Anime & Manga > Haikyu!!
Segui la storia  |       
Autore: Ode To Joy    18/04/2015    7 recensioni
REWRITING in Progress
[Kageyama x Hinata]
[Iwaizumi x Oikawa]
[Daichi x Suga]
"Ti racconto una cosa: quando un corvo riesce a trovare il proprio compagno gli rimane accanto per tutta la vita."
In un mondo la cui storia è scritta da continui giochi di potere tra principi e re, due regni continuano a scontrarsi senza che vi sia mai un vincitore.
"C'è una lezione che non devi mai dimenticare: un Re che decide di combattere da solo, è un Re sconfitto in partenza."
In un mondo in cui si può solo perdere o vincere tutto, alle volte è utile ricordare che anche il più grande avversario può divenire il più forte degli alleati.
"Alla fine, il Re più potente è sempre quello con a fianco più compagni disposti a seguirlo fino alla fine."
[Medieval+Fantasy -AU]
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Koushi Sugawara, Shouyou Hinata, Tobio Kageyama, Tooru Oikawa
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'The Raven Crown '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

3
Di mostri e destino




Wakatoshi di Shiratorizawa era stato incoronato l’estate precedente, il giorno del suo quattordicesimo compleanno, dopo aver consegnato al suo esercito la testa dell’ultimo Signore del Nord che aveva osato minacciare i suoi confini.

Quell’impresa gli era valsa l’assoluta lealtà del suo esercito e del suo popolo, oltre al rispetto di tutti i Regni Liberi. 

Quel fanciullo, poco più di un bambino, era spuntato fuori dal nulla e aveva costretto il mondo intero a guardarlo. 

Era cosa risaputa che la corte di Shiratorizawa fosse il nido di prodigiosi guerrieri e Principi destinati a scrivere la storia, ma Wakatoshi era qualcosa di più.

Hajime non era nella posizione di capire che cosa fosse, ma Tooru sì.




 

“Siete bravo con gli scacchi,” commentò Wakatoshi.

La prima conversazione di un futuro Re e di uno incoronato da poche settimane non poteva che svolgersi di fronte a un campo di battaglia - seppur per gioco.

Tooru scrollò le spalle. Sorrideva con fare sicuro, per nulla intimidito dalla presenza di un sovrano così giovane e già così famoso. “Un addestramento militare in scala ridotta, nulla di più. È un modo per abituare la nostra mente a creare strategie vincenti.”

Wakatoshi lo fissò a lungo, prima di fare la sua mossa. “Non ci avevo mai pensato.”

Tooru inarcò un sopracciglio. “Davvero?” Suonò un poco derisorio.

Il giovane Re se ne accorse, ma si prese il suo tempo per replicare. Aspettò che il più giovane facesse la sua pedina e parlò: “una scacchiera non può prepararti ad un campo di battaglia.” 

“Giusto, voi ne sapete qualcosa, vero?”

Tooru decise d’indagare un po’ sotto la superficie. No, non era interessato a quel fanciullo nel modo in cui il consiglio avrebbe voluto, ma questo non significava che non fosse curioso. Il resto del mondo gli era stato precluso per tanto tempo, e Wakatoshi di Shiratorizawa era una finestra da cui non aveva mai sbirciato.

Il giovane Re non rispose.

Tooru non si sarebbe arreso tanto facilmente. “So cosa dicono le storie su di voi,” aggiunse, con una luce curiosa a rendere i suoi occhi più vivaci. 

“Volete sapere se siano vere, immagino.”

“No, per quello mi basta guardarvi.” 

Wakatoshi alzò lo sguardo dalla scacchiera. 

Tooru accennò un sorriso. “Abbiamo la stessa età… A essere precisi, sono un mese più vecchio di voi. Eppure, quando vi guardo, ho l’impressione che abbiate sulle spalle molti più inverni dei nostri coetanei.”

Il Re dell’Aquila fece la sua mossa. Fu un attacco distratto, fatta tanto per fare. Tooru concluse che non stava più ponendo attenzione alla partita, ora era lui il centro del suo interesse. Ne fu compiaciuto.

“Dicono che si trattasse di un’invasione del popolo del Nord. Raccontano di come siete tornato al vostro campo base, all’alba, e avete consegnato la testa del leader nemico al vostro esercito.” Tooru sollevò la sua torre. Prima di usarla, se la rigirò tra le dita per un po’. “È un gesto strano da fare.”

“Perché lo dite?”

“Perdonatemi, Wakatoshi. Sono abituato a quelle storie che si concludono con grandi guerrieri che donano ai loro signori dei trofei di guerra, non il contrario.”

Wakatoshi era sia Re che Primo Cavaliere, ma la sua immagine era così diversa da quella da monarca che era stata inculcata a Tooru. 

“Come Re sono chiamato a comandare, non a rischiare la mia vita per la mia gente,” spiegò. “Sono la loro guida. Se perdono me, sono perduti anche loro.”

“Lo hanno insegnato anche a me,” ammise Wakatoshi.

Tooru reclinò la testa da un lato. “Non mi pare che abbiate dato credito a simili insegnamenti.”

Wakatoshi assottigliò gli occhi. “Non riesco a capire se approvate o meno.”

“Mio padre è caduto in battaglia,” raccontò Tooru. “Non conservo alcun ricordo di lui. Ho sentito solo delle storie: il Re di Karasuno ha combattuto con i suoi uomini e lui non ha voluto essere da meno. Una pura follia, da parte di tutti e due.”

“Se ben ricordo, sono morti entrambi.”

“Perché entrambi erano impreparati.” Era facile per Tooru giudicare qualcosa che non conosceva, ma non serviva un genio per sapere che nobiltà e orgoglio non erano armi sufficienti da brandire in guerra.

“A mio padre è successa la stessa cosa,” disse Wakatoshi.

Tooru lo sapeva. Lo sapevano tutti i Regni Liberi. Sentirlo dal nuovo sovrano di Shiratorizawa ebbe tutto un altro significato.

“Era un grande Re,” aggiunse Wakatoshi. “Un ottimo stratega e un guerriero degno di nota, ma non abbastanza.”

“Non conosco le imprese di vostro padre,” ammise Tooru. 

“Perché non ve ne sono, non nel modo in cui le intendiamo io e voi,” spiegò Wakatoshi. “Divenuto Re, mio padre si è ritrovato tra le mani un regno grande e potente e la sua politica si è basata su una sola cosa: stabilità.”

“Non è un modo sbagliato di governare,” commentò Tooru. “Perché ne parlate con quell’espressione corrucciata?”

“Perché non era abbastanza,” disse Wakatoshi, con sguardo distante. “Quella grandezza e quel potere non erano abbastanza.”

Tooru non ebbe il tempo di replicare.

“Non l’ho affrontato,” aggiunse il Re dell’Aquila. “Il leader degli invasori… Non l’ho affrontato. L’ho sorpreso nel sonno. Ha avuto appena il tempo di riconoscere chi aveva di fronte, prima che gli tagliassi la gola.” Wakatoshi non voleva impressionarlo.

Tooru se ne accorse in quel momento: a quel fanciullo non importava nulla del suo giudizio, di dare una determinata impressione di sé. Non lo stava corteggiando o lusingando con parole vuote - Tetsuro ci aveva provato, prima che fosse chiara la mancanza d’interesse da parte di entrambi.

A dispetto delle ragioni che li avevano portati lì, di fronte a quella scacchiera, Wakatoshi non stava tentando di comprarlo con qualche bella bugia. La grande impresa che lo aveva fatto conoscere in tutti i Regni Liberi, altro non era che l’azione di un codardo. 

Tooru sapeva che Hajime lo avrebbe definito così: codardo

Ma Wakatoshi non si nascondeva, non se ne vergognava. “Mi sono sporcato le mani, piuttosto che chiedere a centinaia di uomini di farlo per me.”

Tooru rimase senza parole. Tutta la sicurezza con cui aveva invitato quell’ospite inatteso nei suoi appartamenti scivolò via, provocandogli un brivido freddo che gli fece venire la pelle d’oca. Gli scappò una risata nervosa.

Wakatoshi se ne accorse. “Ho detto qualcosa che vi ha turbato?” 

“Mi state prendendo in giro?”

“No.”

Tooru si umettò le labbra, poi si sporse in avanti, incrociando le braccia sul tavolo. “Perché?” 

“Perché cosa?”

“Le tue parole persuaderebbero chiunque a credere che tu sia quasi altruista. La morte di uno per salvarne centinaia. Vista da questa prospettiva, anche un atto di per sé riprovevole può essere giustificato.” Se fosse nato in un mondo diverso, Hajime sarebbe stato quel genere di Re. Tooru ne era certo. 

Wakatoshi di Shiratorizawa non era il suo Cavaliere. Nei suoi occhi, troppo maturi per la sua età, vi erano ombre che il Principe Demone conosceva bene: le aveva scorte innumerevoli volte nel suo stesso riflesso.

“Qual è la vera ragione che vi ha spinto a uccidere quel Signore del Nord da solo?” Domandò Tooru.

Wakatoshi non rispose immediatamente. L’erede al trono di Seijou immaginò che quella fosse la prima volta che qualcuno guardava oltre il suo operato e al significato che poteva avere in superficie.

“Non volevo ereditare la corona di Shiratorizawa,” rispose Wakatoshi. “Volevo conquistarla.”

Una persona comune non avrebbe mai potuto intuire l’enorme differenza tra le due cose. Tooru, invece, la conosceva molto bene. Era ciò che distingueva un titolo reale fine a se stesso da un Re nato per essere tale. Il primo era condannato a essere dimenticato dalla storia - semmai questa gli avesse permesso di sopravvivere - il secondo era destinato a divenire leggenda

E Tooru era dolorosamente consapevole di quale fosse la sua posizione.

Si sentì sconfitto in partenza.

Wakatoshi si ricordò della partita in corso e fece la sua ultima mossa. “Scacco matto…”




 

Quella notte, Tooru rimase in piedi fino a tardi.

Fece congedare i suoi servitori subito dopo la cena e si cambiò negli abiti da notte da solo. Rimase raggomitolato sulla poltrona accanto al fuoco per ore, perso in pensieri che non lo avevano mai sfiorato prima di allora.

Quando Tetsuro si era presentato al suo cospetto, Tooru sapeva che aveva un’esperienza del mondo che a lui era stata negata. Eppure, non si era mai sentito inferiore a lui.

Wakatoshi era una cosa completamente diversa.

Il giovanissimo sovrano di Shiratorizawa aveva già fatto quello che lui, il Principe Demone, aveva avuto solo il potere di sognare: aveva preso le regole del loro mondo e le aveva piegate alla sua volontà. 

A tredici anni, quel fanciullo aveva già compiuto un’impresa, un primo passo che lo avrebbe posto un gradino al di sopra di tutti i Re della sua generazione. 

Hajime lo sorprese allora, talmente perso in quell’intricato groviglio di riflessioni da non alzare neanche lo sguardo al suo ingresso nella stanza.

“Mi dispiace, Tooru,” disse, sinceramente costernato. “Gli allenamenti sono finiti dopo il tramonto, non sono riuscito a raggiungerti a cena.” I capelli neri erano ancora umidi, i vestiti scomposti. Si era premurato di avere un aspetto dignitoso, prima di presentarsi, ma il Principe non lo degnò di uno sguardo.

“Tooru?” Hajime allungò la mano e gli toccò la spalla.

Il Principe Demone trasalì e lo guardò come se si fosse accorto di lui solo allora. “Iwa-chan…” Accennò un sorriso. “Deve essere tardi. Perché non stai dormendo?”

Hajime inarcò le sopracciglia. “Hai passato il pomeriggio con un ospite che non attendevamo,” gli ricordò. “Volevo accertarmi che stessi bene.”

Tooru non sapeva come stava, ma confidarlo al suo Cavaliere avrebbe portato a una conversazione che non credeva di poter affrontare. Era stanco, eppure sapeva che non avrebbe chiuso occhio tutta la notte. 

“Sto bene, Iwa-chan,” mentì, per rassicurarlo. 

Hajime non si mosse e quando fu certo che il Principe non avrebbe aggiunto altro, allargò le braccia e disse: “allora?”

“Allora, cosa?” Domandò Tooru distrattamente, fissando un punto qualunque del vuoto.

Messo in allerta da quel comportamento, Hajime s’inginocchiò sul tappeto in maniera tale che l’altro non potesse evitare il suo sguardo. “Prova a mentirmi di nuovo e ti prendo a schiaffi,” lo avvisò.

Tooru inarcò il sopracciglio destro. “Prego?”

“Ti sembra di stare bene?” 

Il Demone scosse la testa, scivolando sul tappeto accanto a lui. “Tetsuro riparte domani,” disse.

A Hajime non interessava. “Il Principe dell’Aquila resta qui?”

Re.”

“Eh?”
“Wakatoshi è il Re dell’Aquila, non dimenticarlo.” Tooru lasciò andare un sospiro. “Lo so, è molto giovane ed è facile confondersi.” Si strinse le ginocchia al petto, appoggiandovi il mento.

Hajime gli passò una mano sulla schiena. “Ehi...” Mormorò, come quando da bambini si confidavano i segreti. “Mi vuoi raccontare quello che è successo, Tooru?”

Solo a sentire il tocco gentile del suo Cavaliere, il Principe Demone sentì la tensione stemperarsi un poco, quanto bastava perché la brina nel suo cuore si sciogliesse in calde lacrime.

