I
NESSUNO
Nessuno
bussava mai al portone del castello. Nessuno aveva ormai da tempo il
coraggio
di affrontare la foresta nel mezzo in cui stava. Nessuno desiderava
incontrare
di persona il padrone di casa, descritto in paese come un uomo
decisamente poco
amichevole. Nessuno. Per questo il giovane sobbalzò quando
sentì il rumore
sordo prodotto dallo sbattere ripetuto contro il massiccio ingresso in
legno.
Quel suono non gli era per nulla familiare e quindi, quando
l’udì, si allarmò
chiedendosi cosa fosse. Quando realizzò che qualche pazzo
idiota stava
chiedendo di entrare al castello bussando, storse il naso. Era notte
fonda e
dalla finestra, sbirciando fuori, capì che la temperatura
esterna non era per
niente piacevole. Sperò in qualche scherzo del vento e non
si mosse, ma il
bussare si fece più insistente. Girò gli occhi al
cielo, si sistemò il pesante
mantello sulle spalle e, riponendo temporaneamente il volume che
leggeva, si
alzò. Con un gesto della mano, accese le candele lungo il
cammino, da quella
stanza fino all’ingresso. Dopo il suo passaggio, queste si
spegnevano,
riportando l’edificio al buio. Scese le scale lentamente,
quasi con noia. Si
chiese chi fosse tanto coglione da affrontare una notte come quella per
venire
fino a lì a disturbarlo. Mosse lentamente le dita,
attivandone la magia, pronto
al polverizzo di un eventuale venditore di ciarpame o divulgatore di
una non si
sa quale religione. Non aveva in mente altre possibilità.
“Ti
consiglio di sparire prima che apra la porta”
sbottò, con voce cavernosa.
Non
ricevette risposta, ma solo un bussare più insistente.
Odiava le persone
testarde. Odiava le persone invadenti. Più in generale,
odiava le persone e
basta.
Aprì
il portone e rimase alquanto perplesso da ciò che vide. Un
ragazzetto teneva
per mano una bambina. Entrambi vestiti con pochi stracci, sporchi, con
l’aria
di chi camminava senza sosta da giorni interi, sospirarono di sollievo
nel
vedersi aprire. Con loro portavano solo una piccola sacca con ben poco
dentro. La
bambina era visibilmente molto stanca, con i capelli rossicci che le si
appiccicavano sul viso fra sporco e pioggia. Tremava ma
riuscì comunque
ad alzare gli occhi chiari verso
colui che le aveva aperto e sorridergli, timidamente. Guardando
più da vicino il
ragazzo, l’abitante del castello notò che aveva un
accenno di barba,
probabilmente non era poi tanto piccolo come sembrava. Era magrolino,
con
capelli tendenti al biondo legati alla bene e meglio in un codino mezzo
disfatto. Aveva gli stessi occhi della sorella, e non sorrise. Lo
stupore del
castellano nel vedersi davanti un simile spettacolo fu pari allo
stupore che
provarono i due quando videro chi aprì la porta.
Quell’uomo era molto alto, con
larghe spalle accentuate dal mantello, lunghissimi capelli aranciati,
acconciati in una pettinatura assurda a ciuffi alti, un pizzetto a
punta, la
barba di alcuni giorni, abiti eleganti anche se molto strani e gli
stessi occhi
chiari degli “invasori”. In quegli occhi, ognuno di
loro rivide la propria
madre, per un istante.
“Non
so che siate venuti a fare fino a qui, ma questo non è un
luogo per bambini. Vi
consiglio di andarvene al più presto, e alla
svelta” sbottò il giovane uomo,
pronto a chiudere la porta.
“Ci
manda la mamma” parlò il ragazzo, alzando lo
sguardo triste verso quello sconosciuto.
“Non
siete figli miei, ve lo assicuro, perciò sparite”.
“Siamo
i tuoi fratelli”.
“Io
non ho fratelli”.
“Siamo
figli di tua madre!”.
“Io
non ho una madre”.
“Beh,
in effetti, ora non più. È morta”.
Scese
il silenzio, per qualche istante.
“Morta?”
chiese conferma il maggiore.
“Sì,
pensavo lo sapessi. Gli stregoni non sanno tutto?”.
“Gli
stregoni sanno quello che desiderano sapere. Era da quasi dieci anni
che non
allungavo il mio sguardo verso il villaggio in cui sono nato”.
