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Autore: SagaFrirry    21/04/2015    0 recensioni
Stregoni, Scienziati e Guerrieri si fanno battaglia. Un giovane stregone dovrà scegliere se lottare contro la sua stessa famiglia oppure…e se quello strano ragazzino dai capelli verdi potesse aiutarlo? Magia, armature, famiglia e complotti. Vincerà il buon senso o la follia dei mortali?
Questa storia la scrissi nel 2013, spero nel frattempo di essere migliorata!
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I

NESSUNO

 

Nessuno bussava mai al portone del castello. Nessuno aveva ormai da tempo il coraggio di affrontare la foresta nel mezzo in cui stava. Nessuno desiderava incontrare di persona il padrone di casa, descritto in paese come un uomo decisamente poco amichevole. Nessuno. Per questo il giovane sobbalzò quando sentì il rumore sordo prodotto dallo sbattere ripetuto contro il massiccio ingresso in legno. Quel suono non gli era per nulla familiare e quindi, quando l’udì, si allarmò chiedendosi cosa fosse. Quando realizzò che qualche pazzo idiota stava chiedendo di entrare al castello bussando, storse il naso. Era notte fonda e dalla finestra, sbirciando fuori, capì che la temperatura esterna non era per niente piacevole. Sperò in qualche scherzo del vento e non si mosse, ma il bussare si fece più insistente. Girò gli occhi al cielo, si sistemò il pesante mantello sulle spalle e, riponendo temporaneamente il volume che leggeva, si alzò. Con un gesto della mano, accese le candele lungo il cammino, da quella stanza fino all’ingresso. Dopo il suo passaggio, queste si spegnevano, riportando l’edificio al buio. Scese le scale lentamente, quasi con noia. Si chiese chi fosse tanto coglione da affrontare una notte come quella per venire fino a lì a disturbarlo. Mosse lentamente le dita, attivandone la magia, pronto al polverizzo di un eventuale venditore di ciarpame o divulgatore di una non si sa quale religione. Non aveva in mente altre possibilità.

“Ti consiglio di sparire prima che apra la porta” sbottò, con voce cavernosa.

Non ricevette risposta, ma solo un bussare più insistente. Odiava le persone testarde. Odiava le persone invadenti. Più in generale, odiava le persone e basta.

Aprì il portone e rimase alquanto perplesso da ciò che vide. Un ragazzetto teneva per mano una bambina. Entrambi vestiti con pochi stracci, sporchi, con l’aria di chi camminava senza sosta da giorni interi, sospirarono di sollievo nel vedersi aprire. Con loro portavano solo una piccola sacca con ben poco dentro. La bambina era visibilmente molto stanca, con i capelli rossicci che le si appiccicavano sul viso fra sporco e pioggia. Tremava ma riuscì  comunque ad alzare gli occhi chiari verso colui che le aveva aperto e sorridergli, timidamente. Guardando più da vicino il ragazzo, l’abitante del castello notò che aveva un accenno di barba, probabilmente non era poi tanto piccolo come sembrava. Era magrolino, con capelli tendenti al biondo legati alla bene e meglio in un codino mezzo disfatto. Aveva gli stessi occhi della sorella, e non sorrise. Lo stupore del castellano nel vedersi davanti un simile spettacolo fu pari allo stupore che provarono i due quando videro chi aprì la porta. Quell’uomo era molto alto, con larghe spalle accentuate dal mantello, lunghissimi capelli aranciati, acconciati in una pettinatura assurda a ciuffi alti, un pizzetto a punta, la barba di alcuni giorni, abiti eleganti anche se molto strani e gli stessi occhi chiari degli “invasori”. In quegli occhi, ognuno di loro rivide la propria madre, per un istante.

“Non so che siate venuti a fare fino a qui, ma questo non è un luogo per bambini. Vi consiglio di andarvene al più presto, e alla svelta” sbottò il giovane uomo, pronto a chiudere la porta.

“Ci manda la mamma” parlò il ragazzo, alzando lo sguardo triste verso quello sconosciuto.

“Non siete figli miei, ve lo assicuro, perciò sparite”.

“Siamo i tuoi fratelli”.

“Io non ho fratelli”.