“Tooru.” C’era allarme nella voce di Hajime e quando gli circondò le spalle con un il braccio, il Principe si sentì al sicuro. “Devo andare a prendere a pugni un Re appena incoronato? Lo faccio, basta che tu me lo chieda.”

Suo malgrado, Tooru rise. “Resti a dormire con me, stanotte?” Lo chiese senza pensare, consapevole che le sue lacrime avrebbero reso difficile al Cavaliere tirarsi indietro.

Hajime aprì la bocca, poi la richiuse. Alla fine, sbuffò. “Se continui a comportarti così, io non ce la faccio.” 

Si allontanò e Tooru sentì freddo. 

“Tu pensi che per me sia più facile?” Domandò il Principe, sarcastico.

Era il turno del Cavaliere di non guardarlo in faccia. “Fingi di non sapere di avere il pugnale dalla parte dell’impugnatura?”

“Come se avessi mai usato quel pugnale contro di te!”

Hajime lo guardò, implorante. “Basta, Tooru.” Era stanco, al limite. “Voglio proteggerti, non continuare a farti del male.”

“Non preoccuparti, ti riescono bene entrambe le cose.”

“Fai un po’ come ti pare…”

Calò il silenzio. Hajime fissava le fiamme nel caminetto e Tooru un punto qualunque del tappeto. Il Principe sapeva che toccava a lui parlare per primo. “Wakatoshi è diverso…”

Quella scelta di parole incuriosì il Cavaliere abbastanza da portarlo a concedergli la sua attenzione. “Definisci diverso.”

Tooru scrollò le spalle. “Diverso.” Cercò di spiegarlo nello stesso modo in cui lo aveva pensato. “Hai presente i grandi Re e i valorosi guerrieri delle leggende? Wakatoshi riesce a essere entrambe le cose. Lo guardi e ti sembra che abbia già vissuto una vita intera. Ha un vantaggio su tutti noi che non so come si possa colmare.”

“Noi?”

“Mi riferisco ai futuri Re di questa generazione.”

Hajime corrugò la fronte. “Tooru, hai paura?”

Il Principe Demone lo guardò come se avesse osato fargli un torto. “Non ti permettere…” Sibilò, alzandosi in piedi e prendendo le distanze.

“Prego?” Hajime lo seguì. “Si può sapere che cosa è successo con il Re dell’Aquila?”

“È successo che non sarò mai - mai - alla sua altezza!” Urlò Tooru, buttando fuori tutto il malanimo che aveva covato dentro nelle ultime ore.

Hajime era confuso. “È venuto qui per chiederti in sposo ma non ti ritiene alla sua altezza?”

“Non abbiamo neanche parlato di quello.”

“E di cosa avete parlato?”

Solo ora che il suo Cavaliere glielo sottolineava, Tooru si rese conto di quanto era strano che il motivo che aveva spinto Wakatoshi fino a Seijou non fosse mai saltato fuori durante la loro conversazione. Il Demone era il primo a non essere interessato, ma il Re dell’Aquila non poteva essere giunto in una corte straniera per niente - senza una scorta per di più. 

“Di potere,” rispose Tooru. “Abbiamo parlato di potere, di come essere Re.” Non era un riassunto dei fatti particolarmente esauriente. 

Hajime studiò l’espressione del Principe con attenzione, quasi vi fosse una sbavatura nei tratti del suo viso. “Ti ha colpito,” concluse.

Tooru serrò i denti sul labbro inferiore e si concesse un istante per mettere insieme i pensieri. “Wakatoshi è qualcosa che non ho mai affrontato,” ammise. “E non sono certo di essere in grado di farlo.”

“Tooru…”

“No, Hajime, fammi finire,” lo pregò il Principe Demone. “Ho capito chi era Tetsuro nel momento in cui mi ha parlato. So che dall’aspetto non sembra, ma è un libro aperto. Lo stesso vale per i membri del consiglio: mentono, mi lusingano ma io so leggerli, so prevedere le loro azioni e so come farmi valere.” Si passò una mano tra i capelli. “Wakatoshi è come una fortezza inassediabile.”

Tooru ripensò a quello sguardo freddo e penetrante, alla voce monocorde con cui gli aveva raccontato del fallimento di suo padre e del modo in cui aveva consumato qualcosa che si avvicinava molto a un regicidio. Non aveva idea di quale fosse il grande scopo per cui Wakatoshi di Shiratorizawa aveva venduto l’anima - perché era un mostro, non un fanciullo, quello che era giunto alla sua corte - ma uno doveva essercene.

Se Tooru aveva avuto paura, se ne dimenticò in quel momento. Sorrise. 

“E tu non hai idea di quanto io voglia raderla al suolo quella fortezza, Hajime.”

 

 



 

L’autunno che Wakatoshi passò alla corte di Seijou fu il più lungo della vita di Hajime.

Il Cavaliere non allontanava lo sguardo  da Tooru nemmeno per un istante e quando era costretto a farlo, l’ansia lo divorava. Sotto il suo sguardo impotente, il Principe subì una metamorfosi stupenda e terribile.

Se il Cavaliere non poneva alcuna attenzione al modo in cui il suo corpo diveniva più forte e il viso si faceva più spigoloso, era impossibile staccare gli occhi da Tooru, mentre sbocciava in tutta la sua grazie e la sua bellezza - entrambe ereditate da sua madre.

In pochi mesi, Tooru crebbe per divenire quello che chiunque si sarebbe aspettato dal Principe dei Demoni: un tentatore e una tentazione al tempo stesso.

Non c'era più traccia di quei sorrisi sciocchini ed un po' ingenui per cui Hajime aveva ceduto innumerevoli volte, durante la loro infanzia. No, ora Tooru sorrideva con sicurezza, quasi spavalderia. Lo faceva con quello sguardo a tratti diabolico e a tratti malizioso, che avrebbe convinto qualsiasi uomo a vendergli l'anima.

Wakatoshi di Shiratorizawa lo rese così. Lui e la sua impenetrabilità.

Hajime aspettava d’incrociare lo sguardo del suo Principe a ogni buona occasione, ma gli occhi di Tooru non lo cercavano più come un tempo. 

Alla fine, era accaduto quel che doveva accadere. Hajime era stato messo da parte e l’interesse di Tooru era stato conquistato da un altro fanciullo..

Un giovanissimo Re - un mostro, come lo definiva l’erede al trono di Seijou - il primo candidato a divenire sposo del Principe Demone, secondo i desideri del consiglio.

Non sarebbe potuto accadere di meglio.

La corte si dimenticò presto di Nekoma. L’entusiasmo si spostò nella direzione della giovane coppia di promessi sposi. Non provavano alcuna vergogna a farsi vedere in pubblico, ma nessuno dei due si lasciava andare a gesti affettuosi. Ciò che contava era che il consiglio era ottimista: Tetsuro di Nekoma se ne era andato in meno di un mese, Wakatoshi di Shiratorizawa era arrivato alla fine dell’estate e, con l’arrivo della prima neve, era ancora lì.





 

Il primo dettaglio di Wakatoshi che saltava agli occhi era la sua altezza.

Tooru non poteva fare altro che guardarlo dal basso verso l’alto e chiedersi come fosse il mondo da lassù. Arrivò anche a domandarglielo ad alta voce, tanto per provare a farlo ridere, ma il Re dell’Aquila non capì la battuta. 

Il Demone fanciullo imparò in fretta che il suo ospite era privo di qualsiasi senso dell’umorismo. Wakatoshi era quanto di più lontano ci fosse da una persona divertente, eppure Tooru non si annoiava mai insieme a lui. Quel timore che  gli aveva fatto accapponare la pelle  mutò in qualcosa di meno sinistro.

Al di là delle voci, dell’impresa che l’aveva glorificato come Re più giovane e potente della sua generazione, Wakatoshi era ancora un ragazzo di quattordici anni.

“Non nevica spesso al Castello Bianco.”

Tooru sgranò gli occhi e guardò il giovane sovrano al suo fianco con un sorriso sorpreso. “Wow… Hai aperto bocca per primo e senza che io ti abbia spinto a farlo.”

Erano passati al tu da un po’, per l’esasperazione dei consiglieri di corte, che insistevano perché Tooru rispettasse l’etichetta. Mostrare troppa confidenza a un futuro sposo era sintomo di frivolezza, per nulla adatta all’erede al trono del Regno di Seijou.

Il Principe, da parte sua, non sapeva che cosa ci fosse di così frivolo in partite a scacchi e discorsi sul potere. Doveva ammettere, però, che da quando erano passati al tu, persino Wakatoshi aveva scoperto un po’ le carte.

“Al Castello Nero, invece, gli inverni sono lunghi,” disse Tooru, osservando i fiocchi cadere lentamente.

Per la prima volta dopo giorni, la bufera che aveva dato inizio al gelo, aveva permesso a tutti gli abitanti del castello di mettere piede fuori da quelle mura di pietra. 

I due futuri sposi se ne stavano sulla balconata che affacciava sul cortile interno, dove erano ripresi gli allenamenti regolari dei Cavalieri di corte. 

“Questo clima è un ottimo alleato nel rafforzare il fisico,” disse Wakatoshi.

Tooru storse la bocca in una smorfia poco convinta. “Siamo Demoni, non ci ammaliamo così facilmente.”

“Sono certo che i tuoi uomini avrebbero meno difficoltà, rispetto ai miei, ad abituarsi alle terre del Nord.”

A dispetto di quanto appena detto, il Principe si strinse di più nel suo mantello di pelliccia e sollevò il cappuccio rosso sulla testa per impedire ai fiocchi di neve di bagnargli i capelli. “Il Castello Bianco sorge sulla riva del mare, vero?”

Wakatoshi annuì. “In cima a un promontorio,” disse. “La capitale si estende lungo la costa, ma parte della spiaggia è all’interno delle mura, confina con il nostro parco reale.”

“Da bambino, io costruivo castelli di neve,” disse Tooru, “tu, invece, di sabbia.”

“Erano gli altri a costruirli. Io mi limitato a guardare, partecipavo solo dopo parecchia insistenza.”

Tooru non poteva credere alle sue orecchie. “Ci sono un sacco di credenze positive legate alla prima neve, ma mai avrei creduto che potesse spingerti a parlare tanto di casa tua.”

Wakatoshi parve confuso. “Non lo faccio?”

“No,” rispose Tooru, scuotendo la testa. “Leggi le tue lettere in privato. Scrivi le tue velocemente. Non mi confidi mai le parole che vi sono scritte.”

“Per te sarebbe solo una lista di nomi che non conosci.”

“È questo che ti sto dicendo,” insistette Tooru con cortesia. “Vorrei conoscerli. Vorrei… Non lo so, forse voglio solo sapere cosa mi aspetta.”

Wakatoshi lo fissò. “Nessuno ha deciso che tu debba lasciare il Castello Nero.”

Tooru sorrise amaramente. “Fa parte di quelle regole non scritte nel contratto matrimoniale: il regno più forte ha la precedenza.”

“Non sono un amante delle regole,” gli ricordò il Re dell’Aquila. “Al momento opportuno, ne parleremo e lo decideremo insieme.”

Il Demone fanciullo scrollò le spalle. “Tu hai degli amici a Shiratorizawa, Wakatoshi,” disse. “Sì, sono nato e cresciuto in questo Castello, ma non ho affetti che rischio di lasciare indietro.”

“E lui?” Domandò Wakatoshi, indicando uno dei Cavalieri nel cortile. “Lui non è un affetto che lasceresti indietro?”

Tooru si accorse che era Hajime l’oggetto dell’attenzione del Re. Il suo Cavaliere era in piedi, vicino alla mura. Osservava e commentava il duello in corso con Issei e Takahiro. Solo fino alla stagione prima, quegli occhi verdi si erano sollevati centinaia di volte per cercare i suoi. Avevano perso quell’abitudine velocemente.

“Non ti ho mai parlato di lui,” gli fece notare Tooru.

Wakatoshi non lo guardava più. “Anche io ho sentito le storie, Tooru. Un Cavaliere umano nel Regno di Seijou è abbastanza per attirare l’attenzione di molti.”

Tooru non poteva negarlo, ma aveva tenuto Hajime lontano da quella loro strana relazione fino ad allora e non ci teneva a tornare sui suoi passi.

“Frequenta le tue stanze abitualmente, eppure non ci siamo mai incrociati,” disse Wakatoshi.

Sarebbe stato sospettoso confessargli che era tutto calcolato. Da quando il Re dell’Aquila era arrivato a corte, i momenti che Tooru divideva con Hajime si erano drasticamente ridotti. Il legame tra loro non si era dissolto, certo, ma il Cavaliere era rimasto saldo nella sua posizione e il Principe aveva avuto ben altro per la testa.

“Oggi è la prima volta che parliamo di matrimonio.” Tooru cercò di cambiare discorso. “È una giornata piena di cose inedite.”

Wakatoshi riportò gli occhi su di lui e il Principe ne fu sollevato: Hajime non doveva essere parte di quella storia, era libero da lui e da qualsiasi promessa sua madre lo avesse obbligato a fare.

“Un matrimonio è quello che si aspettano da noi,” disse il Re dell’Aquila. La sua voce perse di colpo quel poco di vitalità che aveva animato quella loro conversazione.

Tooru decise che non era un dettaglio da ignorare. “Sei rimasto qui a parlare e giocare a scacchi per settimane, eppure non mi hai ancora palesato le tue intenzioni.”

Wakatoshi lasciò andare un sospiro che si condensò in una nuvola di vapore. “Tu che cosa vorresti?”