“Non
abbiamo nessun’altro a questo mondo, ora che mamma
è morta, al di fuori di te”.
“Errato.
Non avete nessun’altro a questo mondo e basta. Punto. Io non
ho niente a che
fare con voi due, e questo non è posto per ragazzini, come
già detto”.
“Siamo
fratelli, questo non conta per te?”.
“Perché
dovrebbe contare? Ho molto di meglio da fare”.
“Ma
la mamma…”.
“Mia
madre, per me, ha smesso di esistere nel momento stesso in cui non ha
esitato
ad affidarmi al primo stregone sconosciuto che si è
presentato alla sua porta.
Spaventata perché avevo manifestato doti magiche, si
è sbarazzata di me senza
rimorso”.
“Non
è quello che ci risulta”.
“Beh,
è quello che risulta a me. L’unica famiglia che ho
mai avuto è stato il mio
maestro, che fortunatamente per voi al momento non è
presente”.
“Mamma
mi ha detto di darti questa” riprese il ragazzo, mostrando
una certa
perseveranza, porgendo una lettera leggermente bagnata dalla pioggia
all’uomo.
“Che
roba è?” borbottò questi, senza muovere
un muscolo per riceverla.
“Non
sai leggere? Prendila e aprila!” iniziò a
spazientirsi il ragazzino.
“Voi due, ve ne
dovete andare” ripeté, con
calma, il padrone di casa.
Un
potente lampo, seguito immediatamente da un tuono, fece sobbalzare la
bambina,
che afferrò saldamente la mano del ragazzetto.
“Beh…”
sospirò l’uomo “Sono cattivo, lo
ammetto, ma non così tanto. Dato il tempo, vi
concedo di rimanere qui per la notte. Ma solo per stanotte, intesi? Poi
dovrete
smammare”.
“E
dove andremo?”.
“Perché
credi che la cosa mi interessi?”.
“Perché
siamo i tuoi fratelli!”.
“Ti
ho già spiegato come la penso, sbarbatello”.
“Io
non riporterò mia sorella fuori, di nuovo! Hai idea di
quanti giorni di cammino
ci siamo fatti?”.
“Lo
so, e non vi invidio. Ma nemmeno mi fate pena. È stata
vostra la brillante idea
di venire qui”.
“Ma
sei l’unica persona che…”.
“Forse
solo un orso incazzato in una grotta umida sarebbe risultata una
soluzione
peggiore di venire fin qui a chiedere asilo”.
“Quando
sarò maggiorenne, potrò andarmene e
porterò via mia sorella, ma prima non mi è
concesso badare a lei. Me la porterebbero via”.
“Cercatevi
un’altra famiglia!”.
“Non
si può. In tempo di guerra è già tanto
se siamo sopravvissuti fino ad oggi.
Mamma se ne è andata il mese scorso e l’unica
possibilità che avevamo era
venire qui. Da te. Fratello”.
“Non
chiamarmi fratello, per favore. La mia decisione è questa,
mi spiace. Non più
di tanto, lo devo ammettere. Entrate, riposatevi e poi domattina
saranno affari
vostri”.
“Sei
crudele”.
“Sono
uno stregone. E tu, ragazzino? Hai passato i quattordici anni? Hai
scoperto il
tuo ruolo?”.
“Ne
ho quindici di anni e lo so bene il mio ruolo, ben diverso dal tuo. Mi
chiamo
Gudis, ad ogni modo. Fra gentiluomini ci si dovrebbe
presentare”.
“Tu
non sei un uomo. E io non sono gentile. Vi ho dato il permesso di
dormire qui.
Approfittatene. Andate a letto e non mettete ancora a dura prova la mia
pazienza”.
“Grazie”
storse il naso il ragazzo.
“E
datevi una lavata, non imbrattatemi la casa”.
“Sì”
risposero i due, senza voltarsi e dirigendosi verso il punto della casa
indicato dallo stregone.
“E
non fate casino. Ho bisogno di concentrazione”.
Non
si sentì altro, se non i passi dei giovani che si
allontanavano e quelli
dell’uomo che tornava alla stanza in cui aveva lasciato il
libro, convinto di
aver fatto un errore.
● ●
●
“Non
devi aver paura, sorellina. Non ci farà del male”
le sorrise il fratello,
asciugandole in visino.