“Siamo figli di tua madre!”.

“Io non ho una madre”.

“Beh, in effetti, ora non più. È morta”.

Scese il silenzio, per qualche istante.

“Morta?” chiese conferma il maggiore.

“Sì, pensavo lo sapessi. Gli stregoni non sanno tutto?”.

“Gli stregoni sanno quello che desiderano sapere. Era da quasi dieci anni che non allungavo il mio sguardo verso il villaggio in cui sono nato”.

“Non abbiamo nessun’altro a questo mondo, ora che mamma è morta, al di fuori di te”.

“Errato. Non avete nessun’altro a questo mondo e basta. Punto. Io non ho niente a che fare con voi due, e questo non è posto per ragazzini, come già detto”.

“Siamo fratelli, questo non conta per te?”.

“Perché dovrebbe contare? Ho molto di meglio da fare”.

“Ma la mamma…”.

“Mia madre, per me, ha smesso di esistere nel momento stesso in cui non ha esitato ad affidarmi al primo stregone sconosciuto che si è presentato alla sua porta. Spaventata perché avevo manifestato doti magiche, si è sbarazzata di me senza rimorso”.

“Non è quello che ci risulta”.

“Beh, è quello che risulta a me. L’unica famiglia che ho mai avuto è stato il mio maestro, che fortunatamente per voi al momento non è presente”.

“Mamma mi ha detto di darti questa” riprese il ragazzo, mostrando una certa perseveranza, porgendo una lettera leggermente bagnata dalla pioggia all’uomo.

“Che roba è?” borbottò questi, senza muovere un muscolo per riceverla.

“Non sai leggere? Prendila e aprila!” iniziò a spazientirsi il ragazzino.

 “Voi due, ve ne dovete andare” ripeté, con calma, il padrone di casa.

Un potente lampo, seguito immediatamente da un tuono, fece sobbalzare la bambina, che afferrò saldamente la mano del ragazzetto.

“Beh…” sospirò l’uomo “Sono cattivo, lo ammetto, ma non così tanto. Dato il tempo, vi concedo di rimanere qui per la notte. Ma solo per stanotte, intesi? Poi dovrete smammare”.

“E dove andremo?”.

“Perché credi che la cosa mi interessi?”.

“Perché siamo i tuoi fratelli!”.

“Ti ho già spiegato come la penso, sbarbatello”.

“Io non riporterò mia sorella fuori, di nuovo! Hai idea di quanti giorni di cammino ci siamo fatti?”.

“Lo so, e non vi invidio. Ma nemmeno mi fate pena. È stata vostra la brillante idea di venire qui”.

“Ma sei l’unica persona che…”.

“Forse solo un orso incazzato in una grotta umida sarebbe risultata una soluzione peggiore di venire fin qui a chiedere asilo”.

“Quando sarò maggiorenne, potrò andarmene e porterò via mia sorella, ma prima non mi è concesso badare a lei. Me la porterebbero via”.

“Cercatevi un’altra famiglia!”.

“Non si può. In tempo di guerra è già tanto se siamo sopravvissuti fino ad oggi. Mamma se ne è andata il mese scorso e l’unica possibilità che avevamo era venire qui. Da te. Fratello”.

“Non chiamarmi fratello, per favore. La mia decisione è questa, mi spiace. Non più di tanto, lo devo ammettere. Entrate, riposatevi e poi domattina saranno affari vostri”.

“Sei crudele”.

“Sono uno stregone. E tu, ragazzino? Hai passato i quattordici anni? Hai scoperto il tuo ruolo?”.

“Ne ho quindici di anni e lo so bene il mio ruolo, ben diverso dal tuo. Mi chiamo Gudis, ad ogni modo. Fra gentiluomini ci si dovrebbe presentare”.

“Tu non sei un uomo. E io non sono gentile. Vi ho dato il permesso di dormire qui. Approfittatene. Andate a letto e non mettete ancora a dura prova la mia pazienza”.

“Grazie” storse il naso il ragazzo.

“E datevi una lavata, non imbrattatemi la casa”.

“Sì” risposero i due, senza voltarsi e dirigendosi verso il punto della casa indicato dallo stregone.