No, quella era una domanda che proprio non poteva fargli.

Tooru piegò le labbra in un sorriso nervoso. “Ha importanza?”

“Per me, sì.”

“Non rispondo, se prima non lo fai tu.” Era un’obiezione da bambini e Tooru lo sapeva bene, ma non sapeva cosa fare. Avevano ignorato quell’argomento per tanto di quel tempo che ora sembrava di troppo.

“Quando sono giunto alla tua corte, non nutrivo il ben che minimo interesse per te,” disse Wakatoshi, diretto, brutale, come suo solito.

“Ah…” Fu tutto quello che riuscì a dire Tooru, ma glielo si leggeva in faccia che era offeso.

“C’è una persona che mi manca, Tooru,” confessò Wakatoshi.

Il Demone fanciullo aveva seria difficoltà a comunicare con quella versione del Re dell’Aquila. Nulla di lui, dall’espressione alla voce, tradiva alcuna emozione ma gli offriva su un piatto d’argento delle confidenze personali a cui Tooru non riusciva a dare il giusto peso. Pensò a come sarebbe stato per lui vivere in una corte straniera, senza Hajime e scelse di credere che quella persona fosse altrettanto importante. “E allora che cosa ci fai qui?”

“All’inizio, era per dovere.”

“E ora?”

“Per interesse.”

“Di che natura?”

“Personale,” confessò Wakatoshi. “Quando parlo con te, alle volte, smetto di pensare a quella persona.”

Anche a Tooru succedeva di dimenticarsi di Hajime nei momenti che divideva con il Re dell’Aquila, ma lo aveva interpretato come il segno che stava andando avanti. 

“E smetti di amarla?” Domandò Tooru. “Perché la ami, non è così?” Altrimenti non gliene avrebbe mai parlato, non il giovane sovrano di Shiratorizawa, con la sua imperturbabilità e tutto il resto. 

Wakatoshi si limitò a fissarlo. Tooru scoprì che i suoi occhi rilucevano in modo completamente inedito: per la prima volta da quando si conoscevano, il Re dell’Aquila dimostrava la sua età.

“È un po’ un casino così,” ammise Tooru, con un sorriso amaro. “Per quel che vale, non mi sei indifferente nemmeno tu.” Era sincero, ma non sapeva che nome dare alla forza invisibile che lo spingeva verso Wakatoshi.

Da principio, Tooru si era sorpreso smanioso di dimostrare qualcosa, di compiere un atto di superiorità che non lo facesse rimanere nell’ombra dell’appena incoronato Re dell’Aquila. Quel desiderio non era mutato, ma si era aggiunto dell’altro. Entrambi erano rimasti soli su quella terra troppo presto, con un peso più grande di loro da reggere sulle spalle e nessuna intenzione di arrendersi, a costo di fare guerra al loro stesso mondo.

Wakatoshi era riuscito nell’impresa, decapitando un invasore a tredici anni. Tooru non aveva ancora avuto l’occasione di dimostrare il suo vero valore. Ma c’era un vissuto che li avvicinava e li rendeva diversi da chiunque altro.

Solo un Re poteva comprendere la solitudine di qualcun altro destinato a un trono.

Quella parte di Tooru, Hajime non era mai riuscito a comprenderla. Wakatoshi poteva perché era anche la sua maledizione.

“E tu ami qualcuno?” Domandò il Re dell’Aquila.

Tooru non aveva una risposta breve a quella domanda, solo una frase fatta che aveva deciso di rendere il suo nuovo credo: “il destino sceglie uno per il trono e tutti gli altri per l’amore,” piegò le labbra in un sorriso dalle sfumature oscure. “Qualsiasi cosa voglia dire.”




 

La presenza del Principe Demone pesava su Hajime come un macigno. 

Era abituato a essere spiato durante i suoi allenamenti. Non lo era al fatto che, alzando lo sguardo, non ci fossero gli occhi scuri di Tooru pronti ad accoglierlo.

Il Demone fanciullo con cui era cresciuto era ancora suo nei pochi momenti che riuscivano a passare insieme, ma sapeva che quello era l’ultimo atto di una storia che stava per concludersi. 

Hajime non aveva ancora capito se, alla fine, Tooru fosse riuscito a radere al suolo le mura inviolabili dietro cui si nascondeva il vero Wakatoshi. L’unica cosa certa era che quell’assedio accendeva il suo interesse. 

Era meglio così.

Shiratorizawa era l’alleato a cui il consiglio aveva puntato fin dal principio. Se il destino voleva che quella fosse anche la strada per la felicità di Tooru, tanto meglio.

Se Hajime non riusciva a esserne lieto, era solo un problema suo. A costo di mettere da parte il cuore per il resto della sua vita, avrebbe imparato a conviverci.

“Hajime, tocca a te!”

Takahiro gli lanciò un’occhiata. “Ce la fai?” Domandò, indicando la balconata con un cenno del capo.

“Falla finita, Takahiro.”

“Sicuro?” Si aggiunse Issei. “Il tuo avversario è il cane rabbioso. Una distrazione e ti ritrovi senza testa.”

“Chi?” Domandò Hajime, voltandosi a guardare il suo avversario.

Kyotani Kentaro lo aspettava con la spada stretta nel pugno, passando il peso del corpo da un piede all’altro.

Hajime sbuffò e fece un passo in avanti. “È solo Kentaro,” disse, guardando male i due amici. “Da quando lo chiamiamo cane rabbioso?”

Takahiro sgranò gli occhi. “Ma dove sei stato negli ultimi sei mesi? Da quando è entrato nell’ordine dei Cavalieri, è divenuto quasi un titolo per lui.”

Issei incrociò le braccia contro il petto. “Visto? Sei distratto e anche da un bel po’.”

Hajime li mandò al diavolo e andò a mettersi in posizione al centro del cortile. 

Kentaro lo guardava come una bestia selvaggia pronta a saltargli alla gola. Gli ringhiò anche contro, provocando un attacco d’ilarità nei Cavalieri che li stavano guardando.

Hajime estrasse la spada e si mise in posizione d’attacco: avrebbe concluso la cosa in fretta e si sarebbe ritirato nell’armeria, lontano da Tooru e dal suo Re dell’Aquila.

Lontano da Tooru.

Era quello il suo posto e desiderare che non fosse così avrebbe portato solo dolore.

Un fiocco di neve gli accarezzò il viso. Sollevò gli occhi verdi e si accorse che Tooru lo guardava.

Il mondo intero si fermò.

Hajime non udì il suo superiore dare il segnale d’inizio. Quando Kentaro gli si scagliò addosso, non fu pronto a difendersi. Perse la presa sulla spada e cadde e cadde all’indietro.

Batté la testa e tutto divenne buio.




 

“Hajime!” 

Tooru si dimenticò di Wakatoshi in un istante.

Nella sua corsa disperata per raggiungere il suo Cavaliere, quasi inciampò giù per le scale e investì un paio di poveri servitori.

Uscì nel cortile senza alcuna grazia, il mantello rosso che si agitava alle sue spalle. Non si preoccupò delle occhiate che ricevette da tutti i Cavalieri della corte, mentre si gettava sull’unico che aveva importanza per lui.

“Hajime!” Chiamò sull’orlo del pianto. Non appena il fanciullo umano emise un lamento, il Principe tornò a respirare. “Non devi farmi prendere simili spaventi, Iwa-chan!”

“Tooru?” Hajime mosse il braccio, lo cercò alla cieca.

Il Demone prese la sua mano e fece per dire qualcosa, ma qualcuno lo afferrò per le spalle e lo costrinse a rimettersi in piedi.

“Non si preoccupi, Altezza,” disse Takahiro, inginocchiandosi al suo posto. “Il vostro idiota è in buone mani.”

“Hajime, sei vivo?” Domandò Issei, restando in piedi.

Il Cavaliere a terra mostrò agli amici il dito medio, provocando un attacco d’ilarità in tutti i presenti. 

Tooru non era divertito, si sentiva solo messo da parte.

Servirono sia Issei che Takahiro per rimettere in piedi il suo Cavaliere. Un rivolo di sangue scese dalla tempia di Hajime, rigandogli il viso.

Il Principe Demone tentò di avvicinarsi una seconda volta - aveva già il fazzoletto ricamato con le sue iniziali stretto tra le dita - e nessuno tentò di allontanarlo.

Hajime lo guardò, ma sembrava avere difficoltà a tenere gli occhi aperti. “Tooru…”

“Non parlare. È stata una brutta caduta.”

“Non dovresti essere qui,” mormorò il Cavaliere.

Il Principe Demone lo ignorò. “Riuscite a portarlo nella sua stanza?” Domandò ai due scagnozzi del suo amico d’infanzia.

Anche se non ne avessero avuto la forza, Issei e Takahiro non avrebbero mai osato rispondere di no

Tooru aspettò che se ne andassero, poi si scusò per l’intrusione e permise agli altri Cavalieri di continuare con l’allenamento. Mentre tutti s’inchinavano al suo passaggio, alzò gli occhi scuri in direzione della balconata.

Wakatoshi rispose al suo sguardo. 



 

Tooru andò a cercare il Re dell’Aquila solo quando fu certo che Hajime stesse bene.

Lo trovò nei giardini reali che si allenava a tirare frecce ai bersagli con cui era solito allenarsi.

Il Demone fanciullo sbuffò. “Sai anche tirare con l’arco?” 

Wakatoshi scoccò la freccia, colpendo il cerchio rosso al centro dell’ultimo bersaglio. “Perché lo dici con quell’aria contrariata?” 

Perché Tooru si era convinto che essere il più forte nel piccolo mondo in cui era cresciuto equivalesse a non avere rivali in tutti i Regni Liberi. Una volta, Hajime gli aveva chiesto se Wakatoshi lo spaventava. La verità era un po’ più complicata: Tetsuro di Nekoma non gli aveva mai sbattuto in faccia quanto il consiglio reale lo stesse rendendo limitato, Wakatoshi era troppo diretto per perdere tempo con la cortesia.

Non era il Re dell’Aquila il problema ma lui, Tooru, che sentiva il peso dell’inadeguatezza farsi troppo pesante per le sue giovani spalle.

“Non sono contrariato,” ribatté. Era arrabbiato, ma non aveva senso biasimare l’altro per i suoi limiti. “Credo di doverti delle scuse,” cambiò argomento.

Wakatoshi incoccò un’altra freccia. “Se l’amico con cui sono cresciuto avesse un incidente durante un duello, anche io mi preoccuperei per il suo bene.”

“La mia condotta non è stata rispettosa,” insistette Tooru.

Il Re dell’Aquila lasciò andare la freccia, che mancò il centro per poco. “Come hai detto tu, è complicato.” Guardò il giovane padrone di casa dritto negli occhi.

Tooru comprese che gli stava dando l’opportunità di rimangiarsi quanto detto sulla balconata a proposito dell’amore, ma non aveva alcuna intenzione di scoprire quelle carte. “No, non lo è,” mentì. “Se me ne andassi domani, Hajime mi mancherebbe… Ma non è complicato nel modo in cui lo intendi tu.” Si augurò di essere stato abbastanza convincente. 

Wakatoshi appoggiò l’arco a uno dei cespugli ricoperti di neve. “Allora perché non me lo presenti?”

Perché Hajime era solo di Tooru e doveva rimanere il più possibile lontano dalla loro storia.

Il Re dell’Aquila interpretò il suo silenzio come una risposta. “Ho deciso di tornare a casa, prima che la neve si faccia troppo alta.”

Tooru sgranò gli occhi, spiazzato. “Ma la nostra allean-”

“Tornerò in primavera,” promise Wakatoshi. “Non sono abituato ai lunghi inverni.”

Era una scusa di cui il Principe Demone non aveva alcun bisogno. “Perché quella persona non può essere il tuo Consorte?” Non voleva condividere nulla di Hajime con il Re dell’Aquila, ma voleva sapere tutto di quell’amante che aveva lasciato indietro.

“Per la stessa ragione per cui tra te e il tuo Cavaliere non vi è nulla di complicato, immagino,” rispose Wakatoshi. 

Tooru sorrise con sufficienza. “Tanto giovane, tanto potente e basta una differenza di rango a fermarti?”

L’altro scosse la testa. “Non c’è un futuro per noi.”

“Però è da quella persona che stai andando.”

“Mi manca, te l’ho detto.”

Per la prima volta da quando lo aveva rifiutato, Tooru comprese il punto di vista di Hajime. “Se sai già che preferirai il dovere a lui, perché gli stai facendo del male in questo modo?”

A quelle parole, Wakatoshi tornò a essere il giovane impenetrabile che si era presentato al Castello Nero alla fine della scorsa estate. “Tornerò in primavera,” ripeté.

Fu l’ultima volta che si parlarono per quella stagione.




 

***




 

Dall’inizio dell’autunno, il tempo non era stato clemente con gli abitanti della capitale di Shiratorizawa. Dalla partenza del Principe - che fosse un caso o meno - non aveva più smesso di piovere. Il mare in tempesta aveva divorato gran parte della spiaggia e la zona del porto era stata evacuata a causa degli allagamenti.

Non era nulla a cui la corte non fosse preparata, ma Satori cominciava ad avvertire una certa tensione nell’aria. 

Era la prima volta che il loro giovanissimo sovrano si allontanava da casa, da solo, per un’intera stagione. Wakatoshi non mancava di far avere sue notizie regolarmente, ma cosa lo stesse trattenendo per tutto quel tempo era un mistero.