“Lui
è uno stregone…” mormorò
lei, ricordando le storie che si narravano al
villaggio sulla loro crudeltà ed inumanità.
“Sì,
ma ricordi le cose che ci ha raccontato la mamma su di lui? Non devi
aver
paura”.
“E
noi domani cosa faremo?”.
“Non
lo so. Per ora riposiamo, ne abbiamo bisogno”.
La
piccola sbadigliò e sedette sul letto. La stanza che avevano
trovato era
pulita, nonostante si vedesse chiaramente che era inutilizzata da
tempo. I due
fratelli si misero nello stesso, unico, letto, abbracciati
l’uno all’altro per
il freddo e la paura, del luogo e del temporale esterno. Nemmeno
avevano chiuso
gli occhi quando un lampo di luce nella camera li spaventò.
Sul piccolo
tavolino accanto a dove stavano distesi, era apparso un cesto con del
pane, con
frutta e formaggio, una brocca d’acqua e delle vesti pulite.
“Visto?”
sorrise Gudis “Non è cattivo”.
La
piccola non parve molto convinta ma allungò la mano verso il
cibo, vinta dalla
fame. Con la pancia piena e il vestito pulito, si sentì
molto più tranquilla.
Si addormentò, sfinita, dopo pochi minuti. Il fratello
controllò per bene la
stanza e poi si addormentò a sua volta, piuttosto
preoccupato per la giornata
seguente.
● ●
●
I
due fratelli furono svegliati di soprassalto dal rumore ormai familiare
di un
mezzo militare volante che si avvicinava. Erano trappole create solo
per
portare morte al loro passaggio. Molti villaggi erano caduti e
distrutti per causa
loro. Terrorizzati, temendo il peggio, tentarono di trovare il luogo
migliore
della stanza dove riparasi.
“Non
abbiate paura” si sentirono dire.
Il
maggiore, apparso sull’uscio all’improvviso, li
fissava, senza espressione sul
volto. Chiuse la porta della camera dietro di sé e si
avvicinò.
“Non
abbiate paura” ripeté “Questo castello
è schermato, protetto dalla magia del
mio maestro”.
“Non
possono colpirci?” domandò conferma la bambina.
“Esatto.
Per loro stanno sorvolando solo un ampio bosco. Alberi. Nessun
obbiettivo
valido ed interessante. Siamo al sicuro”.
“La
copertura vale anche se il maestro non
c’è?” si incuriosì Gudis.
“Certo.
E molto presto sarò in grado di fare anch’io
altrettanto”.
“Sei
uno stregone di quinto livello?”.
“Non
sono così vecchio! Non ho ancora raggiunto
l’età per accedere al quinto
livello!”.
“Oh.
Pensavo di sì”.
“Insolente”.
Il
mezzo volante passò, facendo un gran fracasso, e non si
accorse dell’immenso
castello, schermato dalla magia.
“Visto?
Nessun problema”.
“Grazie
di averci avvertiti” parlò il ragazzo
“Eravamo parecchio spaventati”.
“Anche
se sono uno stregone, non sono senza cuore e senza anima, come a quelli
delle
altre classi piace dire. Fosse per me, vi farei restare. Ma il mio
maestro non
tollera distrazioni”.
“E
allora noi che faremo?”.
“Andatevene”.
“Ma
sarà un suicidio!”.
“Mai
peggio di ciò che vi farà il maestro se vi
troverà qui!”.
“Non
mi fa paura!”.
“Perché
sei stupido. Purtroppo maturità e saggezza si manifestano
quando si è già fatto
un bel pacco di cazzate nella vita”.
“Farò
di tutto per mettere in salvo la mia sorellina!”.
“Nobile
il tuo sentimento, ma del tutto inutile”.
“La
magia non mi spaventa. È solo scienza non ancora del tutto
spiegata”.
“Oh,
Dèi del cielo! Sei della classe degli scienziati?”.
Gudis
guardò il fratello con sguardo pieno di orgoglio, con
pomposo entusiasmo.
“Decisamente
te ne devi andare, prima che il mio maestro ti appenda per le palle
alla torre
principale, ragazzino”.
“Mi
chiamo Gudis!”.
“Puoi
chiamarti anche Mariangela, il concetto è lo stesso.
