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Autore: _browneyes    19/04/2015    2 recensioni
“Le paure superficiali sono facili, la paura del buio che hai quando sei bambino, solo perché temi che un mostro salti fuori dal tuo armadio, è facile.
Sai quando arriva il difficile?
Quando le tue fobie sono radicate dentro di te, quando la tua mente continua a farti rivivere le cose peggiori che ti sono capitate e ti tormenti, perché temi che possano succederti di nuovo, quelle cose.
E forse tu non lo capisci, ma è dannatamente difficile vivere in un mondo che ti sbatte in faccia le tue paure peggiori in continuazione, senza che tu possa fare nulla per impedirlo.
Vivere in questo mondo è come vivere in un incubo e il problema è che non puoi svegliarti."
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Capitolo Due.
 
Conoscenze.
 
 
 
Quando Michael arriva in ufficio sono le nove e quarantadue, segno che lui è in evidente ritardo di quasi un quarto d’ora, e già sa che, poi, suo padre gli farà una sfuriata delle sue ‘chè odia i ritardatari, odia quando suo figlio non è perfetto come lui crede debba essere. Senza preoccuparsene troppo, comunque ci è abituato, si dirige verso l’ufficio del padre, dove è stato convocato una settimana prima e gli è stato praticamente imposto di esserci, puntuale aveva poi specificato il padre.
Senza nemmeno scomodarsi a bussare, entra nell’ufficio dove, oltre ad un uomo che gli scocca un’occhiata severa, quasi di rimprovero, con sua sorpresa vede una ragazza, non più di diciannove anni, con i capelli castano chiaro, gli occhi azzurro intenso ed un sorriso da far invidia alle attrici da copertina.
«Michael, questa è Euphemia Scott, signorina Scott, lui è mio figlio Michael», si affretta a presentarli l’uomo, con quel tono serio che Michael non ha mai sopportato. Stringe brevemente la mano della ragazza, notando subito quanto la sua mano sia più piccola della propria e le sorride, «Bel nome»; Euphemia fa per rispondergli, ma viene immediatamente interrotta dal signor Clifford, la cui pazienza sta ormai arrivando al limite, «Michael, se vuoi fare due chiacchere con la signorina Scott puoi farlo davanti ad un caffè, questa non mi sembra né la sede né il momento adeguato».
Il ragazzo abbassa leggermente il capo, in cenno d’assenso, mentre trattiene un piccolo sospiro, ma non discute ‘chè sa che con suo padre è sempre tutto inutile, così si limita a sprofondare nella poltroncina di pelle nera, accanto a quella dove sta seduta Euphemia, che non può fare a meno di continuare a fissarlo di sottecchi. Quando il capo le aveva detto che avrebbe lavorato con suo figlio, non avrebbe certo immaginato che il sopracitato figlio sarebbe stato così, figlio di un architetto e architetto a sua volta, si aspettava una specie di nerd, tutto ingessato come il padre; invece si era trovata di fronte un ragazzo con i capelli mezzi biondo chiaro e mezzi azzurri, con un sorriso che quasi lo illumina. Certo, non se lo aspettava proprio, un ragazzo del genere.
«Dunque, il motivo per cui siete qui è che lavorerete insieme, a partire dalla settimana prossima. Infatti mi assenterò da questa sede per più di un mese e ho pensato che potresti dirigere tu le cose Michael, al mio posto», rivolge al ragazzo un’occhiata estremamente seria, che sta a significare che non potrà sbagliare davvero nulla, «La signorina Scott è la mia segretaria quindi fai pure riferimento su di lei, come se fossi io». Michael annuisce, trattenendosi appena dal dire “okay”, ‘chè suo padre ne sarebbe inorridito, linguaggio troppo informale per rivolgerlo a lui, a lavoro poi.
«Potete tornare a lavoro», dice l’uomo seccamente, congedandoli con un cenno della testa ed un breve sorriso rivolto ad Euphemia mentre fa a Michael cenno di rimanere un attimo di più. «Non deludermi», usa un tono secco e severo a cui il ragazzo non può far altro che abbassare di nuovo il capo, «Farò del mio meglio», apre la porta per uscire da quell’ufficio il prima possibile, è una tortura per lui stare con suo padre da solo, soprattutto quando si parla di lavoro.
«Spero che il tuo meglio sia abbastanza», replica il padre con un tono quasi glaciale mentre il figlio esce quasi di corsa dalla stanza, vedendo poi Euphemia passare proprio qualche corridoio più avanti. La raggiunge quasi di corsa, facendola sussultare per la sorpresa nel sentire la presenza del ragazzo accanto a sé, «Signor Clifford», lo saluta con un cenno del capo, allungandosi nel tentativo di recuperare un raccoglitore da uno scaffale, troppo in alto per lei però.
«Il signor Clifford è mio padre, io sono Michael», le sorride lui, allungando poi il braccio per prendere i raccoglitore al posto suo e glielo porge; «Grazie», gli sorride riconoscente, avviandosi poi verso il proprio ufficio.
«Senti», Michael la segue velocemente, «a proposito di quel caffè di cui parlava mio padre, ci stai?», lei si volta a guardarlo, quasi stupita dalle sue parole, «Stacco all’una e mezza, possiamo mangiare qualcosa se vuoi».
Michael ricambia il sorriso, con una spontaneità che quasi lo stupisce, «All’una e mezza, perfetto».
 