Il consiglio reale cercava di essere ottimista ma Satori, che era cresciuto al fianco del Re quattordicenne, era sospettoso. Wakatoshi era partito per Seijou controvoglia, in tutta fretta, con l’atteggiamento di chi vuole togliersi un pensiero molesto una volta per tutte. Qualcuno dei loro amici - forse Reon - era arrivato a ipotizzare che i Demoni avessero approfittato dell’assenza di una scorta per prendere il loro sovrano in ostaggio.

Satori non era così drammatico. Anche ammesso che qualcuno avesse cercato di trattenerlo, Wakatoshi non era il tipo da sottostare ai desideri altrui.

No, se il Re dell’Aquila continuava a risiedere alla corte di Seijou era perché voleva farlo. A quel punto della storia, Satori era solo curioso di sapere che cosa aveva attirato tanto l’attenzione dell’amico di sempre. Non era pensabile chiederglielo in una lettera: non era a lui che Wakatoshi scriveva. Il fanciullo a cui erano indirizzate quelle missive non aveva affatto bisogno di torturarsi con le sue riflessioni, aveva già le proprie a cui pensare.

Così Satori passava le notti a fare la guardia agli appartamenti del Re, tanto non sarebbe riuscito a dormire. Sperava solo che il fanciullo che si trovava dietro quella porta chiusa avesse più fortuna di lui.

“Satori?” 

Wakatoshi era così. Non si faceva annunciare e non lo sentivi arrivare. Spuntava dal nulla, provocando un attacco di cuore al povero sventurato di turno.

Satori trasalì, ma fu bravo a mantenere il controllo: se lo avessero sentito urlare dagli appartamenti reali, non sarebbe stato divertente. “Quando diavolo sei tornato?” Domandò, visibilmente innervosito. Poco importava che quello non fosse il tono adatto da usare di fronte a un Re.

“Non volevo spaventarti,” si scusò Wakatoshi con voce incolore.

Satori lasciò andare un sospiro. Alla luce dell’unica torcia rimasta accesa su quelle scale, Wakatoshi non mostrava alcun danno fisico. “Sei bagnato come un pulcino,” commentò Satori e si provocò un attacco d’ilarità da solo.

“Sta piovendo.”

“Lo so bene, mio Re. Piove da un po’.”

Wakatoshi rivolse la sua attenzione alla porta dei suoi appartamenti. “Sta dormendo?”

“Sì, sì. Lui sta bene.” Satori scansò la questione con un gesto della mano. “Parliamo di cose davvero importanti: che cosa è successo a Seijou?”

“Niente.”

La velocità con cui quella risposta arrivò non fece che renderla più sospetta. Satori piegò le labbra in un sorriso furbetto. “Due mesi di assenza per niente?” Domandò. “Sei partito con la faccia di un condannato a morte che si dirige al patibolo, poi ti sei messo comodo alla corte del Principe Demone?”

Wakatoshi inarcò un sopracciglio. “Quando sono partito, non credo di aver avuto una faccia diversa dal solito.”

Vero, ma Satori aveva anni di esperienza sulle spalle e aveva imparato a leggere le diverse sfumature degli occhi del suo Re da tempo. “Non era come te lo aspettavi?” Si riferiva all’erede al trono del Regno di Seijou.

“Non mi aspettavo nulla,” rispose Wakatoshi.

“Appunto…” Satori attese. Quando fu chiaro che l’amico non aveva intenzione di vuotare il sacco, dichiarò la resa e si fece da parte. “Se devi svegliarlo, abbi la decenza di non puzzare. Riesco a sentire il tuo odore da qui.”

“Grazie per esserti preso cura di lui, Satori.”

“Dovere… Ah, Wakatoshi?”

Il giovane Re si fermò sulla porta e lo guardò.

“Perché sei tornato?” 

“Perchè questo è il mio regno.”

Satori alzò gli occhi al cielo. “Sai bene cosa intendo,” disse. “Sei andato a Seijou per una ragione. Domani, oltre al tuo ritorno, devo annunciare l’imminente celebrazione di un matrimonio, oppure ci prendiamo ancora del tempo?” Neanche lui era certo di quello che stava dicendo. Sapeva che la magia poteva fare miracoli e il fanciullo che dormiva nelle stanze del Re sapeva dominarla. Non era certo che sarebbe bastato.

"Tornerò a Seijou in primavera,” rispose Wakatoshi. “Fino ad allora, stiamo a vedere cosa succede…”

Avevano ancora il tempo di sperare in un miracolo.




 

***




 

Hajime si riprese in fretta.

Una volta in piedi, non trovò Tooru ad aspettarlo.

Dopo la partenza del Re dell’Aquila, il Demone fanciullo s’isolò dal resto della corte. I consiglieri lo biasimavano apertamente per non essere riuscito a stipulare alcun accordo con il giovane sovrano di Shiratorizawa. Tooru li metteva tutti a tacere con la sua lingua tagliente, ma l’intera corte era in grado di ricostruire i fatti: Wakatoshi se n’era andato dopo aver visto il Principe Demone correre tra le braccia di un Cavaliere comune.

Era Tooru il problema. Lui e la sua condotta scandalosa.

Forse fu per arginare i danni che fece di tutto per evitare di restare solo con Hajime nelle settimane che seguirono.

“Da quanto tempo non vi parlate?” Domandò Issei, occupato a liberarsi delle protezioni alle braccia. A fine giornata, tutti i giovani Cavalieri si radunavano in armeria per riporre gli strumenti usati durante l’allenamento quotidiano. Era il momento peggiore per Hajime: dare di spada lo costringeva a concentrarsi su qualcosa di diverso da Tooru, ma i suoi due amici non mancavano mai di farlo tornare alla realtà.

“Quattro settimane e mezzo,” rispose.

Takahiro lo guardò esterrefatto. “Hai tenuto il conto?” 

E ho sentito la sua mancanza per ognuno di quei giorni. Hajime non lo disse per non guadagnarsi l’ennesima lavata di capo. Voleva bene a Issei e Takahiro e considerava importante il loro legame, ma quando si trattava di Tooru preferiva non parlare con loro. Era ovvio che i suoi amici non lo volessero appeso fuori dalle mura del Castello Nero e ora si vociferava che il Principe facesse saltare le alleanza a causa sua.

Evitandolo, Tooru stava facendo la sua parte. 

Hajime non poteva essere da meno. “Questa notte vengo alla locanda.”

Takahiro per poco non svenne e a Issei cadde di mano la protezione che aveva appena sganciato dal braccio. “Hai battuto la testa e non ci siamo accorti?” Domandò il primo.

“Adesso è illegale divertirsi?” Ringhiò il fanciullo umano.

Issei scrollò le spalle. “Abbiamo sempre pensato che tu non ne fossi capace.”

“Sono stanco di passare giorno e notte tra le mura di questo castello,” dichiarò Hajime. Se avesse potuto, se ne sarebbe andato dalla capitale stessa. Aveva bisogno di aria nuova, prima che il Re dell’Aquila tornasse a corte - perché era certo che sarebbe tornato. Tooru aveva fatto il suo primo passo sulla strada che lo avrebbe portato lontano da lui. Hajime non poteva rimanere immobile.

Una volta certi che non fosse uno scherzo, Issei e Takahiro si scambiarono un sorriso.

"Ti divertirai," gli assicurò Issei. "I soldati escono, si fanno conoscere in tutta la capitale, festeggiano, ridono. E, se sono fortunati, si trovano una donna disposta a riscaldarli per qualche ora."

"Siamo nell’età giusta per fare follie, ne dobbiamo approfittarne," aggiunse Takahiro. “I veterani nostalgici non fanno che ripeterlo.”

Hajime non sentiva nemmeno metà del loro entusiasmo, ma tanto valeva dare una possibilità a quella vita di sorprenderlo in qualche modo. 




 

All'inizio fu divertente.

La taverna più grande della città era presa d’assedio da tutti i Cavalieri della capitale. Fanciulli e uomini stavano condividendo un unico spazio, senza l'impiccio di titoli o ranghi che li ponessero su livelli diversi. Un giro di birre e, di colpo, era come se fossero tutti fratelli. I più grandi istruivano i più giovani su pratiche di approccio col gentil sesso, oppure li sfidavano a gare di bevute da cui non si poteva non uscire completamente devastati. Altri salivano sui tavoli e narravano gesta eroiche di cui nessuno dei loro compagni aveva memoria, ma che i novellini ascoltavano incantati.

Hajime dimenticò per un po’  il motivo dei suoi turbamenti e si lasciò trascinare da quello spirito di gruppo che, doveva ammetterlo, non era affatto male. Qualcosa di grande stava avvenendo in quel momento, qualcosa che, come ragazzini alle prime armi, lui e i suoi coetanei non avevano ancora mai sperimentato: il legame tra soldati che rende un esercito degno del suo nome.

Non aveva importanza la famiglia in cui erano nati, la morte li avrebbe guardati tutti in faccia sul campo di battaglia. A Hajime quel senso di uguaglianza piaceva, anche se non poteva sussistere tra le mura della corte di Seijou.

"Ehi, la cameriera ti sta guardando," gli fece notare Issei, dandogli una gomitata sul fianco.

"Chi?"

"Dai, non puoi non averla notata!" Aggiunse Takahiro, bevendo un altro sorso di birra dal suo boccale. 

Sì, Hajime l'aveva notata: aveva gli occhi grandi, marroni.

"Alzati, avanti..." Un'altra gomitata da Issei.

"Sì, amico, avanti!" Si aggiunse Takahiro.

"Toccatemi di nuovo e vi spacco la faccia!" Ringhiò Hajime.

"Ti farà bene," aggiunse Issei, con la solita espressione neutrale. "Per problemi come i tuoi, una bella fanciulla è meglio di una sbornia per dimenticare. Almeno, così dicono"

"Non abbiamo esperienza per parlare," disse Takahiro.

"E chi la vorrebbe?" Domandò Issei, sarcastico.

Hajime passò gli occhi da uno all'altro. "Devo avervi picchiato troppo forte nel corso degli anni..."

Takahiro sospirò. "Vai a parlare con quella ragazza e prendi da lei qualsiasi cosa ti darà. Potrebbe essere tutto o niente. La cosa positiva è che, nel tuo caso, ne varrà la pena in entrambi i casi."

Issei annuì, sollevando il suo boccale come ad augurargli buona fortuna. Hajime aveva perso il conto di quelli che aveva già buttato giù, era impressionante che agisse ancora come se fosse lucido. In quanto a lui, sarebbe potuto affogare nella botte della locanda e ancora avrebbe pensato a Tooru.

Rispose allo sguardo insistente della cameriera e questa gli sorrise.

Hajime si alzò e decise di mettere a tacere qualsiasi lume della ragione gli fosse rimasto.  




 

Se ne pentì

Rientrò al Castello Nero da solo, alle prime luci dell’alba. I suoi compagni, probabilmente, non erano venuti a cercarlo per paura di disturbare. Hajime poteva quasi vederli, mentre tornavano a casa ridacchiando tra loro e interrogandosi su quali gesta stesse compiendo. Qualunque cosa avesse fatto quella notte, Hajime non se ne sarebbe mai vantato con nessuno.

Si sentiva uno schifo, si vergognava al punto da voler cancellare quello che aveva fatto. Hajime sapeva che era una reazione esagerata rispetto agli eventi, ma questo non bastava ad allentare il nodo che gli stringeva la gola. Aveva avvicinato la fanciulla alla locanda senza alcuna aspettativa, ma lei si era dimostrata molto più intraprendente di lui.

Hajime non ricordava neanche una delle parole che si erano scambiati e nemmeno come si erano ritrovati nella dispensa, stesi sui sacchi di farina. Lei - non aveva nemmeno memorizzato il suo nome - lo aveva voluto e Hajime l’aveva assecondata. Niente di più, niente di meno. Sapeva di non essere stato il primo Cavaliere di quella ragazza e, di certo, non sarebbe stato l’ultimo. Si erano dati piacere a vicenda - forse lui se ne era preso più di lei - e si erano separati senza farsi alcuna promessa.

Nulla di complicato, perfetto per una prima - miserabilmente imbarazzante - esperienza.

Se solo Hajime non avesse chiuso gli occhi e pensato a Tooru per tutto il tempo.

Arrivato in camera sua, si lasciò cadere in fondo al letto e si prese la testa tra le mani. Aveva sentito il bisogno di piangere dal momento in cui la fanciulla lo aveva salutato, così si lasciò andare. 

Hajime era uscito dalla sua zona sicura per dimenticarsi di Tooru, e lui l’aveva accompagnato per tutto il tempo, anche tra le braccia di un’altra persona.

Quella notte era la prova che Hajime non sarebbe mai stato libero. Mai.

Tooru era suo, non per capriccio o per imposizione, ma perché lo aveva dentro. Per liberarsi di lui, di quel legame che gli spezzava il respiro, avrebbe dovuto strapparsi il cuore dal petto.

“Iwa-chan…” 

La mano del Principe tra i suoi capelli lo fece trasalire.

Hajime sollevò il viso e Tooru si accorse delle lacrime che gli bagnavano le guance. 

“Perché stai piangendo?” Domandò l’erede al trono, inginocchiandosi di fronte a lui. Aveva i capelli in disordine e i vestiti da camera addosso.

“Scusami,” mormorò Hajime, guardando qualunque cosa che non fosse il suo viso. “Ti ho svegliato.”

Tooru scosse la testa, come a dire che non aveva importanza. “Che cosa è successo?” Strinse la mano del suo Cavaliere.