“E non fate casino. Ho bisogno di concentrazione”.

Non si sentì altro, se non i passi dei giovani che si allontanavano e quelli dell’uomo che tornava alla stanza in cui aveva lasciato il libro, convinto di aver fatto un errore.

 

   

 

“Non devi aver paura, sorellina. Non ci farà del male” le sorrise il fratello, asciugandole in visino.

“Lui è uno stregone…” mormorò lei, ricordando le storie che si narravano al villaggio sulla loro crudeltà ed inumanità.

“Sì, ma ricordi le cose che ci ha raccontato la mamma su di lui? Non devi aver paura”.

“E noi domani cosa faremo?”.

“Non lo so. Per ora riposiamo, ne abbiamo bisogno”.

La piccola sbadigliò e sedette sul letto. La stanza che avevano trovato era pulita, nonostante si vedesse chiaramente che era inutilizzata da tempo. I due fratelli si misero nello stesso, unico, letto, abbracciati l’uno all’altro per il freddo e la paura, del luogo e del temporale esterno. Nemmeno avevano chiuso gli occhi quando un lampo di luce nella camera li spaventò. Sul piccolo tavolino accanto a dove stavano distesi, era apparso un cesto con del pane, con frutta e formaggio, una brocca d’acqua e delle vesti pulite.

“Visto?” sorrise Gudis “Non è cattivo”.

La piccola non parve molto convinta ma allungò la mano verso il cibo, vinta dalla fame. Con la pancia piena e il vestito pulito, si sentì molto più tranquilla. Si addormentò, sfinita, dopo pochi minuti. Il fratello controllò per bene la stanza e poi si addormentò a sua volta, piuttosto preoccupato per la giornata seguente.

 

   

 

I due fratelli furono svegliati di soprassalto dal rumore ormai familiare di un mezzo militare volante che si avvicinava. Erano trappole create solo per portare morte al loro passaggio. Molti villaggi erano caduti e distrutti per causa loro. Terrorizzati, temendo il peggio, tentarono di trovare il luogo migliore della stanza dove riparasi.

“Non abbiate paura” si sentirono dire.

Il maggiore, apparso sull’uscio all’improvviso, li fissava, senza espressione sul volto. Chiuse la porta della camera dietro di sé e si avvicinò.

“Non abbiate paura” ripeté “Questo castello è schermato, protetto dalla magia del mio maestro”.

“Non possono colpirci?” domandò conferma la bambina.

“Esatto. Per loro stanno sorvolando solo un ampio bosco. Alberi. Nessun obbiettivo valido ed interessante. Siamo al sicuro”.

“La copertura vale anche se il maestro non c’è?” si incuriosì Gudis.

“Certo. E molto presto sarò in grado di fare anch’io altrettanto”.

“Sei uno stregone di quinto livello?”.

“Non sono così vecchio! Non ho ancora raggiunto l’età per accedere al quinto livello!”.

“Oh. Pensavo di sì”.

“Insolente”.

Il mezzo volante passò, facendo un gran fracasso, e non si accorse dell’immenso castello, schermato dalla magia.

“Visto? Nessun problema”.

“Grazie di averci avvertiti” parlò il ragazzo “Eravamo parecchio spaventati”.

“Anche se sono uno stregone, non sono senza cuore e senza anima, come a quelli delle altre classi piace dire. Fosse per me, vi farei restare. Ma il mio maestro non tollera distrazioni”.

“E allora noi che faremo?”.

“Andatevene”.

“Ma sarà un suicidio!”.

“Mai peggio di ciò che vi farà il maestro se vi troverà qui!”.

“Non mi fa paura!”.

“Perché sei stupido. Purtroppo maturità e saggezza si manifestano quando si è già fatto un bel pacco di cazzate nella vita”.

“Farò di tutto per mettere in salvo la mia sorellina!”.

“Nobile il tuo sentimento, ma del tutto inutile”.

“La magia non mi spaventa. È solo scienza non ancora del tutto spiegata”.

“Oh, Dèi del cielo! Sei della classe degli scienziati?”.

Gudis guardò il fratello con sguardo pieno di orgoglio, con pomposo entusiasmo.