«Rain! Sbrigati, manchi solo tu», la chiama sua sorella Celia, facendo irruzione nella camera, che alla fine è anche la sua, senza nemmeno degnarsi di bussare, sorprendendo Rain ancora intenta a vestirsi con calma, nonostante il suo ritardo. Lei sbuffa, detesta quando la sorella entra senza bussare, è uno dei suoi peggiori difetti. «Anche io voglio una camera tutta mia, come Marcus», borbotta infilando le gambe snelle negli skinny jeans blu chiaro, sotto lo sguardo critico di Celia, «Quella maglietta è mia», sbotta dopo aver riconosciuto il capo che Rain ha scelto. Quest’ultima invece si limita ad alzare le spalle mentre lega i capelli biondi in una treccia che le ricade sulla spalla sinistra, «Muoviti che gli Irwin sono già arrivati», sbotta la minore, facendole cenno con la mano di sbrigarsi.
«A proposito, ha chiamato Isaac mentre stavi facendo la doccia», la informa Celia mentre scendono le scale, dirigendosi verso il salotto, dal quale già si sentono provenire le voci che parlano e la solita risata rumorosa di Ashton, che a Rain ha sempre messo tantissima allegria.
Non risponde all’affermazione della sorella, anzi si limita ad alzare le spalle, estremamente apatica, cosa che non sfugge all’occhio critico della sorella, «Avete litigato di nuovo?». La risposta di Rain viene soffocata dall’abbraccio di Ashton, che le si è buttato addosso, come fa ogni volta.
Si conoscono da una vita, praticamente, lei ed Ashton, visto che le loro madri sono sempre state amiche, cosa che li ha spinti ad avvicinarsi, nonostante fino a dodici si detestavano quasi; o almeno, Rain sì, costatando che lui si divertiva a farle scherzi insieme a suo fratello Marcus.
«Non mi crederai mai, ma Michael ha una sottospecie di appuntamento», non la saluta nemmeno, dandole subito la notizia che l’ha lasciato quasi scioccato per dieci minuti buoni quando l’amico gliel’aveva detto. ‘Chè, andiamo, Michael è sempre così impegnato ad assecondare il padre, che alle ragazze ci ha sempre pensato poco e nulla.
 