Fu troppo per Hajime da sopportare. Si alzò in piedi e mise tra loro tutta la distanza che quella camera da letto gli permetteva. “Ti sarei grato se mi facessi trasferire negli alloggi degli altri Cavalieri semplici.”

“Per quale ragione?” Domandò Tooru. 

Lo aveva preso in contropiede, Hajime lo comprese dal tono della sua voce. “Perché io non ce la faccio più, Tooru.” Tentò di non essere codardo e di guardare il Principe negli occhi. “Quando Wakatoshi tornerà, tu dovrai avere occhi solo per lui.”
“Ti ci metti anche tu a darmi ordini, adesso?”

“Prima che questo avvenga, io devo uscire dalla tua vita.”

“Non è una decisione solo tua!” Urlò Tooru. “Il cuore di Wakatoshi non è libero, così come non lo è il mio!”

“Ma sarai tu a pagarne le conseguenze, se quest’alleanza non va a buon fine,” gli fece notare Hajime. “Te l’ho detto fin dal principio e te lo ripeto: non sarò io la tua rovina,” inspirò profondamente dal naso, “ma non posso stare qui, a un passo da te, ad aspettare che diventi di un altro uomo.”

Tooru aprì e chiuse la bocca un paio di volte. Allora non farlo, avrebbe voluto dire. Fammi tuo e non sarò di nessun altro.

Erano già arrivati a quel punto, Tooru sapeva cosa sarebbe seguito e non credeva che il suo cuore avrebbe retto un altro no. Wakatoshi poteva essere di un altro, ma quell’amore - sempre ammesso che lo fosse - non lo aveva reso indifferente a lui.

“È alla mia altezza,” disse Tooru. “Wakatoshi è alla mia altezza.” Lo credeva davvero ed era molto di più di quello che si era aspettato da un pretendente scelto dal consiglio.

Hajime serrò i denti sul labbro inferiore e annuì. “È giusto così, Tooru.”

Il Principe Demone credeva che non lo fosse affatto, ma era passata da tempo la stagione dei sogni e delle grandi speranze. “Domani farò trasferire le tue cose altrove.”





 

La primavera si prese il suo tempo per arrivare.

Alla fine di marzo, la neve non si era ancora sciolta e Tooru aveva perso le idee su come scacciare la noia. Senza Hajime, non gli era rimasto nessuno di fidato con cui parlare. Aveva riposto nei suoi allenamenti con l’arco tutte le sue speranze, era finito col ferirsi le dita a causa del freddo e del troppo esercizio e aveva dovuto rinunciare.

Tetsuro gli aveva scritto settimane prima per sapere della relazione clandestina col suo Cavaliere. Tooru aveva concluso che anche Nekoma doveva essere piuttosto noiosa, se il Principe ereditario aveva bisogno di materiale da pettegolezzo con cui intrattenersi. Aveva gettato la lettera nel fuoco e non si era disturbato a rispondere.

Un tempo, avrebbe speso parte del suo tempo ad assistere all’allenamento dei suoi Cavalieri, ma solo il pensiero d’incrociare gli occhi verdi di Hajime era come una pugnalata al cuore.

Avvolto nella sua solitudine e circondato da consiglieri sempre più arcigni, Tooru cercò rifugio nella biblioteca di corte, tra i libri con cui - prima dell’arrivo di Hajime - sua madre aveva riempito la sua infanzia. 

Fu nel bel mezzo di quella situazione a stento sopportabile che Wakatoshi fece ritorno.

“Ne avevo uno simile anche io.” 

La voce del Re dell’Aquila raggiunse Tooru mentre era chino sul vecchio libro di miti e leggende che sua madre era solita leggergli da bambino. Non sollevò immediatamente lo sguardo.

“Era mio padre a leggermelo,” aggiunse Wakatoshi.

Tooru sorrise e guardò il suo ospite. “Che cosa ti porta qui, straniero?” Domandò. “Dovere o desiderio?” Tanto valeva saperlo subito.

“Qualcosa a metà tra i due,” rispose Wakatoshi. “Mi spiace, non so darti una risposta migliore.”

Tooru gli fece cenno di avvicinarsi. “La tua gente crede a questa leggenda?” Domandò, mostrando al giovane sovrano l’illustrazione di una grande aquila reale. “Qui c’è scritto che i tuoi antenati riuscivano a volare e a passare questo potere, se lo desideravano.”

Wakatoshi prese il libro tra le mani. Tooru piegò le ginocchia contro il petto per dargli modo di sedersi sul davanzale, accanto a lui. “Mio padre era convinto che scorresse della magia nel nostro sangue,” raccontò. “Diceva che il destino stava solo aspettando il Principe giusto per trasformare queste antiche leggende in carne e sangue.”

“Se tu avessi queste ali,” Tooru indicò l’aquila disegnata sulla pagina ingiallita, “me lo diresti, Wakatoshi?”

“Forse…” Rispose il Re dell’Aquila.

Tooru appoggiò il mento alle ginocchia. “Parli sempre di tuo padre, ma mai di tua madre,” notò.

“Non eravamo molto legati,” si limitò a dire il giovane sovrano. “Non era una madre amorevole.”

Tooru scrollò le spalle. “Tu hai avuto un padre. Io una madre. Le nostre storie si compensano.”

Wakatoshi chiuse il libro e lo guardò dritto negli occhi. “Il tuo Cavaliere?”

Tooru si limitò a scuotere la testa. “La tua persona?”

Il Re dell’Aquila impiegò un lungo minuto a trovare una risposta soddisfacente da dargli. “Avevi ragione,” disse. “Gli ho fatto del male.”

Il Principe non seppe cosa dire per un po’. Avrebbe voluto sapere di più, capire se quella persona era uscita dalla vita di Wakatoshi come aveva fatto Hajime con lui, se il giovane sovrano aveva sofferto. Tooru aveva pianto ogni notte per settimane, ma l’altro non aveva bisogno di saperlo.

“Ora puoi dirmi la vera ragione per cui non potevi stare insieme a lei?” Domandò Tooru.

Lui,” lo corresse Wakatoshi. “Non può nascere nulla da noi. È questa la ragione.”

Tooru accettò quella verità senza nessuna particolare reazione. Punto a capo. Hajime non c’era più. L’altro non c’era più. Erano rimasti solo loro due, Tooru e Wakatoshi, e la pagina bianca su cui avrebbero scritto la loro storia.

Tooru sorrise. “Quale di quelle leggende è la tua preferita?” Era un buon punto da cui ripartire.





 

Hajime non aveva più messo piede in biblioteca dal giorno in cui lui e Tooru avevano finito le lezioni. Il destino volle che, dopo anni, si ritrovasse a passare di lì proprio quel giorno. La voce di Tooru si udiva fin dal corridoio, attraverso la porta socchiusa: era allegro e parlava con naturalezza. Il Cavaliere si avvicinò all'uscio lentamente, stando ben attento a non fare rumore. Vide Tooru seduto sul davanzale, come un ragazzino sgraziato senza titolo. Aveva fatto ammattire i loro precettori con quell’innocuo vizio, ma Hajime non ne era sorpreso.

Tooru era bellissimo mentre sorrideva in quel modo, senza ombre a oscurare i suoi grandi occhi marroni. C’era un dettaglio che rovinava la perfezione di quell’immagine: il fanciullo dalle spalle larghe che sedeva accanto al suo Principe.

Il Re dell'Aquila ascoltava incantato, mentre Tooru parlava. Seppur la sua espressione fosse quella indecifrabile con cui si era presentato alla corte di Seijou quel primo giorno, Hajime poteva vedere che la luce nei suoi occhi era cambiata. Tooru parlava di tutto e niente con quel sorriso che lo avrebbe fatto entrare nelle grazie di chiunque e Wakatoshi non riusciva a togliergli gli occhi di dosso.

Il giovane Re si mosse con gentilezza, ma a Hajime sembrò che un colpo di cannone fosse esploso proprio lì, accanto a lui. Le dita di Wakatoshi sfiorarono la guancia del Principe e aggiustarono una ciocca di capelli ribelli dietro l’orecchio. 

Sorpreso, Tooru smise di parlare ma non di sorridere.

Hajime non rimase per guardare oltre..




 

***




 

Per Wakatoshi, tutto era cominciato con la totale assenza d’interesse.

Quel fanciullo Demone di appena quattordici anni non sarebbe dovuto essere altro che il mezzo necessario per raggiungere un fine più grande. C’era già una persona nel cuore del Re dell’Aquila e tutto quello che aveva desiderato, cavalcando fino al Castello Nero, era un figlio da poter crescere con lui. Un figlio che, era ormai impossibile ignorarlo, non potevano avere. Tutto quel che Tooru - conosciuto dai Regni liberi solo per l’antichità della sua stirpe - doveva fare era quanto di più semplice e squallido si richiedesse a un Consorte.

Wakatoshi sapeva che il Principe Demone era da solo, che non aveva alleati nel consiglio che si preoccupassero del suo bene. Una volta stretta quell’alleanza matrimoniale, nessuno avrebbe speso un pensiero per Tooru. 

Un e Wakatoshi avrebbe stretto in pugno lui e l’intera Seijou. Era un piano semplice, che non prevedeva alcuna violenza e che avrebbe portato il massimo profitto col minimo sforzo a entrambe le parti. L’unico a pagarne il prezzo sarebbe stato il Demone fanciullo, un Principe che nemmeno la sua corte sembrava voler proteggere.

La prima volta che Wakatoshi guardò Tooru negli occhi, lo fece ripetendo a se stesso che quella storia non era una questione di cuore.




 

Fu il suo primo errore come Re.




 

Wakatoshi di Shiratorizawa s’innamorò di Tooru di Seijou durante l’ultima primavera della loro fanciullezza. 




 

Tooru era nato per essere Re. Wakatoshi lo comprese da molte cose.

Il modo sicuro e disinibito in cui camminava accanto a lui era una di queste. Non gli importava che fosse il sovrano più giovane e potente dei Regni Liberi, o che Shiratorizawa fosse una potenza imbattuta da secoli. Tooru camminava a testa alta come se potesse vantare un potere altrettanto grande e, alle volte, arrivava a sfidarlo.




 

Wakatoshi strinse le labbra in un’espressione dolente. 

La ferita alla mano gli costrinse a mollare l’elsa che stringeva nel pugno. La spada cadde a terra con un rumore metallico. il Re dell’Aquila la fissò, contrariato.

Quando sollevò lo sguardo, vide il trionfo negli occhi scuri del suo sfidante. 

Tooru sorrise, neanche avesse compiuto l’impresa che avrebbe reso il suo nome immortale. Infilò la mano tra i capelli umidi di sudore, passò la lingua su quelle labbra che chiedevano solo di essere baciate. Wakatoshi era solito prendersi le sue rivincite con violenza ma, con la vittoria addosso, Tooru era la cosa più bella che avesse mai visto.

Cercò d’immaginare lo splendore che sarebbe diventato sul suo primo campo di battaglia. Perché, suo malgrado, Tooru sarebbe divenuto un Re per brillare, per essere grande. 

Wakatoshi desiderava averlo al suo fianco come aveva desiderato poche cose in vita sua.

“Non dici nulla, Re dell’Aquila?” Domandò il Principe Demone, rinfoderando la spada. “Ti ho lasciato senza parole?”

Sì, ma non solo.

“Ho voglia di baciarti,” confessò Wakatoshi.

Tooru smise di sorridere, le sue gote si colorarono. Scansò il nervosismo in fretta, simulando una risatina. “Non dovresti chiedermelo,” disse. “Sei un Re, baciami e basta.”

Wakatoshi ci provò, ma non appena tentò di toccare il viso del Principe, questi si fece indietro.

Tooru agitò l’indice, come se stesse sgridando un bambino. “Adesso è troppo facile,” disse. “E non sarebbe nemmeno piacevole.”

Wakatoshi si sentì offeso, ma cercò di nasconderlo. “Come fai a dirlo?”

Tooru se ne accorse eccome, ma non lo derise. “Perché voglio sentirlo anche io, come lo stai sentendo tu in questo momento. Riesci a capire?”

“No,” ammise Wakatoshi.

Tooru alzò gli occhi al cielo. “Quando succederà, te ne accorgerai.”




 

Wakatoshi creò l’occasione perfetta in modo del tutto involontario.

Non era mai stato bravo a prendersi cura di se stesso e non diede particolare importanza alla ferita che Tooru gli aveva provocato. Dopo tre giorni, fu lo stesso Principe Demone ad accorgersi che non usava la mano come si doveva. Durante la cena, Wakatoshi dimostrò di avere difficoltà nel semplice atto di afferrare il coltello.

Quando Tooru diede ordine ai servitori di lasciarli da soli, il Re dell’Aquila sapeva che gli sarebbe toccata una lavata di capo.

“Glorificato a quattordici anni e per nulla in grado di medicare una ferita superficiale,” disse Tooru, irritato.

Non fu gentile mentre applicava l’unguento sulla ferita infetta. Wakatoshi si costrinse a sopportare in silenzio, anche se era difficile non sottrarre la mano dalla stretta del Principe Demone. Per sua fortuna, quando arrivò il momento della fasciatura, il tocco di Tooru si fece più gentile.

“Sei abile nel farlo,” commentò Wakatoshi.

“Perché l’ho fatto innumerevoli volte,” rispose Tooru, con un sorriso nostalgico.

