Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: dimest    13/04/2015    2 recensioni
Viviamo in un’era in cui non esistono mostri, dove la democrazia e la Repubblica sono state spazzate via da un’economia liberista e la nostra quotidianità è stata posseduta dall’etica del lavoro: se non lavori, non puoi considerarti parte di questa società.
Per chi vive in questo Paese, non c’è via di fuga. Non c’è libertà di parola, non c’è libertà di stampa; ogni informazione è boicottata da questi Titani dello Stato e la gente ne ha paura. Una fottuta paura.
La libertà che crediamo di possedere è solo un'illusione; viviamo nella mera convinzione che le nostre decisioni possano influenzare il nostro futuro.
Da qualche tempo però la speranza si sta ridestando in tutti noi. Questo è possibile solo grazie a chi non si è piegato di fronte alla terribile realtà di cui siamo vittime, loro che combattono contro questi Titani dell’economia; loro che si fanno chiamare “jiyu no tsubasa”, le “ali della libertà”.
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Pov Eren. Coppia: LevixEren
Genere: Angst, Azione, Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 02

 

Alla fine fui arrestato assieme a Mikasa ed Armin. Nulla che valga la pena essere raccontato con particolare enfasi; gli agenti ci avevano portato in centrale per interrogarci e quando verificarono che (effettivamente) eravamo studenti cui sarebbe stato impossibile compiere qualsiasi atto di tale intensità, i quali si erano avvicinati al luogo dell’esplosione solo per mera curiosità, ci rilasciarono immediatamente dopo svariate parole di rimprovero.
La scuola, invece, fu più inflessibile: ci sospesero per una settimana circa da tutte le attività a causa della fuga dall’istituto senza permesso scritto, in un momento di panico generale. Si aspettavano che gli studenti rimanessero calmi e pronti a rincuorare chi si era fatto prendere dall’ansia. Ovviamente giocava a nostro svantaggio di non aver parenti stretti alle dipendenze della fabbrica, altrimenti la pena sarebbe stata poche ore di punizione. Gli insegnanti si fingevano in parte delusi, la regola imponeva loro di essere severi con chi non si atteneva alle leggi della società nonostante si fossero anch’essi lasciati vincere dalla curiosità o dalla vigliaccheria; erano pur sempre umani e come tali erano incapaci di distinguere totalmente la figura dell’insegnante da uomo comune.
Armin e Mikasa, tuttavia, non mi accusarono di niente sebbene fossi io l’unico colpevole dei loro guai. D’altronde nemmeno io mi scusai: non trovavo le parole adeguate e l’imbarazzo mi chiudeva la gola; se non fossi stato così esageratamente entusiasta all’idea di poter assistere all’azione degli Jiyu no Tsubasa, di certo non avremmo avuto tutti questi grattacapi. 
Non che a qualcuno potesse importare: l’unica persona a me rimasta, dopo la sparizione di mio padre, è Mikasa, Armin invece convive con il nonno, un uomo talmente fiero del nipote da tralasciare quella serie spiacevole di eventi.
In questi giorni di sospensione, in cui dovremmo meditare sulle nostre sconsiderate azioni, mi siedo di fronte al computer alla ricerca di quante più informazioni possibili inerenti all’attentato.
I notiziari non hanno fatto altro che trasmettere immagini di parenti in lacrime mentre abbracciano i resti dei propri cari dal giorno dell’accaduto. Ricordo di aver visto l’immagine di una donna stringere al petto il braccio mutilato del figlio, il viso rigato di lacrime e l’espressione furiosa rivolta alla telecamera; eppure, sebbene la notizia usasse il suo sguardo come propaganda di accusa alla Ribellione, io avevo avuto l’impressione che tutto il suo odio fosse indirizzato allo Stato in generale.
La stampa liquidava il tutto compiangendo la scomparsa dell’illustre funzionario, evidenziandola rispetto al problema dei disoccupati, dei morti e feriti dell’azienda, esagerando la tragedia e rendendola più grave di quello che in realtà fosse. Anche i giornali equiparavano l’attentato della Ribellione ad una strage di poveri ed innocenti cittadini per le ragioni più stupide: cercavano di attirare l’attenzione della gente su questioni che li riguardavano da vicino, ma le vicende in cui si supponevano essere svolti i fatti non erano coerenti con la verità.
Ma l’esagerazione della tragedia non fu l’unico fattore per il quale la gente non incominciò ad odiare la Ribellione: pochi giorni dopo era stato fatto circolare un volantino in cui era riportato che il funzionario era un uomo di politica corrotto che viveva nel lusso sfrenato e che aveva appena rilevato l’azienda per tornaconto di qualche importante economista; nessun cittadino fu felice nell’apprendere questo fatto. In allegato vi erano anche delle scuse per tutte le vittime ed il dolore causato seguite dalla una quanto vaga spiegazione: avevano appiccato l’esplosione nell’ufficio dove si era tenuta la compravendita, ma l’incendio scaturito aveva danneggiato importanti cavi elettrici che influivano sulla catena di montaggio; i macchinari si erano arrestati di colpo e i più sensibili avevano ceduto, esplodendo a loro volta e coinvolgendo la struttura.
Dalla scuola, dunque, potemmo solo sentire il rumore creato dallo scoppio dei macchinari; anche se avessi noleggiato una bicicletta, dubito sarei riuscito a vedere qualche membro della Ribellione. La cosa mi sollevava da una parte e mi demoralizzava dall’altra: ero contento che non fosse stata loro spontanea volontà appiccare l’incendio che aveva coinvolto degli innocenti, ma ero deluso di non essere riuscito a prendere parte all’atto e, finalmente, entrare a far parte del gruppo delle “Ali della libertà”.
Volevo combattere anch’io, il mio spirito di adolescente fremeva per questo, desideravo ardentemente l’ondata di rivoluzione che avrebbe sconvolto il nostro piccolo mondo, portandoci ad un futuro migliore.
< Eren è pronta la colazione. > m’informa Mikasa entrando nella camera senza premunirsi di bussare.
< Mikasa! Quante volte ti devo dire di bussare? > strillo, alzandomi in piedi ed afferrando il primo paio di pantaloni che mi capita sotto mano.
< Hai di nuovo fatto nottata? > domanda lei per nulla imbarazzata nel vedermi con indosso solo l’intimo.
Grugnisco di disappunto. Ci sono cose immagino non cambieranno mai, Rivoluzioni o no; la sua estenuante preoccupazione nei miei confronti temo non se ne andrà nemmeno nel caso mi sposassi. La mia risposta non deve esserle bastata perché continuo a sentire il suo sguardo addosso mentre inciampo nei vestiti sporchi e nei fogli sparsi a terra; che rimanga ferma sullo stipite della porta nell’attesa di una parola o per il semplice divertimento di vedermi alle prese con il mio disordine, non mi sarà mai ben chiaro, e non m’interessa saperlo.
Finalmente fuori dalla palude che comunemente è denominata stanza, supero Mikasa senza degnarla di uno sguardo e mi appresto a raggiungere le scale.
< Eren? >
Mi blocco al limitare della rampa, mi volto per fronteggiarla, nella voce c’è una tonalità d’irritazione che non riesco a nascondere. < Che c’è? >
Lei solleva la sciarpa sul ponte del naso – la indossa fin da quando gliela regalai alla tenera età di cinque anni, dopo la morte dei suoi genitori, ancora mi chiedo come possa quel vecchio straccetto rosso aver resistito a tutte le intemperie del tempo – evita il mio sguardo per qualche secondo, poi mi fissa nuovamente negli occhi, sulle gote una leggera sfumatura rosata.
< Puzzi un po’. >

