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Autore: WingsBrain    20/04/2015    1 recensioni
Emarginata tra le mura ristrette di una clinica psichiatrica sperduta, Abby Moore è una ragazza che sostiene di non essere affetta da alcun tipo di patologia psichica in particolare. Non parla con nessuno. Nessuno può capire cosa significhi sentirsi come se si stesse vivendo costantemente in un sogno, anzi, un incubo. -
"Chissà perché molte parole legate alle malattie mentali cominciano per ‘psico’. Psicologia, psichiatria, psicopatico.."
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sleeping Brain

1.
I DON'T WANT THE WORLD TO SEE ME
 
 

Chissà perchè molte parole legate alle malattie mentali cominciano per ‘psico’. Psicologia, psichiatria, psicopatico..
Sulla targa affissa alla porta dello studio della Wilkinson, c'era inciso espressamente Psichiatra, e ogni volta che mi soffermavo a rileggerlo prima di entrare, per sottopormi alla mia seduta giornaliera, mi domandavo se in realtà il suo intento fosse quello di curarmi l'anima o il cervello.
Infondo la psiche non era l'anima? Se mai mi avessero assicurato che il greco mi sarebbe servito a qualcosa nella vita, vi giuro che probabilmente mi sarei fatta una grossa risata e avrei mandato chiunque fosse a quel paese. E invece mi ritrovai a ricredermi.
Eppure continuavo a non capirci niente. 
Avrei scommesso anche questa volta sulla mia intelligenza, che l'affezzione patologica fosse situata dentro al nostro cervello danneggiato. Perdonatemi, mi correggo: dentro al loro cervello danneggiato. Il mio era sano come un pesce.
Ma allora l'anima c'entrava poco e niente.
Risanata o no per loro, io mi sentivo bene e a breve mi avrebbero dimessa. Non ero malata, ma solo un po' distratta. Anche se all'inizio cominciavo di nuovo a dialogare con me stessa, poi alla fine perdevo sempre il filo del discorso e la cognizione del tempo. Era sicuramente una cosa da me. Non era intenzionale eh. Non ero poi così di fuori. E io non cambiavo mai, ma rimanevo sempre fedele a me stessa. E me stessa era decisamente stanca. E il ciclo dialogo-nondialogo poteva anche aspettare. 
Mi sentii improvvisamente più annoiata di prima e quindi calcolai di mettermi a fare qualcos'altro. Ma la mia voglia si sgretolò come nulla fosse non appena mi ricordai che non avrei potuto realizzare assolutamente un bel niente. Perchè in primo luogo, non riuscivo neanche lontanamente a pronunciare nella mia testa il nome esatto di quel sentimento opposto alla noia. Com'era? Ecco non me lo ricordavo. Decisi che allora non esisteva.
Dunque mi limitai alle solite cose.
Smisi di guardare fuori dalla finestra il cielo che inscuriva, ancora. Scivolai sgraziata di petto lungo lo schienale della poltrona e mi costò un ulteriore sforzo girarmi, soprattutto perchè non ero in vena di farmi soprendere dalla faccia da maniaca di Beth.
Preferivo ammirare il cielo a ripensarci. Ecco perchè ero rimasta a lungo in quella posizione. Me ne ero dimenticata, diamine! Non era possibile che mi fosse sfuggita ancora una volta quest'osservazione: mi toccava indugiare ancora un altro pochino sporta alla finestra perchè era più comodo che lasciarmi squadrare da Beth.
Perchè poi incappavo in situazioni poco gradevoli come questa. Ed io ero così stupida. Perchè di conseguenza avrei rischiato di apparire un'idiota complusivaossessivaqualcosa come le altre ragazze, a riacquisire la medesima postura di poco prima. Cavolo, se ero stupida. Non mi era possibile agire come una trottola avanti e indietro, e permettermi una figuraccia del genere. Non desideravo che mi lanciassero occhiatacce o che ridessero di me. Non mi restava che aspettare per lo meno che gli altri intorno a me si fossero già dimenticati che soltanto due secondi prima io ero immobile, girata, a fissare il mondo là fuori. Già, il mondo.
“Hai preso la tua pillola?” mi chiese gentilmente, accorgendosi di me visibilmente agitata, l'infermiera di cui attualmente mi sfuggiva il nome. Non faceva alcuna importanza. Non potevo permettermi nemmeno questo; era troppo rischioso per me, memorizzare ulteriori informazioni futili tra l'altro, come il nome di una delle tante infermiere là dentro. Per il mio cervello era opportuno preservarsi, altrimenti nuovi ricordi si sarebbero affollati e poi accavallati su quelli vecchi e chissà cosa mi sarebbe successo. Per me era troppo inutile e insignificante e allo stesso tempo influente, quel minuscolo dettaglio. Come le sciocchezze che si imparano a scuola. Tranne il greco, questo l'avevo imparato a mie spese oramai. Anche se, alla fine avrei potuto sottovalutare anche il resto. E se il nome dell'infermiera fosse stato in realtà utile? 