Nirvana si detesta profondamente per essersi dimenticata le chiavi e ora, quindi, deve aspettare mezz’ora prima che Krista, la sua coinquilina, rientri dall’università. Ma si detesta ancora di più per aver risposto a quella chiamata, che avrebbe semplicemente dovuto rifiutare, ‘chè così sta rendendo tutto ancora più complicato di quanto non lo fosse già prima.
«Hayden, non ho intenzione di tornare a Los Angeles, smettila», sbotta al telefono, tentando di resistere alla tentazione di attaccargli in faccia, ‘chè lui è proprio l’ultima persona con la quale vorrebbe parlare adesso. Se lo immagina benissimo, adesso, capelli mori e sguardo duro, stravaccato sul divano di pelle nera del salotto di casa sua, «Mi stai facendo incazzare, Nirvana», sputa amaro, con un tono così duro che Nirvana si sente quasi gelare dentro.
«Sei stato tu a chiamarmi», replica piccata mentre controlla l’ora e spera che quegli ultimi venti minuti passino in fretta, ‘chè si sente anche a disagio a stare lì seduta sullo zerbino marrone ad aspettare.
«Devi tornare qui subito, non sto scherzando», le dice Hayden dall’altra parte della cornetta, ma non è una richiesta, la sua, è più che altro un ordine e Nirvana tace ‘chè sa che comunque discutere non lo farebbe calmare, le parole con lui non hanno mai funzionato. Così si limita a sospirare ed aspettare che finisca la sua predica, la cosa migliore è sempre aspettare che sbollisca, «Se non sei qui fra un mese ti vengo a prendere», ringhia lui, sempre più arrabbiato e lei, a quel punto, non può fare a meno di emettere un verso di frustrazione e chiudere la chiamata, lasciando cadere il telefono accanto al suo fianco. Spera quasi che si rompa, quel dannato telefono, che ormai è l’unico punto di contatto che rimane fra loro.
«Nirvana», lo riconosce senza nemmeno doversi voltare, sa già che quella voce non può che appartenere a Luke Hemmings.
Così esibisce il suo miglior sorriso forzato mentre si volta verso di lui, «Ciao Luke». Lui le si avvicina, fino a trovarsi esattamente davanti a lei, facendola sentire un po’ in soggezione, vista l’altezza di lui mentre lei si trova seduta a terra.
«Che ci fai qui?», usa un tono quasi divertito ed esibisce uno di quei sorrisi smaglianti che Nirvana, in realtà, ricorda meglio di quanto le piacerebbe ammettere. Lei alza lievemente lee spalle, «Aspetto la mia coinquilina, ho dimenticato le chiavi». Luke non trattiene una piccola risata cristallina, nemmeno lui sa dovuta a cosa ma, comunque, non ci pensa due volte e tendere la mano in direzione della castana, «Dai vieni, almeno mentre aspetti non stai seduta a terra».
Nirvana si ferma ad osservare quella mano, che ovviamente Luke si aspetta che lei prenda, ma non può. La paura di un contatto umano è davvero troppo e lei non è pronta, per quanto possa provarci, solamente la vista di quella mano tesa verso di lei le ha fatto aumentare notevolmente i battiti cardiaci, tanta è l’angoscia.
«Non vorrei disturbare», mormora debolmente, cercando in tutti i modi una scusa per non toccare quella mano che ancora aspetta di essere presa dalla sua. Non può.
Luke scuote la testa sorridendole, ancora, tanto che Nirvana arriva quasi a chiedersi come faccia a sorridere tanto senza mai stancarsi; «Non disturbi affatto, dai vieni», Nirvana annuisce debolmente, «Ti ringrazio»; poi si alza, da sola, ignorando totalmente la mano del biondo, che comunque non si scompone e si precipita ad aprire la porta di casa. Non ha capito nemmeno lui, in realtà, cosa sia esattamente successo con Nirvana ma, comunque, gli va bene. Lei è sempre stata un mistero, in fondo.
«Colleen, Ashton, sono a casa», urla quasi per farsi sentire mentre butta malamente la giacca su una poltrona accanto alla porta d’ingresso per poi voltarsi verso la castana, «Fai come se fossi a casa tua»; lei sorride semplicemente in risposta, non c’è abituata a tutta questa gentilezza e tutta questa premura nei suoi confronti.
«Ciao», una voce fa voltare entrambi, facendo volgere la loro attenzione su una bionda appoggiata allo stipite della porta. Ed è così bella che Nirvana, quasi, si sente male.
Con la massima naturalezza va verso Luke per stampargli un bacio sulle labbra, ben poco casto, nonostante sappia quanto lui odi queste manifestazioni d’affetto in pubblico; il fatto è che non ha mai visto quella castana prima e deve farle capire che Luke è suo.
«Sono Colleen», le sorride zuccherosa dopo essersi, finalmente, staccata dalle labbra del biondo, e tende verso di lei la mano. Nirvana resta a fissarla, spostando lo sguardo dalla mano al viso della sua proprietaria, affondando ancora di più le mani nelle tasche dei jeans. Se c’è una cosa sicura, è che non la toccherà.
«Nirvana», dice semplicemente continuando a tenere lo sguardo su Colleen, la cui espressione si fa più acida e leggermente più sdegnata, quasi offesa dal gesto non avvenuto. E Nirvana questo lo nota, «Scusami, non volevo essere maleducata, è solo che io non tocco mai nessuno, non mi piace il contatto fisico».
«Perché?», domanda la bionda, riportando il braccio lungo il fianco mentre guarda con interessa la castana  che si limita ad alzare le spalle.
E Luke sa benissimo che questo è solamente un altro tassello del mistero che è Nirvana Harris.
 