“Decisamente te ne devi andare, prima che il mio maestro ti appenda per le palle alla torre principale, ragazzino”.

“Mi chiamo Gudis!”.

“Puoi chiamarti anche Mariangela, il concetto è lo stesso. Stregoni, guerrieri e scienziati sono classi in guerra. Anche se sei solo un ragazzino, sei comunque un nemico”.

“Io non capisco il perché della guerra, non voglio averci nulla a che fare”.

“Certe cose non si possono evitare. Ma, se sei uno scienziato, so a chi affidarti”.

“Affidarvi, spero. Non mi separo da lei”.

“Sì, va bene. Cercate di dormire un po’. Domattina, prima che il padrone di casa torni, vi porterò da chi potrà darvi un futuro”.

Gudis sorrise e sorrise alla sorella come a volerle dire “Hai visto?!”.

“Ma davvero la mamma ti ha mandato via? Affidato ad uno stregone sconosciuto?” domandò la piccola, con aria triste.

“Come ti chiami, piccina?” fu la risposta dello stregone.

“Veda Kami”.

“Vedi, Veda Kami, quelli come me son bambini strani. Prima dei sette anni, l’età in cui iniziano a delinearsi le prime caratteristiche per le altre classi, noi stregoni già mostriamo qualche capacità, non sempre facili da controllare. A sette anni era chiaro a tutti che io fossi uno stregone e mamma, essendo da sola, non poteva gestire evidentemente una creatura come me e così, quando colui che poi è divenuto il mio maestro si è presentato al villaggio, mi ha affidato a lui”.

“Non poteva tenerti con lei?”.

“Credo fosse destino. Sono nato per errore, immagino, e mamma voleva una vita normale. Sposarsi, avere dei bambini senza niente di spaventoso e vivere felice. Io ero qualcosa di troppo, nel suo grande progetto”.

“Il tuo papà non è il mio papà?”.

“No. Mamma quando ha avuto me era molto giovane. Immagino sia normale che una della classe dei signori della natura si spaventasse dinnanzi ad un piccolo stregone. Quelli come lei e quelli della casta degli artisti non son coinvolti direttamente nella guerra, e probabilmente temeva di richiamare a sé i nemici con una creatura come me per casa”.

“Non sono coinvolti?” interruppe Gudis “Sono vittime, chiusi nel mezzo delle tre classi che si fan battaglia”.

“Capirai che in guerra son tutte vittime, ragazzo. Ora cercate di dormire un po’, vi farà bene”.

“Come hai scoperto di essere uno stregone?” riprese il ragazzo, ignorando la stanchezza.

“In realtà, è stata una casualità piuttosto singolare. Quando ero piccolo, volevo rendermi utile e cercavo di aiutare la mamma nei lavori di casa. Un pomeriggio, per accontentarmi, mi ha fatto asciugare i piatti. Lei li lavava ed io li asciugavo. Maldestramente, ne feci cadere uno, che ovviamente si ruppe. Mamma cercò di rassicurarmi, dicendo che andava tutto bene, che non importava, ma io sapevo che non era così. Non eravamo ricchi, ogni oggetto in quella casa era stato ottenuto con sacrifici e fatica. Così, non so perché, istinto immagino, ho allungato la mano verso il piatto e questo si è aggiustato. Io ricordo di essermi sentito davvero bene, felice per aver aiutato la mamma, ma poi il suo sguardo ha incrociato il mio. Era terrorizzata, d’improvviso consapevole di aver generato una creatura rara e temuta dal resto del mondo. Da quel giorno ho tenuto nascosto il mio potere a mia madre, evitando di usarlo in sua presenza, anche se non potevo fare a meno di utilizzarlo. Quando lei mi ha affidato a quell’uomo che mi era parso tanto spaventoso, ricordo di averla supplicata di non mandarmi via, promettendo che non avrei mai più usato la magia”.

“Era la tua strada. Non potevi certo reprimere la tua natura” commentò Gudis.

“No di certo, ma un bambino questo non lo può capire. Ora dormite. Sono stanco pure io”.

 

   

 

 

La mattina seguente, furono svegliati dalla luce esterna, segno che non pioveva più. Si alzarono pigramente, mangiarono quel che rimaneva delle cose ricevute la sera prima, si vestirono e si prepararono per partire, come gli era stato detto dal fratello.