 


L’espulsione è terminata oggi e siamo stati costretti a rientrare a scuola. Come mi aspettavo, ogni professore che incrociamo nei corridoi non perde occasione per rammentarci il nostro indecoroso comportamento, a me rifilano qualche commento in più a causa della mia testa calda. Non posso dare torto a nessuno di loro: hanno ragione e basta, fingo non m’importi, e dopo un po’ smetto di prestare loro attenzione, anche se è stata un’impresa trattenere Mikasa dal ribattere.
In classe i compagni ci chiedono se abbiamo assistito all’azione degli Jiyu no Tsubasa o se li abbiamo incrociati per strada nella loro fuga, cosa ci hanno detto i poliziotti e com’era la centrale in cui ci avevano scortati; ci fanno domande anche sull’espulsione. Grazie al cielo Jean se ne esce con una delle sue solite borbottate pungenti, così ho una valida scusa per litigare e scaricare una gran parte di questa insopportabile frustrazione.

Nel pomeriggio ci aspettano dei compiti di punizione. Motivo? “Migliorano la condotta” hanno detto.
Dannati adulti.
Decido di fregarmene, Mikasa non ne è contenta, ma non fa nulla per fermarmi quando mi vede uscire da casa. Sa che ho bisogno di fare una passeggiata in momenti come questi, e anche se vorrebbe accompagnarmi, questa volta sceglie di lasciarmi solo. Le sono grato di tale comprensione.

