Andreas si era guardato
intorno, spaesato, per un attimo. E le carte erano finite. In mano
aveva un Re ed una Regina, entrambi di cuori. Aveva aspettato un
attimo, trepidante, nell’attesa che succedesse qualcosa.
Perché qualcosa deve succedere.
Forse
qualcuno avrebbe aperto una finestra, urtato il tavolo.
Perché qui?
Forse un
salvifico colpo di tosse avrebbe fatto crollare quella costruzione
delicata ed incompleta.
Perché adesso?
Ma
non era accaduto nulla di tutto ciò. Nella cucina regnavano
pace
e
silenzio. Se qualcuno fosse stato lì, in quel momento, non
avrebbe
capito quello che stava accadendo. Villafiorita aveva taciuto quasi
d’un colpo, e per un attimo era sembrato quasi che il vento,
quel
vento ostile che più di una volta aveva fatto crollare i
castelli di Andreas,
trattenesse il fiato nell’attesa della prossima mossa. Aveva
preso in
mano le due carte e le aveva osservate a lungo, poi le aveva avvicinate
alle bocca sussurrando loro qualcosa. Il segreto rimase ad aleggiare
per sempre tra le pentole ed i fornelli della cucina di Villafiorita,
per sempre condiviso tra un uomo e due carte da gioco che, con mani
tremanti, furono poste in cima al precario castello che Andreas
osservava con occhi sognanti.
La sua creatura.
La sua croce.
La sua delizia.
Era
lì, adesso, davanti ai suoi occhi. Magnifica e transitoria.
Una gioia
fuggevole. Un raggio di sole in una fredda mattinata di Gennaio, quando
alzi lo sguardo e pensi che anche questa vita, nonostante tutto, vale
la pena di essere vissuta.
La
prima ad accorgersene fu un’ infermiera in evidente
sovrappeso. Urlò
qualcosa che Andreas non capì e poi si precipitò
all’interno della
cucina. Lo spostamento d’aria fu notevole ma il castello non
vacillò
nemmeno. Rimaneva lì, splendidamente eretto, facendo della
sua
debolezza un vanto, sfidando con audacia l’aria ostile
attorno a lui.
Ovunque risuonavano frasi che Andreas non riusciva a captare nella loro
interezza:
“Il
castello…”
“…carte
è…”
“…finito.”
Finito.
Finito.
Finito.
Andreas si rese conto solo in quel momento che stava trattenendo il fiato, sospirò.
E il castello crollò.
Rimase
ad osservare fino all’ultimo le carte che cadevano in un
fruscio, le
guardò mentre si accatastavano l’una
sull’altra creando un cumulo di
macerie colorate. Osservò tutto con un sorriso triste. Poi
si alzò ed
in silenzio se ne andò.
La mattina dopo Andreas giaceva senza vita sul letto della sua stanza. I medici dissero che si era trattato di un overdose di sonniferi, trafugati probabilmente da una delle tre infermerie della clinica. Si cercò a lungo un responsabile fra le mura di Villafiorita, poi si giunse alla conclusione che l’apertura di un’inchiesta avrebbe portato solo inutili clamori e una pessima pubblicità e si preferì il silenzio. Andreas se ne era andato come aveva sempre desiderato: era scivolato lentamente nell’oblio; si era afflosciato, dolcemente, come un castello di carte.