Poco importava, non avrei di certo potuto chiederglielo. Non potevo permettermi un simile errore, per una sciocchezza poi. Qualcosa di cui non ero nemmeno sicura al cento per cento. Dovevo prestare più attenzione.
Infine scossi leggermente la testa per risponderle di no, senza guardarla.
“Ma devi prenderla.” ritentò, persistendo con quel suo fare cordiale e tranquillo che mi irritava altamente.
Burbera, sbuffai e afferrai il picchiere d'acqua e la pillola dal piattino sul tavolino, e me la infilai dritta in bocca. Sorseggiai e deglutii rapidamente.
Contenta? Le rivolsi una smorfia.
“Brava.” mi sorrise. Ma cosa aveva da sorridersi quella donna? Faceva l'infermiera per dei malati mentali ed era segregata lì dentro proprio come noi tutti. Eccetto durante le ferie. Beata lei. Ecco perchè mi sorrideva allora. Non lo faceva per me o perchè magari le stavo simpatica. Stronza. Decisi di odiarla. E per giunta io odiavo i complimenti. Non mi piaceva riceverne. Brava, ripetei nella mia testa. Mi suscitavano uno strano senso di forte ansia. Nessuno avrebbe mai dovuto aspettarsi qualcosa da me. Questo me lo ricordavo.
La minacciai silenziosamente con lo sguardo affinchè mi lasciasse da sola e così fece.
Finalmente, mi rallegrai. Anche Beth era andata via. Aveva in programma una seduta tra cinque minuti. O così mi era parso di sentire. Sapevo che non era una buona abitudine, quella di origliare. Ma quando capitava coglievo l'occasione e sinceramente me ne fregavo e basta delle buone maniere e dell'educazione. Che tanto in quel posto non mi sarebbero servite sicuramente.
Ad ogni modo, rimanere senza qualcuno intorno era piacevole, davvero. Non c'erano persone fastidiose che mi facessero sentire una mummia, pressata affinchè spezzassi il silenzio e dicessi qualcosa. 
Io non ci riuscivo a parlare. La difficoltà stava tutta nel dar voce ai miei pensieri.
Era iniziata come una sorta di difesa, credo. Era più rassicurante per me, che gli altri apprendessero già in partenza che non avrei risposto alle loro fatidiche domande come “qual è il tuo problema?” o “cosa ti turba?”. 
Ma magari non esisteva proprio qualche cosa in particolare che non funzionasse bene dentro al mio cervello e che di conseguenza mi rendesse diversa dagli altri. Perchè era di questo che si trattava. Per assurdo io ero diversa, secondo loro. Altrimenti non mi avrebbero rinchiusa in una casa di cura. A proposito, l'atrio era uno spazio ampio eretto da pareti chiare e guarnite di due finestre ognuna: l'unico contatto che potevo permettermi con il mondo esterno. Anche se per mia sfortuna c'era sempre qualcuno che invadeva il mio spazio e le poltrone di cui ormai dichiaravo legittima proprietà. Mi piaceva davvero fermarmi lì. Questo lo ricordavo molto bene.
Nella poltrona che io occupavo abitualmente, alla mia sinistra, si apriva un largo corridoio che mi offriva la libertà di osservare i medici quando percorrevano le porte, mentre proseguivano per controllare i loro pazienti all'interno delle stanze. Io personalmente non mi trattenevo quasi mai nella mia camera per più di due ore di riposo, (a parte la notte) quindi nessuno passava a farmi visita e ad assicurarsi che stessi bene o che non soffrissi di qualche crollo emotivo.
Non potevamo uscire all'aperto senza il permesso, chiaro. Ma non mi si addiceva, e soprattutto non mi andava, di farmi scortare in giro mano nella mano da una stupida badante, a soli sedici anni. Così me ne restavo al coperto ogni volta. Ma almeno preservavo la mia dignità e la padronanza di sentirmi autonoma. Perchè ne ero in grado, al contrario di ciò che diceva la cara Wilkinson. Che tutto era, tranne che cara.
Ero anche al corrente dei discorsi che sicuramente avrebbero tenuto sul mio conto, a scuola i miei compagni di classe, quando avrebbero scoperto che il mio ritiro era stato dovuto ad un ricovero in una clinica per malati mentali: “Io l'avevo detto che era pazza”. Si bene, lo avevi detto e allora? Cosa ci hai guadagnato alla fine? Niente. E per la cronaca: non sono mai stata pazza. Fidatevi, se vi foste ritrovati al posto mio vi sareste comportati alla stessa maniera.
Pensandoci bene, nessuno era mai venuto a farmi visita. Meglio, ritenni. Non volevo vedere quelle facce di cazzo lì dentro, nel mio territorio. In realtà non ero sorpresa nemmeno del fatto che la mia famiglia non si fosse mai degnata di venire. 
Mi capitò in quel conciso istante: mi distrassi.