“Siete svegli?” domandò una voce femminile.

Stupiti di questo, i due si fissarono con aria interrogativa.

“Venite. Vostro fratello vi aspetta” riprese la voce.

Gudis e Veda uscirono, aprendo lentamente la porta. Si trovarono faccia a faccia con una donna riccamente vestita, con i capelli lunghi sciolti e mori. Sorrideva.

“Venite con me. Seguitemi”.

Iniziarono a camminare fra i corridoi fino a giungere alla base della grande torre principale. la bimba sorrise, paragonandola ad una grossa matita. Aveva quattordici lati, ciascuno chiuso e senza aperture se non praticamente sulla cima, coperta solo in parte da una punta tronca. Salirono, avvolti dal buio, seguendo la donna.

“Eccoli” parlò lei, rivolta allo stregone che stava al centro della stanza, circondata da aperture ad arco che partivano dalle piastrelle scure del pavimento.

“Grazie” rispose lui, senza girarsi a guardarla.

Lei fece un piccolo inchino e se ne andò, facendo segno ai fratelli di raggiungere il centro della stanza. Gudis e Veda obbedirono, avvicinandosi al maggiore.

“Chi era quella?” domandò il giovane scienziato.

“La figlia del mio maestro”.

“La tua ragazza?”.

“Ho il divieto di toccarla”.

“E perché?”.

“Perché queste sono le regole. Fra tre anni passerò al livello successivo e sarò libero di far ciò che mi pare”.

“È molto bella…”.

“La smettiamo di parlare di lei?! Avanti, venite qui”.

Lo stregone pareva molto concentrato. Camminò verso una delle aperture, che si illuminò. Gudis non capì come questo fosse possibile ma non chiese nulla, per non sfigurare.

“Andate” parlò il maggiore.

“Andate dove?” storse il naso Gudis.

“Lì!” indicò l’apertura lo stregone.

“Il suicidio non rientra fra le mie priorità”.

“Macché suicidio! Muovetevi”.

Diede una piccola spinta alla bambina, che sparì avvolta dalla luce.

“Veda!” la chiamò Gudis, senza capire dove fosse andata a finire.

“Queste non sono semplici finestre senza vetri. Sono porte verso il resto del mondo. Muoviti. Se il padrone di casa scopre che sono qui non mi accadrà nulla di bello!”.

I due fratelli attraversarono quasi insieme la luce e riapparvero in una grande stanza bianca, attraverso uno specchio. Piena di tavoli con strani oggetti che facevano fumo e rumori misteriosi, la sala pareva deserta.

“Chi è là?” domandò una voce.

“Uno a cui devi un favore” rispose lo stregone.

“Ihanez! Sei tu?” domandò un uomo, apparendo da dietro una grossa lavagna.

Indossava spessi occhiali con lenti d’ingrandimento e stringeva una strana ampolla attorcigliata fra le mani.

“Da quanto non mi sentivo chiamare così…”.

“Beh, è quello il tuo vero nome, no?”.

“Il mio nome di nascita. Non so quale sia più vero fra il nome di nascita e quello che ho acquisito a quattordici anni divenendo ufficialmente uno stregone”.

“E questi due chi sono?”.

“Gudis e Veda Kami. Sono i miei fratelli”.

“Non sapevo avessi dei fratelli”.

“Nemmeno io, prima di mezza giornata fa”.

“A cosa devo la tua visita, stregone?”.

“Mi devi un favore, spero che te ne ricordi ancora”.

“E come scordarlo? Quella sera, nel bosco, avresti potuto uccidermi e invece mi hai lasciato andare. Che posso fare per te?”.

“Sono orfani. Han bisogno di un posto dove stare e di qualcuno che li guidi. Lui è uno scienziato”.

“Davvero? Ottimo! Un giovane promettente cervellone come il sottoscritto. Fantastico”.

“Siete uno scienziato pure Voi?” domandò, timidamente, Gudis.

“Certo”.

“E come mai siete amici? Stregoni e scienziati non dovrebbero…”.

“Non tutto è bianco o nero, ragazzo. Sarò lieto di prendermi cura di voi. Ho giusto bisogno di un paio di assistenti”.