Il Re dell’Aquila sapeva che si riferiva a Hajime, il Cavaliere umano con cui non aveva mai avuto occasione di parlare. La persona di Tooru, così era abituato a immaginarlo, quella a cui il Demone aveva rinunciato per stare con lui.

“Il talento di un Primo Cavaliere è nelle sue mani,” disse il Principe, passando il pollice sul palmo fasciato. “Devi averne più cura, Wakatoshi.”

Quando Tooru lo lasciò andare, il giovanissimo Re ebbe l’istinto di afferrarlo di nuovo. Il Principe Demone fu fuori dalla sua portata prima che potesse riuscirci.

“Buonanotte, Wakatoshi,” lo accomiatò.

Il Re dell’Aquila sapeva che qualcosa lo aveva turbato, ma decise di non indagare oltre. Avevano ancora tempo per conoscersi, per affrontare le questioni che erano rimaste sospese.

Come il fantasma di quel Cavaliere di nome Hajime.



 

Wakatoshi non sapeva se era stato fatto volontariamente, ma mentre Tooru risiedeva negli appartamenti che erano appartenuti alla Regina Demone, a lui erano toccati quelli del suo Consorte. Il Re dell’Aquila si sarebbe accontentato di molto meno, ma intuì che quello fosse un modo del consiglio per lusingarlo.

A quel punto della storia, tutti erano in ansia di ricevere qualche notizia ufficiale da parte dei due fanciulli reali.

L’inverno era finito da tempo, la neve era divenuta un lontano ricordo e, in poche settimane, sarebbe arrivata l’estate. Corteggiamenti con un valore politico di quella portata erano solitamente molto brevi - c’era poco da fare quando vi era una possibilità di scelta solo apparente - ma Wakatoshi e Tooru si erano scelti per davvero. Inaspettatamente, forse.

Wakatoshi passò la dita sulla fasciatura stretta intorno alla sua mano e si aggrappò al ricordo del calore di Tooru. Il desiderio di averne di più lo avrebbe sottratto al sonno per il resto della notte, ne era certo. 

Il Principe Demone seppe sorprenderlo una volta di più.

Bussarono alla porta. Wakatoshi andò ad aprire e Tooru era lì.

“Too-“

Fu il Principe Demone a baciarlo. Il giovane Re non poté fare altro che capitolare contro quelle labbra morbide. Dapprima, fu un contatto quasi innocente, tanto per mettere in chiaro chi dei due guidava la danza. II tempo di uno sguardo e Tooru si fece più audace: passò la lingua sul labbro inferiore dell’altro. 

E Wakatoshi seppe che gli avrebbe concesso ogni cosa. “Che cosa stai facendo, Tooru?” Se lo faceva parlare, forse avrebbe avuto il tempo di riprendere il controllo di sé.

“Sono un Re,” rispose Tooru, a pochi millimetri dalla sua bocca. “Mi prendo ciò che è mio di diritto.” Un sorriso oscuro rese quel viso più attraente di quanto già non fosse. “Siamo stati promessi l’uno all’altro da forze fuori dal nostro controllo, ma non pensare mai, neanche per un istante, che tu mi serva per il potere. Quello posso benissimo conquistarlo da me.”

Wakatoshi sorrise a sua volta, scaldato dalla consapevolezza che il suo trono non lo condannava più alla solitudine. Tooru gli era vicino più di chiunque altro perché era come lui. Erano eguali in un mondo di Principi e Re che mai sarebbero stati alla loro altezza.

Wakatoshi tirò il Principe verso di sé. “Che cosa vuoi?”

“Piacere,” rispose Tooru, prima di un altro bacio. “Ma non voglio dover pensare alle conseguenze, non ancora. Per quello ci sarà tempo dopo il matrimonio.”

Ormai era certo, un matrimonio ci sarebbe stato e sarebbe nato un Impero tra i regni. 

Ma quella notte nulla aveva importanza, all’infuori di loro.

Presto, il resto del mondo avrebbe raccontato la loro storia.




 

Quando Wakatoshi aprì gli occhi, il sole era alto.

Tooru era già sveglio, seduto contro i cuscini con le ginocchia strette al petto e lo sguardo rivolto alla finestra. Il Re dell’Aquila gli accarezzò il braccio e quegli occhi scuri furono immediatamente su di lui.

“Buongiorno.” Il Principe Demone gli passò le dita tra i capelli.

Wakatoshi gli afferrò il polso e posò un bacio sul palmo aperto: le mani di Tooru erano più morbide delle sue, meno avvezze all’arte della spada. 

Averle addosso era stato un incanto, scoprire la loro inesperienza era stato inebriante. 

Neanche il sovrano di Shiratorizawa poteva vantare una grande conoscenza nell’arte dell’amore, ma forse il Principe non se ne era neanche accorto.

Erano entrambi così giovani, con tutto il tempo del mondo dalla loro parte. Wakatoshi però era impaziente di ripetere l’esperienza, di scoprire dettagli del corpo di Tooru che ancora non conosceva. Quando il Principe si mise a cavalcioni su di lui, seppe di non essere l’unico a provare quel desiderio.

“Sai qual è la parte più divertente?” Domandò il Demone.

“No, qual è?”

“Nessuno è venuto a bussare alla tua porta, ma sono sicuro che si siano già accorti che i miei appartamenti sono vuoti. È così disdicevole da parte mia. I vecchi del consiglio ne saranno disgustati.”

“Ti piace così tanto creare caos, Tooru?”

“Sono un Demone.” Il Principe si accoccolò contro il suo petto. “Comincia a farci l’abitudine.”

Wakatoshi gli accarezzò la schiena nuda, tracciando la fossetta della colonna vertebrale con la punta delle dita. Nessuno dei due aveva alcuna fretta di alzarsi, rendersi presentabile e affrontare il mondo, ma non c’erano dubbi che quest’ultimo li stesse aspettando.

“Parlerò con il consiglio,” disse Wakatoshi.

“Quando?”

“Oggi stesso. Dirò loro che ho intenzione di prendere la tua mano.”

Tooru ridacchiò. “Si usa chiedere la mano di qualcuno.”

“Non la chiederò a loro,” ribatté Wakatoshi. “La chiederò a te.”

Il Principe si sollevò sui gomiti per guardarlo. “Che intenzioni hai, Re dell’Aquila?”

“Fai organizzare un ballo. Scegli la data che preferisci. M’inginocchierò al tuo cospetto di fronte alla tua corte e ai tuoi alleati.”

Gli occhi di Tooru s’illuminarono. “Una proposta di matrimonio solenne.”

“Adatta a te.” Wakatoshi aggiustò una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio del Demone fanciullo. “Se ti dicessi che siamo destinati a dare alla luce colui che regnerà su tutti i Regni Liberi, mi crederesti?”

Tooru divenne serio. “Nostro figlio?”

Wakatoshi annuì. “Siamo destinati a fare grandi cose, io e te.”

“Lo dici come se avessi sbirciato nel nostro futuro.”

Il Re dell’Aquila si portò la mano del suo promesso alle labbra. “Forse l’ho fatto.”




 

Tooru scelse il giorno del suo compleanno come data per il grande evento. Il consiglio apprese quella novità con entusiasmo e, ben presto, la notizia dell’imminente unione di Seijou e Shiratorizawa raggiunse tutti i Regni Liberi. 




 

Quella fatidica notte d’estate, Hajime indossò l'armatura dei Cavalieri di Seijou per la prima volta. Si era immaginato quel momento fin da bambino, quello in cui si sarebbe guardato allo specchio e avrebbe visto un giovane uomo che aveva trovato il suo posto nel mondo. 

Non fu così.

Quell’armatura gli donava come se fosse nato per portarla, ma non riusciva a essere orgoglioso di se stesso. Hajime si sentiva come il più umiliato dei perdenti. La sua posizione non era migliore di quella di un ostaggio di guerra che viene condotto al patibolo. I frammenti del suo cuore erano solo il monito per chiunque avesse osato camminare sulla sua stessa strada.

Tappeti rossi erano stati stesi in ogni dove, Hajime non li notò affatto. Percorse i corridoi deserti a passo di marcia: era in ritardo e non voleva che il suo pessimo tempismo fosse troppo chiacchierato. Quando si ritrovò ai piedi delle scale che conducevano agli appartamenti reali, indugiò un attimo. Sollevò lo sguardo, diede un ultimo addio alla vita che era stata sua fino allo scorso inverno. 

Hajime strinse i pugni e fece un passo in avanti. Solo uno.

Fu allora che si accorse di non essere solo.

Wakatoshi emerse dalle ombre dell’atrio. Vestito come si addiceva a un uomo del suo rango, sembrava ancor più alto. 

Il Re e il Cavaliere si scambiarono un’occhiata più lunga del dovuto. Fu Hajime a spezzare l’immobilità con un inchino affrettato, deciso ad andarsene di lì prima che Tooru scendesse quelle scale.

Ma il Re dell’Aquila non era famoso per la sua pietà.

"Hajime Iwaizumi.” Wakatoshi pronunciò il suo nome come se fosse quello di un cane. 

Il Cavaliere fu costretto a fermarsi, ma non diede all’altro la soddisfazione di tenere lo sguardo basso.

"Tutti questi mesi e non ci hanno mai presentati ufficialmente," disse Wakatoshi.

“Sono solo un Cavaliere come tanti altri, Maestà,” ribatté Hajime. “Il Principe deve averlo trovato sconveniente.”

“Non vedo nulla di sconveniente nel fare la conoscenza di un uomo che ha creato la propria fortuna, andando contro il destino stesso.”

Per Hajime, era già abbastanza difficile vedere il Re dell’Aquila prendersi la mano di Tooru. Non credeva di poter sopportare anche le sue adulazioni. “Ho fatto tutto quello che era in mio potere per essere degno del mio Principe, nulla di più,” disse. “Ho giurato di proteggerlo. Era mio dovere divenire abbastanza forte per farlo.”

Wakatoshi si avvicinò di un paio di passi. “Sei l’unico ad averlo fatto. Ti sono grato per questo, Cavaliere.”

Hajime non sapeva che farsene della sua gratitudine, né della cortesia con cui gliela rivolgeva. “C’è qualcosa di cui volete parlarmi, Maestà?” 

Voleva che quella tortura finisse. Voleva smetterla di ripetere a se stesso che era giusto così, che Tooru era destinato al Re dell’Aquila e che non aveva più bisogno di lui.

“Lo conosci da tutta la vita,” disse Wakatoshi. “Tu pensi davvero che sedere accanto al mio trono gli basterà?”

Hajime non riusciva a crederci. Era insicurezza quella che il sovrano di Shiratorizawa gli stava mostrando?

“Non siete il suo Re,” disse il Cavaliere e lo fece con tutto il rispetto. “Rammentate questo: non siete il suo Re. Se lo dimenticherete, lo perderete.” Lì iniziava e finiva il suo contributo a quell’unione.

Wakatoshi, per nulla offeso dalle sue parole, annuì.

"Scusami per il ritardo, Wakatoshi!" Cinguettò Tooru, scendendo le scale.

Per Hajime, quello fu il colpo di grazia.

Vedendoli insieme, Tooru se ne rimase a guardarli a metà della rampa di scale, bello come non lo era stato mai.

No, non è vero pensò Hajime. Bello lo era sempre stato, quella era solo la prima volta che lo vedeva così.

Le spalle di Tooru erano coperte dal mantello rosso in pelliccia di ermellino, simbolo degli eredi al trono di Seijou; sulla testa di capelli ricciuti sfoggiava la corona dello stesso colore. 

Dimentico di tutto, Hajime prese a salire le scale. 

Non c'era più il Re dell'Aquila. Non c’erano più i doveri di entrambi, quelli che avrebbero voluto Tooru su un trono e Hajime nell'ombra. 

C’erano solo loro due.

Lì, a un passo dalla fine di ogni cosa, Hajime dichiarò la resa contro se stesso: si era nascosto dietro un muro di ragionevolezza, ma da ciò che provava non c’era alcuna via di scampo. 

Hajime amava Tooru, giusto o sbagliato che fosse.

Il Cavaliere porse la mano al suo Principe. Tooru sorrise, come se non avesse aspettato altro per tutta la vita.

“Hajim-“

Wakatoshi scansò il Cavaliere da una parte. "Andiamo," disse, afferrando la mano del Principe Demone. 

Hajime cercò gli occhi di Tooru ma non li trovò. 

Mentre scendeva le scale al fianco del Re dell'Aquila, il Principe non si voltò neanche una volta.





 

Non va bene.

Tooru non riusciva a respirare.

Non va bene. Non va bene. Non va bene.

“Tooru!” La voce di Wakatoshi lo fece trasalire. Fu molto incisivo nel pronunciare il suo nome. Nonostante la calma apparente, il Principe si accorse che era arrabbiato.

“Non era niente,” disse Tooru, senza rendersi conto che giustificandosi non faceva che peggiorare la sua situazione.

Wakatoshi lo fissò e basta.

“Non era niente,” ripeté Tooru, la sua voce tremava. “Wakatoshi, io-“

Le porte della sala del trono si aprirono e la folla li accolse con un caloroso applauso. 

Tooru provò paura, di quella paralizzante, che annebbia i sensi e oscura la mente. Si era sentito così solo una volta nella sua vita: a fianco del letto di morte di sua madre, quando il suo futuro e quello della sua gente erano stati messi nelle sue mani di bambino. Quella volta, erano state le braccia di Hajime a sorreggerlo.

Ora il suo Cavaliere non c’era, lo aveva perso nel momento in cui Wakatoshi lo aveva preso per mano e non era riuscito a rifiutarlo.