In stazione sono poche le persone ad attendere il treno, e sono solo io a scendere nella città più vicina, gli altri passeggeri sono perlopiù operai alcuni dei quali scenderanno dal treno solo domattina, quando riprenderanno il turno di lavoro. Di questi tempi è facile trovare senzatetto nelle strade: molti preferiscono risparmiare il loro poco salario per acquistare poi una vera casa. Gli affitti costano troppo.

Basta passeggiare un poco e mi ritrovo già fuori dalla cittadina. I prati tutt’attorno mi regalano una fastidiosa sensazione di nostalgia che mi riscalda l’animo. Mia madre adorava portarmi qui in estate: amava i fiori ed il mio sorriso quando gliene portavo un mazzo, così diceva. Di quell’infanzia spensierata mi è rimasto solo il triste ricordo, la realtà è talmente diversa da fare male.
Mi siedo nello stesso luogo in cui soleva sedersi lei, la visuale inizia ad annebbiarsi e mi lascio travolgere dalle immagini di quei giorni lontani. Il paesaggio invernale aiuta a fondersi nell’illusione, il terreno arido e freddo rispecchia il me di adesso, in estate mi è impossibile farlo perché ripenso mia madre. La vedo attendermi tra le spighe di grano, un sorriso dolce ad illuminarle il viso mentre mi chiama a sé con la mano; e l’illusione lascia una malinconia tale da non rendere possibile far chiarezza tra i miei affollati pensieri.
Il cielo plumbeo prospetta pioggia e non so cosa mi spinga ad urlare a pieni polmoni. Stanchezza, frustrazione, dolore… Penso sia un misto di tutto questo.
< Smettila di urlare moccioso. > borbotta una voce maschile alle mie spalle.
M’irrigidisco di colpo e il mio viso si fa paonazzo per la vergogna. Non avevo visto arrivare nessuno, da dove diavolo sarà spuntato fuori?
Mi volto, già pronto a lagnare una serie di giustificazioni e scuse, ma la voce mi muore in gola non appena riconosco l’uomo di fronte a me e tutto l’imbarazzo sparisce di colpo.
< Senti chi parla. > bisbiglio e mi siedo nuovamente sul terreno ghiacciato.
Qualcosa lo urta nel mio atteggiamento e me ne accorgo solo grazie al calcio che mi riserva al braccio.
< Porta rispetto alle persone più grandi di te, un giorno di questi potresti ritrovarti senza l’uso di un arto se rispondi in questa maniera alle persone sbagliate. > espira quello, per nulla risentito dal colpo mortale inflittomi.

Mi stringo forte il braccio al petto: il colpo è stato così violento da indolenzire tutto dalla spalla in giù. Prendo fiato, grugnisco, le ossa mi sembrano come se si fossero spezzate, ma è solo una sensazione data dai nervi lesi perché riesco a muovere la mano. Mi rimarrà sicuramente un livido e continuerò a sentire il braccio intorpidito ancore per qualche giorno. Lo vedo allontanarsi e la rabbia prevale sul dolore. Artiglio il terreno, mi rialzo in piedi a fatica, il pugno levato in aria pronto ad assestarglielo in pieno viso e… non so come mi ritrovo a terra. Ora mi fa male ovunque.
< Nessuno ti ha mai insegnato che colpire da dietro le spalle è segno di vigliaccheria? Inoltre, ti consiglio di scegliere con più attenzione il tuo avversario la prossima volta, moccioso. > pronuncia l’uomo con indifferenza, proseguendo poi per la sua strada, passandomi a fianco come se non fosse accaduto nulla.

Mi sento sconfitto e umiliato e la rabbia è l’unica cosa che mi infiamma le vene. Ogni movimento reca una scossa di fastidio e non riesco a fare nulla se non starmene sdraiato a pancia in su, ringhiando l’ennesimo insulto. Ho sete di rivincita e farò di tutto per ottenerla.

 

Nei giorni seguenti all’accaduto ha piovuto; sarebbe stato davvero sciocco da parte mia buscarmi il raffreddore, quindi ho deciso di allenarmi seguendo vari tutorial in giro per internet nell’attesa che il tempo migliori. Mikasa da quel giorno ha preso a seguirmi ovunque, preoccupata che fossi oggetto di bullismo. Quella sera, appena misi piede in casa, mi sommerse di domande ed evitate in ogni modo possibile: il mio ego si rifiutava di esplicarle i fatti nudi e crudi, così la sua mente ha elaborato una propria teoria.