A Calum, quel bar piace parecchio. È il terzo giorno consecutivo in cui ci viene, giusto per riempire un po’ le sue giornate fatte solamente di noia e di girovagare senza meta per le strade di Sydney. In teoria, dovrebbe trovarsi un lavoro, almeno per guadagnare qualcosa e non farsi mantenere del tutto dai genitori. Non che a loro i soldi manchino, comunque.
Fatto sta che, però, in una settimana che è lì, non ha concluso proprio nulla ma, alla fine, non è che gli importi più di tanto.
«Posso aiutarti?», una ragazza mora si poggia sul bancone, proprio davanti a lui, trattenendo una piccola risata di circostanza, dovuta un po’ anche all’espressione persa del ragazzo, che si riscuote subito alle sue parole, «Potresti farmi un caffè»; usa il suo stesso tono, di scherno quasi, ma comunque si toglie uno degli auricolari, intenti a sparare a tutto volume i Green Day.
Esattamente una canzone dopo, la mora torna con il suo caffè in mano e lo spinge sul bancone davanti a lui, che la ringrazia con un cenno del capo.
«Boulevard of broken dreams è una delle loro canzoni migliori», dice lei quasi spontaneamente, non appena sente le note di quella canzone uscire dagli auricolari del ragazzo, visto il volume esageratamente alto.
Calum la guarda, interrogativo, mentre finisce in due sorsi il suo caffè, nero e senza zucchero, mentre lei alza le spalle quasi fosse una cosa ovvia, «Quella canzone ti dice tutto sulla vita, è una canzone vera, non come quelle che ti parlano di tutti quegli amori stupendi, lo sappiamo tutti che quelli, per quanto possiamo impegnarci, non resistono»; lui resta fermo a guardarla, senza parole per un attimo, annuendo poi alle sue parole, «Non ci avevo mai pensato, ma si, in effetti hai ragione». Lei si poggia con le braccia sul bancone, in modo da stare più comoda e ignora completamente la fila di clienti che si sta formando, potrà pensarci la sua collega comunque.
«Descrive la vita per com’è, ossia uno schifo», alza brevemente le spalle, fissando gli occhi azzurro cielo in quelli nero pece del ragazzo che esibisce un’espressione vagamente incuriosita alle sue parole, «Non lo è sempre».
Le ragazza si lascia sfuggire una risata amara, «Lo è, fidati, ed è quando cominci ad abbassare la guardia e pensi che la vita finalmente di stia andando bene, è lì che ti fotte di più, la bastarda», lo dice quasi con naturalezza, lasciando Calum ancora più stupito dalle sue parole; «Non credi che sia esagerato? Voglio dire, così sembra che non ti sia mai successo niente di bello». La mora si lascia sfuggire un’altra piccola risata, questa volta del tutto ironica, quasi fosse divertita dalle parole del ragazzo, «Le cose belle passano sempre, è questo che ti frega».
Rimangono in silenzio entrambi e Calum non sa più cosa dire, sensazione che comunque non gli è nuova. Non è mai stato un asso nel parlare, lui.
«Comunque, sono Calum», allunga la mano verso di lei, che la stringe brevemente e gli rivolge un piccolo sorriso, «Io sono Amethyst».
Con un gesto veloce e fluido si porta a sedere sul bancone, buttando poi le gambe coperte dagli skinny jeans neri dall’altra parte, in modo da scavalcarlo e trovarsi accanto a Calum, che la guarda stranito.
«Io esco a fumare, ti unisci a me?», lo guarda cominciando a camminare velocemente verso l’uscita del locale e lui la segue, quasi di corsa, facendo appena in tempo a lasciare una banconota sul bancone, per pagare il caffè. Quando la raggiunge fuori, la trova seduta sul bordo del marciapiede, intenta ad accendere una Marlboro appena tirata fuori dal pacchetto, da cui sfila un’altra sigaretta per il moro.
«Non ti licenziano se fai così?», accenna una piccola risata, Calum, mentre si siede accanto lei e si porta la sigaretta alle labbra. Ne aveva proprio bisogno, a dire il vero. Amethyst alza le spalle, «Non lo faranno, i miei zii sono i proprietari e poi non è che mi interessi molto questo lavoro, posso benissimo perderlo»; butta fuori il fumo e resta in silenzio. Forse questo è uno di quei momenti in cui le parole non servono e poi, comunque, non si rivedranno più e lei si è già esposta fin troppo, con quello sconosciuto.
 
 
Writer’s wall.
Sono di nuovo in ritardo, ovviamente, ma prometto che d’ora in poi non passerà più tanto tempo tra un aggiornamento e l’altro, visto che ho alzato tutte le medie e posso evitare di ammazzarmi di studio come ho fatto negli ultimi mesi (maledetto greco!).
Un capitolo abbastanza pieno direi, abbiamo inizialmente un incontro fra Michael e Euphemia e si nota quanto sia freddo il rapporto fra Michael e il padre (che sia successo qualcosa fra loro?); poi c’è un incontro tra Ash e Rain, che a quanto pare sono molto legati ed entrambi stupiti del fatto che Michael abbia un appuntamento; poi abbiamo una Nirvana molto frustrata che parla al telefono, chi sarà questo Hayden?, la conoscenza con Colleen e infine c’è un incontro fra Calum e Amethyst, che io adoro profondamente ‘chè così complicata che a volte nemmeno io riesco a starle dietro.
Grazie di aver letto fin qui.
Prima di lasciarvi, vi lascio le foto di come immagino le ragazze.
Rain Nirvana Amethyst Euphemia Colleen Un bacio,
-Mars
  
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