Tooru era solo. Non poteva biasimare nessuno per questo, tranne se stesso.

Indossò un sorriso di cortesia da mostrare a chi si avvicinava: nobili che gli rivolgevano la parola per dovere, ma che non avevano la minima idea di chi fosse davvero. 

In quella stanza, l’unico che poteva dire di conoscerlo era il fanciullo che lo teneva per mano e che lo spaventava più di qualsiasi cosa al mondo. 

Wakatoshi si era accorto che indossava una maschera, che qualcosa lo turbava. Parlava a stento e solo se strettamente necessario. I suoi occhi penetranti non lasciavano mai andare il Principe Demone, ma quest’ultimo faceva l’impossibile per non rispondere al suo sguardo. 

Tooru era bravo a fingere - aveva dovuto imparare per sopravvivere - ma nella sua mente era ancora su quella scalinata con Hajime. Se lo avesse avuto lì, lo avrebbe preso a schiaffi, perché non poteva rifiutarlo due volte - avendo anche la presunzione di sapere quale fosse il suo bene - per poi guardarlo in quel modo. 

È colpa sua, continuava a ripetersi Tooru, un sorriso falso dietro l’altro. In fondo alla sua testa, la voce di sua madre gli rispondeva per le rime: prenditi le tue responsabilità, Tooru. Sei tu che in quegli occhi verdi ci vedi il mondo intero.

“Tooru?”

Quando il Principe Demone tornò alla realtà, la folla taceva. Si accorse di essere al fianco del Trono Nero e che il Re dell’Aquila aveva poggiato un ginocchio a terra. 

Tooru sbatté le palpebre un paio di volte. Se Wakatoshi aveva parlato, non lo aveva udito. 

Eccolo, si disse. È giunto il momento.

Quello in cui avrebbe smesso di essere un Principe nelle mani del proprio consiglio e non si sarebbe accontentato di ereditare la sua corona, ma se la sarebbe guadagnata. Poteva avere paura, ma ciò che amava davvero lo aveva già perso. 

“No...”

La prima volta che Tooru pronunciò quella parola lo fece a bassa voce. Wakatoshi lo udì, ma non si mosse. 

“No.”

La seconda volta, tutti quanti sentirono. 

Eppure, Wakatoshi rimase immobile. Sapeva che Tooru era arrogante. Aveva imparato che al Principe Demone piaceva giocare col fuoco anche a costo di scottarsi. Era una delle ragioni per cui lo voleva al suo fianco.

“No.”

Ma Tooru non stava affatto giocando.

Nel momento in cui Wakatoshi si alzò in piedi, finì ogni cosa.

Dalla folla si alzò un fastidioso brusio, ma a Tooru non sarebbe potuto importare di meno. Tutta la sua attenzione era per il fanciullo che aveva davanti: lo aveva tradito, lo aveva umiliato pubblicamente e sapeva di dovergli almeno una spiegazione. Si tolse la corona dalla testa e la gettò sul Trono Nero. “Vieni, Wakatoshi.”

Nessuno osò trattenerli.





 

Tooru lo guidò fino ai giardini reali, dove nessuno li avrebbe disturbati. Il silenzio e l’aria fresca furono un buon cambio di atmosfera, ma non bastò a rendere più semplice ciò che il Principe doveva fare. Fu lui il primo a parlare: “mi dispiace,” era sincero. “Mi dispiace, ma non posso.”

Wakatoshi teneva i pugni stretti e lo guardava con la stessa espressione di quel primo giorno, di fronte alla scacchiera. “L’ho fatto perché ero certo che lo volessi anche tu.” Non urlava, ma la sua voce era glaciale.

“Lo so!” Tooru non conosceva un modo di giustificarsi che agli occhi del Re fosse ragionevole - no, agli occhi del mondo intero - ma era stanco d’indossare un titolo vuoto, di sentirsi impotente anche con un corona sulla testa. “Non ti sei sbagliato,” aggiunse. “Tu non hai sbagliato nulla, Wakatoshi.”

Tooru lo aveva sedotto, si era sentito lusingato dalle sue attenzioni. Wakatoshi gli era solo venuto incontro e si erano trovati nel mezzo. Sì, si erano trovati, questo Tooru non poteva negarlo. Quel fanciullo dallo sguardo penetrante gli era piaciuto, lo aveva voluto e se lo era preso. 

Ma non era stato abbastanza. Nulla che non fosse Hajime lo sarebbe mai stato.

“È per quel Cavaliere, non è vero?” Wakatoshi non era uno stupido.

Tooru non poteva trattarlo come tale. “Mi dispiace,” ripeté, ignorando le lacrime che pungevano agli angoli degli occhi. “Non posso, Wakatoshi.”

“Ti sbagli,” ribatté il Re dell’Aquila. “Il nostro fato è già scritto, Tooru. Siamo destinati a stare insieme, lo capisci?”

Tooru scosse la testa. “Sono solo belle storie di cui ti se conv-“

“Smettila!” Quella fu la prima volta che Wakatoshi alzò la voce in sua presenza. “Ragiona, Tooru. La strada che stai scegliendo ti porterà solo dolore.”

“Sono stanco di sentirmelo ripetere!” Anche il Principe Demone aveva la sua parte di rabbia da sfogare. Wakatoshi non ne era la causa ma se continuava a provocarlo, ne avrebbe pagato le conseguenze. “La mia vita e il mio destino appartengono a me. Solo a me!” Esclamò. “E non permetterò mai più a nessuno di decidere al posto mio!”

Negli istanti che seguirono, ogni emozione - compresa la rabbia - scomparve dal viso di Wakatoshi. I suoi occhi, seppur ancora penetranti, divennero vuoti, freddi. “A te la scelta, Principe Demone,” disse, poi estrasse la spada.

Tooru sgranò gli occhi. “Wakatoshi…” Chiamò, spaventato.

“Mi hai umiliato di fronte alla tua corte e ai tuoi alleati,” gli ricordò il Re dell’Aquila. “È un mio diritto chiedere un risarcimento.” Si abbatté sul Principe con violenza.

Se Tooru non avesse avuto i riflessi abbastanza pronti da riuscire a impugnare la sua lama, sarebbe finito col ventre squarciato. “Wakatoshi, fermati!”

Il Re dell’Aquila non voleva sentir ragioni. “Battiti.”

“Sei lo spadaccino migliore dei Regni Liberi, solo un folle si-“

“Battiti!”

Fu uno scontro impari fin dal principio. 

Tooru continuò a far appello alla ragione del Re per tutto il tempo, ma questi non gli riservò alcuna pietà. Non ci volle molto perché si trovasse con la schiena a terra, disarmato e la lama del suo avversario puntata alla gola. Tooru sentì il sapore del suo stesso sangue sulla lingua.

Era ironico: Hajime aveva minacciato di spaccargli la faccia tante volte e non lo aveva mai toccato; Wakatoshi era sempre stato cordiale con lui ed era il primo a mettergli le mani addosso con violenza. Tooru si sentì così ridicolo a paragonare gli unici amanti che avesse mai avuto proprio in quel momento, senza che fosse riuscito ad avere fino in fondo né l’uno né l’altro.

Si accorse di star ridendo solo quando Wakatoshi glielo fece notare. “Che cosa ci trovi di così divertente?”

“La prima volta che ci siamo parlati, quando mi hai raccontato della tua eroica impresa nelle terre del Nord, pensavo lo avessi fatto per spaventarmi,” disse Tooru, guardandolo dal basso. Forse era la botta in testa o l’adrenalina, ma non lo temeva più. “E mi hai spaventato. Ho immaginato te bambino, con la testa decapitata del tuo nemico e ho pensato che fosse la genesi perfetta di un mostro.”

Wakatoshi lasciò cadere la spada e piegò un ginocchio a terra. Afferrò il Principe Demone per il colletto, senza alcuna gentilezza. “E tu, che hai scelto di farti toccare da me, che cosa sei?”

“Non lo so neanche io,” ammise Tooru. Doveva avere il labbro spaccato perché ogni parola era un dolore e una nuova ondata di sangue sulla lingua. “Ma quando mi hai detto di amare qualcuno, ho cambiato idea. Mi sono detto: anche io potrei trasformarmi in un mostro per proteggere la persona che amo.”

Wakatoshi lo guardò e Tooru ebbe l’impressione di vedere un guizzo di pietà nei suoi occhi. Non per lui, ma per loro.

“Ci hai condannati entrambi, Tooru.”

Qualcuno li divise con violenza. 

Tooru ricadde a terra e impiegò un istante per riprendere il controllo dei suoi movimenti. 

“Come hai osato, bastardo?!”

La voce rabbiosa di Hajime gli spezzò il respiro. “No,” mormorò, costringendosi in piedi. “No!” Non poteva scontrarsi con Wakatoshi, non ne sarebbe mai uscito vincitore.

Qualcun altro altro accorse e si sorprese di sentire una mano amica sulla spalla. “Tooru, stai bene?” Era Tetsuro ed era in compagnia di Kenma.

Lui non era importante, ma Hajime sì. Doveva essere fermato, prima che Wakatoshi gli facesse del male.

“È disarmato!” Esclamò una voce che Tooru non riconobbe. “È disarmato, Hajime, fermati!”

“È un Re, che ti salta per la testa?!”

“Lasciatemi andare, idioti!”

Una volta in piedi, Tooru vide che la faccia di Wakatoshi non versava più in una condizione migliore della sua. Hajime teneva la spada sollevata, pronto a combattere, ma Issei e Takahiro lo trattenevano.

Il Re dell’Aquila incrociò il suo sguardo, per nulla impressionato dalla confusione provocata dai tre Cavalieri. Recuperò la sua spada da terra e si voltò, scomparendo nell’ombra.

D’istinto, Tooru lo seguì quasi correndo, ma non lo raggiunse mai.

Wakatoshi di Shiratorizawa se ne andò dal Regno di Seijou come era arrivato: senza far rumore. 




 

“I giardini si trovano tra il castello e l’antica torre di vedetta. Ai lati c’è il vuoto. Non può essersene andato, a meno che non abbia le ali!” Esclamò Takahiro, nel tentativo di ricostruire quello che era avvenuto là fuori.

Solo Issei lo stava a sentire. "Perlustriamo ogni piano,” propose. “Se è ancora qui, non può nascondersi in eterno.”

Tooru non udiva la voce di nessuno. Nella sua mente c’era il caos più assoluto: aveva fatto saltare l’unione che avrebbe potuto cambiare la sorte di tutti i Regni Liberi, Wakatoshi era scomparso nel nulla sotto i suoi occhi e Hajime…

Si fermò di colpo. “Dov’è Hajime?” Domandò, voltandosi.

“Sta cercando il Re dell’Aquila, Altezza,” rispose Takahiro. 

Tooru fece per tornare sui suoi passi, ma Tetsuro lo trattenne. “Il tuo Cavaliere starà bene,” gli promise, sebbene il suo sorriso fosse tutto meno che rassicurante. “In veste di tuo alleato, devo ricordarti che la tua sala del trono è affollata da gente confusa sugli ultimi avvenimenti.”

Tooru non fu mai felice come in quel momento dell’assenza della corte di Shiratorizawa. Se Tetsuro si mostrava al suo fianco, l’alleanza tra Seijou e Nekoma non correva alcun pericolo. Restava il consiglio.

“So cosa devo fare,” disse il Principe Demone, risoluto.

Tetsuro annuì, soddisfatto. Si rivolse a Issei e Takahiro. “Cavaliere, cercate il vostro compagno e riportatelo dal suo signore. Serve più al suo fianco che in qualunque altro posto. E Kenma-“

“Resto con voi,” disse il fanciullo dai capelli biondi. “Il Principe avrà bisogno di essere medicato.”

Tooru si ricordò solo allora delle sue ferite. Portò una mano alla bocca e le sue dita si tinsero di rosso. Non aveva importanza, ci avrebbe pensato dopo. Non appena Issei e Takahiro se ne andarono, riprese la sua marcia verso la sala del trono.

Il gran vociare che udì lungo il corridoio si quietò non appena oltrepassò le porte lasciate aperte. Tooru decise che non aveva nulla di cui vergognarsi e attraversò la folla a testa alta. Qualcuno chinò il capo con rispetto, qualcun altro non si fece scrupoli a fissarlo esterrefatto. Giunto al Trono Nero, prese tra le mani la sua corona da Principe, ma non la indossò.

“Seijou non è una merce di scambio da cedere al miglior offerente,” dichiarò a gran voce. “E non lo è nemmeno il suo Principe.”

Tooru sollevò lo sguardo sulla folla silente. Il tempo per provare timore era passato da un pezzo.

“Ordino che tutta la corte ricordi queste parole e che arrivino in ogni angolo del regno: un solo Re siederà su questo trono, un solo Re indosserà la Corona Corvina e sarà quel Re a riconsegnare Seijou alle grandi storie a cui è appartenuta per secoli!”

I Cavalieri nella sala del trono spezzarono l’immobilità di tutta la sala sollevando le spade. “Lunga vita al Re Demone!” Esclamò qualcuno.

“Lunga vita al Re Demone!” Gli fecero eco gli altri.

Fu solo una questione d’istanti, prima che alcuni dei nobili li imitassero. A loro si aggiunsero quelli che indossavano i colori di Nekoma. 

Il Principe fece due passi indietro e si sedette sul trono che gli spettava per diritto di nascita.

Tooru di Seijou divenne Re quella notte, ancor prima della sua incoronazione.