Stregoni, guerrieri e
scienziati sono classi in guerra. Anche se sei solo un ragazzino, sei
comunque
un nemico”.
“Io
non capisco il perché della guerra, non voglio averci nulla
a che fare”.
“Certe
cose non si possono evitare. Ma, se sei uno scienziato, so a chi
affidarti”.
“Affidarvi,
spero. Non mi separo da lei”.
“Sì,
va bene. Cercate di dormire un po’. Domattina, prima che il
padrone di casa
torni, vi porterò da chi potrà darvi un
futuro”.
Gudis
sorrise e sorrise alla sorella come a volerle dire “Hai
visto?!”.
“Ma
davvero la mamma ti ha mandato via? Affidato ad uno stregone
sconosciuto?”
domandò la piccola, con aria triste.
“Come
ti chiami, piccina?” fu la risposta dello stregone.
“Veda
Kami”.
“Vedi,
Veda Kami, quelli come me son bambini strani. Prima dei sette anni,
l’età in
cui iniziano a delinearsi le prime caratteristiche per le altre classi,
noi
stregoni già mostriamo qualche capacità, non
sempre facili da controllare. A
sette anni era chiaro a tutti che io fossi uno stregone e mamma,
essendo da
sola, non poteva gestire evidentemente una creatura come me e
così, quando
colui che poi è divenuto il mio maestro si è
presentato al villaggio, mi ha
affidato a lui”.
“Non
poteva tenerti con lei?”.
“Credo
fosse destino. Sono nato per errore, immagino, e mamma voleva una vita
normale.
Sposarsi, avere dei bambini senza niente di spaventoso e vivere felice.
Io ero
qualcosa di troppo, nel suo grande progetto”.
“Il
tuo papà non è il mio papà?”.
“No.
Mamma quando ha avuto me era molto giovane. Immagino sia normale che
una della
classe dei signori della natura si spaventasse dinnanzi ad un piccolo
stregone.
Quelli come lei e quelli della casta degli artisti non son coinvolti
direttamente nella guerra, e probabilmente temeva di richiamare a
sé i nemici
con una creatura come me per casa”.
“Non
sono coinvolti?” interruppe Gudis “Sono vittime,
chiusi nel mezzo delle tre
classi che si fan battaglia”.
“Capirai
che in guerra son tutte vittime, ragazzo. Ora cercate di dormire un
po’, vi
farà bene”.
“Come
hai scoperto di essere uno stregone?” riprese il ragazzo,
ignorando la
stanchezza.
“In
realtà, è stata una casualità
piuttosto singolare. Quando ero piccolo, volevo
rendermi utile e cercavo di aiutare la mamma nei lavori di casa. Un
pomeriggio,
per accontentarmi, mi ha fatto asciugare i piatti. Lei li lavava ed io
li
asciugavo. Maldestramente, ne feci cadere uno, che ovviamente si ruppe.
Mamma
cercò di rassicurarmi, dicendo che andava tutto bene, che
non importava, ma io
sapevo che non era così. Non eravamo ricchi, ogni oggetto in
quella casa era
stato ottenuto con sacrifici e fatica. Così, non so
perché, istinto immagino,
ho allungato la mano verso il piatto e questo si è
aggiustato. Io ricordo di
essermi sentito davvero bene, felice per aver aiutato la mamma, ma poi
il suo
sguardo ha incrociato il mio. Era terrorizzata, d’improvviso
consapevole di
aver generato una creatura rara e temuta dal resto del mondo. Da quel
giorno ho
tenuto nascosto il mio potere a mia madre, evitando di usarlo in sua
presenza,
anche se non potevo fare a meno di utilizzarlo. Quando lei mi ha
affidato a
quell’uomo che mi era parso tanto spaventoso, ricordo di
averla supplicata di non
mandarmi via, promettendo che non avrei mai più usato la
magia”.
“Era
la tua strada. Non potevi certo reprimere la tua natura”
commentò Gudis.
“No
di certo, ma un bambino questo non lo può capire. Ora
dormite. Sono stanco pure
io”.
● ●
●
La
mattina seguente, furono svegliati dalla luce esterna, segno che non
pioveva
più. Si alzarono pigramente, mangiarono quel che rimaneva
delle cose ricevute
la sera prima, si vestirono e si prepararono per partire, come gli era
stato
detto dal fratello.
“Siete
svegli?” domandò una voce femminile.