“Non usarli per strani esperimenti” lo ammonì Ihanez.

“Non lo farò! Staranno benissimo qui e poi avranno sempre una porta verso il tuo mondo”.

“Siate prudenti nell’usare simili porte”.

“Tranquillo. So che succede se ci becca il tuo simpaticissimo maestro”.

“Devo andare adesso. Se torna e non mi trova dovrò inventarmi più di una balla per giustificarmi”.

“Ti auguro di passare presto al quinto livello, così da liberarti da simili presenze”.

“Anche a te auguro di arrivare al quinto livello e di poter diventare uno dei migliori”.

“Grazie. Passa a trovarci”.

Gudis e Veda videro il fratello attivare lo specchio per attraversarlo, senza parlare. Il maggiore notò il loro sguardo e, a disagio, si sforzò di trovare delle parole di congedo.

“Con lui vi troverete bene” borbottò “Meglio che con me, questo è sicuro! Passerò ogni tanto, ci rivedremo. Fate i bravi, vedrete che andrà tutto bene”.

Fece per andarsene ma Gudis lo fermò, porgendogli di nuovo la lettera che la loro madre aveva scritto, ringraziandolo per l’aiuto. Lo stregone la prese e, tornando alla sua solita mancanza d’espressione, salutò con un cenno ed attraversò lo specchio.

 

   

 

 

“Randoeku!” tuonò il maestro, non appena l’allievo mise piede alla torre a quattordici facce.

“Sono qui” rispose Ihanez.

“Lo so che sei lì. E cosa ci fai lì?”.

“Io…io volevo solo fare un giro. Tutto qui”.

Il maestro gli si materializzò davanti. Non sembrava molto anziano, anche se lo era. Questo perché gli stregoni migliori, quelli che superavano la prova finale del quinto livello, non invecchiavano più.

“Tutto qui, tu dici? Fammi un po’ capire. Ti senti forse pronto per poter usare la torre? Sai che con il minimo errore potresti trovarti chissà dove o scomposto in pezzi!”.

“Lo so. Ma sono capace di usare la torre”.

“Davvero?”.

“Sono intero. E sono andato dove volevo andare. Direi di sì”.

“Non fare lo strafottente”.

“E voi non trattatemi come un ragazzino”.

“Sei solo un quarto livello!”.

“Ho venticinque anni!”.

“Sei un pivello. Ti ci vogliono ancora tre anni per passare di livello e dopo di questi altri sette per poter aspirare ad essere ammesso alla prova finale del quinto stadio. Tu vuoi arrivare a quell’esame, vero? O non ti interessa?”.

“Voglio arrivarci!”.

“E allora vedi di smetterla di disobbedirmi, se non vuoi che ti cacci prima della fine dell’addestramento!”.

“Sissignore” si rassegnò Ihanez, sospirando.

“Dammi la mano”.

L’allievo non capì quelle parole ma porse la mano destra al suo maestro, che l’afferrò saldamente, stringendola fra le dita guizzanti di magia. Righe nere si espansero lungo il dorso dell’arto dell’allievo, che gridò per il dolore ma non riuscì a liberarsi da quella presa.

“Questo è per ricordarti qual è il tuo posto” sbottò il maestro, prendendo le scale per scendere dalla torre e ordinando al suo sottoposto di fare altrettanto.

Ihanez si morse il labbro per non lamentarsi ancora. Quei segni neri erano come bruciature profonde e non era in grado di muovere le dita.

“Così per un po’ ti concentrerai sulle magie di ricezione, con la mano sinistra, ignorando temporaneamente quelle di trasmissione. Tranquillo, prima o poi tornerai ad usare tutte le falangi”.

L’allievo non disse sulla. Chinò lo sguardo davanti al viso della figlia del maestro e tornò nella sua stanza. Era stanco, piuttosto confuso e dolorante. Sospirò. Era abituato a quelle manifestazioni di forza del maestro ma ogni volta non sapeva mai esattamente spiegare il perché di certi gesti. Meglio non chiederselo, concluse, estraendo la lettera della madre dall’ampia manica e dedicandosi ad essa.

   
 
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