 

“Politicamente parlando, tu lo hai rifiutato, ma il duello a cui ti ha sfidato era privo di testimoni e questo lo rende nullo,” disse Tetsuro, con la tranquillità di cui parla del tempo. “In altre parole: tu puoi averlo umiliato pubblicamente, ma lui ti ha aggredito. Sia Seijou che Shiratorizawa hanno i loro motivi per cui vergognarsi, siete pari.”

“Cosa mi devo aspettare?” Domandò Tooru, mentre Kenma si occupava delle sue ferite. Si erano ritirati nelle stanze del Principe Demone poco dopo il suo discorso, per discutere d’alleati di tutte le possibilità a disposizione di Tooru.

“Da Shiratorizawa? Niente. Nessuno muove guerra per un motivo simile, succede solo nelle antiche leggende di amori traditi,” disse Tetsuro con sicurezza. “È il tuo consiglio che mi preoccupa. Loro e chi li sostiene.”

“Hanno ucciso mia madre,” disse Tooru.

Tetsuro sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego?”

“Ne sono certo, ma non ne ho le prove.”

“È un’accusa piuttosto grave.”

“Che posso fare contro un nemico che vive sotto il mio stesso tetto?”

Tetsuro si prese qualche istante per riflettere. “Non possiedo ancora una corona, Tooru,” disse, indicando la sua testa. “A pari condizioni, dopo gli eventi di questa notte, forse mi sei superiore.”

Kenma tradì un’espressione sorpresa a quell’ammissione, nessuno se ne accorse.

“Ma,” aggiunse Tetsuro, “al tuo consiglio non farà piacere sapere che, in caso ti accada qualcosa, il Regno di Nekoma s’impegna ad aprire un’inchiesta per punire i colpevoli.”

Tooru inarcò le sopracciglia. “Puoi farlo?”

“Non lo so,” ammise l’altro Demone. “Non lo sapranno nemmeno loro, credimi. Si sentiranno minacciati da una potenza straniera e sarà sufficiente.”

“E che ne sarà di Hajime?” Domandò Tooru, preoccupato.

“Tutto quello che tu vorrai tra le intime mura della tua- Ahia!”

Kenma gli aveva tirato un calcio sugli stinchi.

“Il tuo Cavaliere è amato dai suoi compagni,” disse Tetsuro, di nuovo serio. “Se lui ti seguirà, anche gli altri lo faranno. Se avrai l’esercito dalla tua parte, il consiglio non potrà fare nulla contro di te. Questa notte, hai toccato l’orgoglio dei Cavalieri di Seijou, quelli che non avrebbero mai chinato la testa di fronte a Shiratorizawa. Approfittane.”

“Hajime ha aggredito Wakatoshi,” gli ricordò Tooru.

“Oh, sì, il Cavaliere umano del Principe Demone che si lancia addosso al Re dell’Aquila e gli spacca la faccia!” Tetsuro era entusiasta. “Ne parleranno tutti per secoli - e sarà a vostro favore - e nessuno perderà tempo a spettegolare sul piccolo incidente tra te e Wakatoshi. Quando lo saprà Koutaro!”

Kenma alzò lo sguardo al cielo, esasperato. “Ho finito, Altezza,” disse, allontanandosi.

Tooru lo ringraziò e Tetsuro fece per aggiungere qualcosa sulla grande impresa del suo Cavaliere, quando bussarono alla porta.

Issei e Takahiro entrarono per primi, tirando dentro Hajime. Tutti e tre si erano liberati delle ingombranti armature.

Tooru dovette stringere i pugni per non correre dal suo amico d’infanzia e prenderlo a pugni e poi abbracciarlo per non lasciarlo andare mai più. 

Kenma fu il primo ad accorgersi che erano di troppo e fece cenno a Tetsuro di alzarsi. Il suo giovane signore recepì il messaggio. “Andiamo a dormire, Cavalieri,” disse, rivolgendosi a Takahiro e Issei. “È stata una lunga giornata e per qualcuno sarà una lunga notte- Ahi! Kenma smettila di prendermi a calci!”

La porta si richiuse e calò il silenzio. 

Tooru si alzò in piedi, anche se gli tremavano le gambe. “Hajime, io-“

Il Cavaliere esaurì la distanza tra loro in un lampo, come se la voce del Principe avesse cancellato le ultime incertezze del suo cuore. “Stai bene?” Domandò con urgenza, prendendo il viso del giovane Demone tra le mani. “Quando ho visto quello che quel bastardo ti stava facendo, non sapevo se tu… Ho avuto paura di non essere arrivato in tempo!”

“Va tutto bene.” Tooru coprì quelle mani calde con le sue. “Adesso che siamo insieme, andrà tutto bene, Iwa-chan.”

Hajime lo strinse forte, come se avesse paura di vederlo sparire da un momento all’altro. Aveva rischiato che accadesse, che un Re straniero se lo portasse via e tutto per la sua maledetta codardia. “Sono stato un debole,” disse, nascondendo il viso contro la spalla del Principe. “Non dovevo lasciarti andare e coprirti le spalle. Dovevamo combattere schiena contro schiena.”

“Da adesso in avanti, lo faremo,” promise Tooru.

Hajime lo allontanò da sé quel tanto che bastava per guardarlo in viso, fece aderire il palmo alla guancia gonfia e passò il pollice sotto il labbro spaccato. “Io non ero lì,” disse, gli occhi verdi ardenti d’ira. “Io non-“

Tooru lo zittì con un bacio a fior di labbra. “Adesso ci sei.” Appoggiò la fronte a quella del suo Cavaliere. “Io sono tuo e tu sei mio. Nulla in questo mondo avrà il potere di cambiarlo.” 

“Se ti bacio ora, rischio di farti male,” mormorò Hajime, sfiorando il naso del Principe con il proprio.

“Rischi di farmi male se non lo fai,” replicò Tooru, aggrappandosi alle spalle del Cavaliere. Erano più larghe delle sue, lo erano sempre state. Il giovane Demone era certo che fossero abbastanza forti da poterlo sorreggere in qualsiasi avversità. Lì, tra le braccia di Hajime, Tooru si sentiva amato, protetto. Quella era la persona con cui voleva condividere ogni giorno, fino al suo ultimo respiro.

“Baciami e basta, Hajime.”

Il Cavaliere lo accontentò e ogni bacio che aveva preceduto quello impallidì al confronto. Tooru era certo che, non appena l’altro si fosse allontanato da lui, le gambe non lo avrebbero retto. Hajime dovette avere lo stesso timore, perché lo spinse all’indietro, finché la sua schiena non aderì alla colonna del letto.

Tooru sentiva il labbro ferito pulsare dolorosamente, ma non gli importava. Quel momento gli era scivolato via dalle dita troppe volte perché potesse permettersi di rinunciarci ora. 

Hajime passò a baciargli il collo, le mani gli strinsero i fianchi, assaggiando la morbidezza della pelle sotto la stoffa della camicia. Il Cavaliere esitava, prendeva tempo, chiedeva il permesso. Fu Tooru a spogliarlo della sua tunica per primo.

I vestiti di entrambi scivolarono sul pavimento, dimenticati.

Una volta sul letto, col suo Principe sotto di lui, Hajime rallentò. I baci affamati divennero languidi. Le mani si presero la libertà di concedere le prime, timide carezze. Quella era un’arte a cui entrambi si erano affacciati, ma metterla in pratica col cuore gonfio d’amore era una cosa ben diversa.

“Dimmi quando vuoi che mi fermi,” mormorò Hajime.

“Mai,” rispose Tooru contro la sua bocca. “Mai.”




 

Tooru venne svegliato da due labbra calde sul retro del collo.

Sorrise e si stiracchiò contro il corpo del suo Cavaliere, come un gatto pigro alla ricerca di attenzioni. Hajime fu ben lieto di concedergliele. I baci continuarono, a tratti bramosi, a tratti giocosi. Tooru si raggomitolò su se stesso, ridacchiando. “Mi fai il solletico,” disse, poi si rigirò in quell’abbraccio per poter guardare il suo amante negli occhi.

“Hai idea di quante volte ho sognato questo momento?” Domandò il Principe, mentre l’altro lo cingeva e tirava più vicino a sé.

“Sì,” rispose Hajime. “Ne ho un’idea molto chiara.”

Si baciarono, quasi volessero rassicurare loro stessi che quello non era un sogno e nulla avrebbe distrutto la perfezione di quel momento. 

Tooru sorrise contro le labbra del suo Cavaliere. “Potrei già portare in grembo tuo figlio, ci hai pensato?” In cuor suo, lo sperava.

Lo smarrimento negli occhi verdi di Hajime gli rispose che no, non ci aveva pensato. “Mio figlio?”

Il sorriso di Tooru divenne più luminoso del sole. “Riesci a immaginarlo, Iwa-chan?”

Hajime si sollevò su un gomito, poggiando la testa al pugno chiuso. “Abbiamo tutto il tempo del mondo, Tooru,” disse, accarezzando i capelli del suo Principe.

Il Principe Demone s’imbronciò. “Ma io voglio un bambino adesso.”

Suo malgrado, il Cavaliere rise. “Lasciamo fare al destino,” propose. “Quando sembrava che non ci fosse speranza per noi, ci ha fatti tornare insieme.”

Destino...” Ripeté Tooru, divenendo serio di colpo. Gli tornarono alla mente le parole di Wakatoshi riguardo a quell’erede immaginario che non avrebbero mai avuto. Quando, per gioco, gli aveva chiesto se avesse sbirciato nel loro futuro, il Re dell’Aquila non gli aveva mai risposto sul serio. “Iwa-chan, tu pensi che sia possibile, attraverso la magia, conoscere l’intricata trama del destino in anticipo?”

Hajime aggrottò la fronte. “Perché questa domanda?”

Tooru non voleva parlare di Wakatoshi, non in quel momento. Confidò al Cavaliere un dubbio che aveva avuto fin da bambino ma a cui, prima di allora, non aveva mai dato particolare credito. “Penso che mia madre avesse visto il nostro.”

“La Regina?”

“L’ho capito dal modo in cui parlava di te, di noi,” spiegò Tooru. “C’era qualcosa nel modo in cui ti guardava. Era come se sapesse già che tipo di uomo saresti diventato.”

Hajime scrollò le spalle. “Le madri sono brave a intuire le cose,” provò a dare una spiegazione ragionevole.

“Sì, lo sono,” concordò Tooru. “Eppure, sono certo che le nostre strade si siano incrociate per un motivo,” posò la mano sopra il cuore del suo Cavaliere, “io e te eravamo destinati ad amarci, ne sono certo.”

Hajime prese quella mano nella sua e la baciò. “Destino o no, io non vado da nessuna parte,” giurò, con fare solenne. “Non so dirti se tua madre avesse davvero visto qualcosa o se la sua fosse più una speranza, ma sono certo che per te desiderasse un legame vero.”
“Quello che lei non ha mai avuto,” aggiunse Tooru, malinconico. “I tuoi genitori si amavano, Iwa-chan?”

Il Cavaliere sorrise. “Nel breve tempo che li ho avuti con me, non ne ho mai dubitato,” disse. “Ricordo che, una volta, mia madre tornò a casa con un ematoma sul viso. Durante il giorno, era mia abitudine stare con lei, ma quella volta avevo chiesto a mio padre di portarmi al lavoro con lui.."

"Quanti anni avevi?"

"Cinque, credo."

"Precoce,” commentò Tooru, per nulla sorpreso. "Il tuo senso del dovere ti ha accompagnato  fin da bambino, eh?"

"Mio padre era il mio eroe, anche se era solo un umile contadino.”

"Non ha importanza," ribatté  il Principe. "Se hai un ricordo così positivo di lui, deve essere stato un buon padre. Cos'era successo a tua madre?"

"Accadde sulla strada per uno dei villaggi vicini al nostro," proseguì il Cavaliere, "alcuni uomini ben vestiti le bloccarono il passaggio, facendole delle proposte."

Tooru poteva immaginare che tipo di proposte.

“Mia madre, ovviamente, non accettò e quando loro cercarono di obbligarla, si ribellò.”

“Bastardi..."

"Quando mio padre lo venne a sapere, perse completamente la testa. Scoprì dove quegli uomini alloggiavano e, quando li trovò, spaccò la faccia ad ognuno di loro."

Tooru sorrise. "Adesso capisco tante cose di te."

Hajime gli baciò i capelli. "Dopo quello che è successo ieri notte, comprendo bene quello che deve aver provato mio padre."

"È proprio vero che titolo e ricchezza non contano nulla, se si è poveri dentro,” commentò Tooru, con un po’ di malinconia.

"A chi ti riferisci?”

"Non ricordo nulla di mio padre, ma non mi ha lasciato nessuna eredità che possa rendermi orgoglioso di lui," disse il Principe. "So solo che si è fatto ammazzare in una guerra che non ha portato nulla a nessuno… Come si chiamava tuo padre, Iwa-chan?” Aggiunse.

Hajime inarcò un sopracciglio. "Perché me lo chiedi?"

"Tu rispondi."

"Tobio," disse il Cavaliere. "Mio padre si chiamava Tobio."

Tooru si stese sulla schiena, guardando il soffitto con fare riflessivo. Hajime ne fissò il profilo, cercando d'intuire i suoi pensieri. 

"Tobio," ripetè Tooru, sorrise. "Mi piace. È un bel nome per un Principe."




 
   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Haikyu!! / Vai alla pagina dell'autore: Ode To Joy