Qualcosa, o meglio qualcuno, attirò maggiormente la mia attenzione e incuriosì il mio interesse.
Era..un..bamb..
Oh no, era decisamente un ragazzo. 
Pensai subito che si trattasse di uno fresco. Li riconoscevi a vista d'occhio, soprattutto dal momento in cui perdevi addirittura il conto dei giorni che avevi trascorso, o meglio sprecato, in quella misera casa.
Comunque era così che definivamo i nuovi acquisti, voglio dire, i nuovi arrivati. Dei freschi. Persone dall'aria innocente e spaesata, che non ci conoscevano e non avevano la più pallida idea di cosa aspettarsi da quel covo di sconosciuti.
Ero in procinto di fare qualcosa, probabilmente precipitarmi difronte a lui e offrirgli il mio caloroso benvenuto con una stretta di mano audace. Ma non era da me. Un'opzione simile ad un “Ciao e benvenuto all'inferno.” Ma non ero così impulsiva.
Sarebbe risultato sicuramente uno spasso scoprire le rughe sul suo volto contorcersi in un'espressione allarmata. Ma non ero così crudele.
Mi piaceva spaventare le altre persone, soprattutto quelle che mi credevano di fuori. Non ci avrei perso nulla tanto.
Nel caso in cui invece si fosse rivelata essere una persona apatica, la notizia mi avrebbe tirata giù di morale. Ne eravamo già pieni fino al midollo, di tipi così.
Non mi piacevano gli apatici.
Entrò dalla porta d'ingresso scortato-ma si potrebbe anche dire pedinato- da Josh, uno degli infermieri. Il suo nome lo conoscevo bene: una volta lo avevo utilizzato per inveire ripetutamente contro di lui mentre intanto infilzava uno stupido ago nelle mie vene estremamente sensibili. Dunque mi era rimasto impresso nella mente e non ero ancora riuscita a scrostarmelo, purtroppo.
Dimenticandomi gradualmente di Josh, persistetti nell'osservare il ragazzo con scrupolosa attenzione soprattutto per i particolari.
La prima impressione che mi diedero i suoi occhi, fu di morbidezza. Strano, vero? Potei giurare che il colore fosse il medesimo che tinteggiava il cielo durante le sue giornate serene in cui il sole primeggiava. Ma allo stesso modo erano anche caratterizzati da un luccichio di amarezza. Supposi che non erano nemmeno naturali. Doveva portare sicuramente le lenti, perchè le iridi erano estremamente lucenti.
Questo me lo ricordavo eccome: Io osservavo spesso il cielo, in tutti i suoi mutamenti.
Senza prima attendere che il mio cervello elaborasse l'azione, feci sprofondare lentamente il gomito sul bracciolo bianco della poltrona e il mento contro al palmo della mano, mentre l'altra era appoggiata sulla coscia.
Studiai più attentamente la sua bocca e trovai finalmente gli indizi per concludere, e darmi da sola, la risposta che stavo cercando all'inizio: non era apatico. Una persona senza sentimenti non provava rabbia. Ed era così, le sue labbra erano irrigidite da far paura. Chissà come mai. 
Comunque i suoi capelli erano neri come lo sfondo che mi si rifletteva davanti agli occhi quando li aprivo al buio, e il suo epidermide era niveo come lo zucchero a velo. Ma a mio parere, degli atteggiamenti che era propenso assumere, tradivano la dolcezza della sua pelle.
Era scontroso e puntava costantemente uno sguardo fulminante contro chiunque tentasse di fissarlo per le lunghe. Per fortuna non si era accorto di me, ancora.
A quel punto qualcosa si mise, subdola, a rimuginare dentro al mio stomaco come ne dichiarasse il pieno diritto, mentre lo osservavo. Si raccolse e si agglomerò contorcendosi senza tregua. Non avrei saputo esprimere con precisione a parole esatte di cosa si trattasse, ma era di sicuro un campanello nuovo quello che mi aveva allarmato. E non mi piaceva per niente avere a che fare con sensazioni che non conoscevo. Io avevo il dovere di mantenere la situazione sotto controllo, dentro di me. 
Oppure mi sarei seriamente persa, come credevano tutti.
Comunque l'agglomeramento fastidioso risalì su per lo stomaco fino ad arrivare alle mie labbra. Pensai subito ai conati di vomito. Ma nulla.
Digrignai i denti e fremetti per lasciar sfogare la mia agitazione. Era rabbia forse. Ma non potevo affermarlo con certezza, perchè in tutto ciò c'era uno schizzo di differenza che spiccava dal resto delle altre volte in cui mi ero sentita così. Sospirai a lungo sperando di scaricare la tensione. Mi resi conto che sarei dovuta riemergere al più presto possibile, da quel tuffo che avevo fatto.
Quindi stabilii che fosse giunto, ancora una volta, il momento di alzarmi dalla mia poltrona, e di tornare nella mia stanza. E lo feci, senza tornare con lo sguardo sul ragazzo nuovo.

 

   
 
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