Stupiti
di questo, i due si fissarono con aria interrogativa.
“Venite.
Vostro fratello vi aspetta” riprese la voce.
Gudis
e Veda uscirono, aprendo lentamente la porta. Si trovarono faccia a
faccia con
una donna riccamente vestita, con i capelli lunghi sciolti e mori.
Sorrideva.
“Venite
con me. Seguitemi”.
Iniziarono
a camminare fra i corridoi fino a giungere alla base della grande torre
principale. la bimba sorrise, paragonandola ad una grossa matita. Aveva
quattordici lati, ciascuno chiuso e senza aperture se non praticamente
sulla
cima, coperta solo in parte da una punta tronca. Salirono, avvolti dal
buio,
seguendo la donna.
“Eccoli”
parlò lei, rivolta allo stregone che stava al centro della
stanza, circondata
da aperture ad arco che partivano dalle piastrelle scure del pavimento.
“Grazie”
rispose lui, senza girarsi a guardarla.
Lei
fece un piccolo inchino e se ne andò, facendo segno ai
fratelli di raggiungere
il centro della stanza. Gudis e Veda obbedirono, avvicinandosi al
maggiore.
“Chi
era quella?” domandò il giovane scienziato.
“La
figlia del mio maestro”.
“La
tua ragazza?”.
“Ho
il divieto di toccarla”.
“E
perché?”.
“Perché
queste sono le regole. Fra tre anni passerò al livello
successivo e sarò libero
di far ciò che mi pare”.
“È
molto bella…”.
“La
smettiamo di parlare di lei?! Avanti, venite qui”.
Lo
stregone pareva molto concentrato. Camminò verso una delle
aperture, che si
illuminò. Gudis non capì come questo fosse
possibile ma non chiese nulla, per
non sfigurare.
“Andate”
parlò il maggiore.
“Andate
dove?” storse il naso Gudis.
“Lì!”
indicò l’apertura lo stregone.
“Il
suicidio non rientra fra le mie priorità”.
“Macché
suicidio! Muovetevi”.
Diede
una piccola spinta alla bambina, che sparì avvolta dalla
luce.
“Veda!”
la chiamò Gudis, senza capire dove fosse andata a finire.
“Queste
non sono semplici finestre senza vetri. Sono porte verso il resto del
mondo.
Muoviti. Se il padrone di casa scopre che sono qui non mi
accadrà nulla di
bello!”.
I
due fratelli attraversarono quasi insieme la luce e riapparvero in una
grande
stanza bianca, attraverso uno specchio. Piena di tavoli con strani
oggetti che
facevano fumo e rumori misteriosi, la sala pareva deserta.
“Chi
è là?” domandò una voce.
“Uno
a cui devi un favore” rispose lo stregone.
“Ihanez!
Sei tu?” domandò un uomo, apparendo da dietro una
grossa lavagna.
Indossava
spessi occhiali con lenti d’ingrandimento e stringeva una
strana ampolla
attorcigliata fra le mani.
“Da
quanto non mi sentivo chiamare così…”.
“Beh,
è quello il tuo vero nome, no?”.
“Il
mio nome di nascita. Non so quale sia più vero fra il nome
di nascita e quello
che ho acquisito a quattordici anni divenendo ufficialmente uno
stregone”.
“E
questi due chi sono?”.
“Gudis
e Veda Kami. Sono i miei fratelli”.
“Non
sapevo avessi dei fratelli”.
“Nemmeno
io, prima di mezza giornata fa”.
“A
cosa devo la tua visita, stregone?”.
“Mi
devi un favore, spero che te ne ricordi ancora”.
“E
come scordarlo? Quella sera, nel bosco, avresti potuto uccidermi e
invece mi
hai lasciato andare. Che posso fare per te?”.
“Sono
orfani. Han bisogno di un posto dove stare e di qualcuno che li guidi.
Lui è
uno scienziato”.
“Davvero?
Ottimo! Un giovane promettente cervellone come il sottoscritto.
Fantastico”.
“Siete
uno scienziato pure Voi?” domandò, timidamente,
Gudis.
“Certo”.
“E
come mai siete amici? Stregoni e scienziati non
dovrebbero…”.
“Non
tutto è bianco o nero, ragazzo. Sarò lieto di
prendermi cura di voi. Ho giusto
bisogno di un paio di assistenti”.