Il primo giorno di sole, esco da casa in gran fretta, lasciando un biglietto a Mikasa (in quel momento fuori a fare commissioni) in cui le dico dove vado. Spero non le venga la brillante idea di venirmi a cercare, non la voglio tra i piedi mentre combatto. Nel tragitto penso ad una serie di frasi ad effetto da dire non appena l’avrò atterrato mentre un sorriso beffardo mi increspa le labbra.

Mi adagio nello stesso punto della volta scorsa ed aspetto ansiosamente il suo arrivo, ma dopo un’ora di attesa finisco per addormentarmi. Non è la prima volta che accade, succede abbastanza spesso in realtà, in più oggi il sole regala un piacevole tepore che, nonostante il clima rigido, ti rilassa. All’improvviso una botta alla spalla mi sveglia, scatto in piedi guardandomi attorno con sguardo perso.
< Se vuoi morire fallo dove nessuno può vederti almeno. Eviti di peggiorarmi la giornata. > conosco questa voce e il suo tono serioso.
Infatti mi basta un attimo per mettere a fuoco due iridi fredde poco lontane dal viso.
< Tu! > gli urlo puntandogli contro il dito. < Sei impazzito? Non lo sai che svegliare una persona in questo modo può esserle fatale? > gli domando irritato.
< E a te non hanno mai detto che dormire con questo freddo può essere di gran lunga peggiore dell’essere svegliato a calci in culo? > chiede lui, con lo stesso sguardo vacuo.
Tutto di lui mi irrita, non c’è una singola parte in lui che riesca a sopportare: dal tono serio e canzonatorio alla capigliatura rasata sulla nuca con ciuffi neri ad incorniciargli il volto austero, dall’atteggiamento arrogante e cinico fino alle splendide iridi di ghiaccio… Aspetta… Che?
Scuoto la testa energicamente al solo scopo di schiarirmi le idee. Infine gli sferro un pugno in pieno viso che… non va a segno. Il nanerottolo si è spostato abbastanza velocemente da riuscire ad evitarlo, ma non mi faccio scoraggiare. Cerco di assestargli altri colpi, nessuno dei quali sembra colpirlo. Lui para ogni mia mossa con una maestria tale da rendermi folle. Inizio a non pensare ai colpi, tiro a caso e la mia furia non fa altro che indebolirmi. È facile atterrarmi ora e non serve molto affinché io mi ritrovi con il sedere a terra. Ho il fiatone, sono arrabbiato e testardo; così mi rialzo e parto nuovamente alla carica. Ci vogliono altre tre poderose cadute per farmi desistere. Non mi è rimasto un briciolo di forza comunque.
< Non male, te lo concedo, ma sei fin troppo avventato e questo ti penalizza. >
Lo guardo di sbieco, lui mi fissa, credo di aver visto un bagliore di divertimento mentre lottavamo, non ne sono completamente certo, così mi do dello stupido ed accantono il pensiero. Lui si siede al mio fianco, faccio lo stesso dopo aver ripreso un minimo di fiato.
< Come ti chiami? > gli domando calcolando il battito del mio cuore.
< E il tuo? > chiede lui di rimando.
< Le persone non ti hanno mai detto che non si risponde ad una domanda con un’altra domanda? >
< Non fare il saccente ora, moccioso. >

Restiamo in silenzio per quella che mi pare un’eternità. Il sole è ormai basso all’orizzonte; Mikasa sarà di certo tornata e sarà sicuramente impazzita dopo aver letto quel biglietto.
Sospiro. Tenterò di farmi perdonare cucinandole il curry, il suo piatto preferito.
< … Levi. > pronuncia finalmente l’uomo alla mia destra.
< Levi. Tutto qui? > sono confuso; solitamente ad un nome segue un cognome o viceversa.
< Fattelo bastare ragazzino. >
Soppeso la risposta prima di rivelargli il mio nome. Gli chiedo se è disposto ad allenarmi e lui mi risponde con un “vedremo” talmente secco da irritarmi. Si alza improvvisamente, io con lui; il sole è tramontato e dopo il sonnellino di oggi pomeriggio, meglio non restare troppo al freddo. Tremo appena e lui se ne accorge di sicuro perché mi consiglia di andarmene a casa a farmi un bagno bollente. Come se già non lo sapessi.

Ci separiamo così, con quel “a domani” silenzioso sospeso in aria.

   
 
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