“Non
usarli per strani esperimenti” lo ammonì Ihanez.
“Non
lo farò! Staranno benissimo qui e poi avranno sempre una
porta verso il tuo
mondo”.
“Siate
prudenti nell’usare simili porte”.
“Tranquillo.
So che succede se ci becca il tuo simpaticissimo maestro”.
“Devo
andare adesso. Se torna e non mi trova dovrò inventarmi
più di una balla per
giustificarmi”.
“Ti
auguro di passare presto al quinto livello, così da
liberarti da simili
presenze”.
“Anche
a te auguro di arrivare al quinto livello e di poter diventare uno dei
migliori”.
“Grazie.
Passa a trovarci”.
Gudis
e Veda videro il fratello attivare lo specchio per attraversarlo, senza
parlare. Il maggiore notò il loro sguardo e, a disagio, si
sforzò di trovare
delle parole di congedo.
“Con
lui vi troverete bene” borbottò “Meglio
che con me, questo è sicuro! Passerò
ogni tanto, ci rivedremo. Fate i bravi, vedrete che andrà
tutto bene”.
Fece
per andarsene ma Gudis lo fermò, porgendogli di nuovo la
lettera che la loro
madre aveva scritto, ringraziandolo per l’aiuto. Lo stregone
la prese e,
tornando alla sua solita mancanza d’espressione,
salutò con un cenno ed
attraversò lo specchio.
● ●
●
“Randoeku!”
tuonò il maestro, non appena l’allievo mise piede
alla torre a quattordici
facce.
“Sono
qui” rispose Ihanez.
“Lo
so che sei lì. E cosa ci fai lì?”.
“Io…io
volevo solo fare un giro. Tutto qui”.
Il
maestro gli si materializzò davanti. Non sembrava molto
anziano, anche se lo
era. Questo perché gli stregoni migliori, quelli che
superavano la prova finale
del quinto livello, non invecchiavano più.
“Tutto
qui, tu dici? Fammi un po’ capire. Ti senti forse pronto per
poter usare la
torre? Sai che con il minimo errore potresti trovarti chissà
dove o scomposto
in pezzi!”.
“Lo
so. Ma sono capace di usare la torre”.
“Davvero?”.
“Sono
intero. E sono andato dove volevo andare. Direi di
sì”.
“Non
fare lo strafottente”.
“E
voi non trattatemi come un ragazzino”.
“Sei
solo un quarto livello!”.
“Ho
venticinque anni!”.
“Sei
un pivello. Ti ci vogliono ancora tre anni per passare di livello e
dopo di questi
altri sette per poter aspirare ad essere ammesso alla prova finale del
quinto
stadio. Tu vuoi arrivare a quell’esame, vero? O non ti
interessa?”.
“Voglio
arrivarci!”.
“E
allora vedi di smetterla di disobbedirmi, se non vuoi che ti cacci
prima della
fine dell’addestramento!”.
“Sissignore”
si rassegnò Ihanez, sospirando.
“Dammi
la mano”.
L’allievo
non capì quelle parole ma porse la mano destra al suo
maestro, che l’afferrò
saldamente, stringendola fra le dita guizzanti di magia. Righe nere si
espansero lungo il dorso dell’arto dell’allievo,
che gridò per il dolore ma non
riuscì a liberarsi da quella presa.
“Questo
è per ricordarti qual è il tuo posto”
sbottò il maestro, prendendo le scale per
scendere dalla torre e ordinando al suo sottoposto di fare altrettanto.
Ihanez
si morse il labbro per non lamentarsi ancora. Quei segni neri erano
come
bruciature profonde e non era in grado di muovere le dita.
“Così
per un po’ ti concentrerai sulle magie di ricezione, con la
mano sinistra,
ignorando temporaneamente quelle di trasmissione. Tranquillo, prima o
poi
tornerai ad usare tutte le falangi”.
L’allievo
non disse sulla. Chinò lo sguardo davanti al viso della
figlia del maestro e
tornò nella sua stanza. Era stanco, piuttosto confuso e
dolorante. Sospirò. Era
abituato a quelle manifestazioni di forza del maestro ma ogni volta non
sapeva
mai esattamente spiegare il perché di certi gesti. Meglio
non chiederselo,
concluse, estraendo la lettera della madre dall’ampia manica
e dedicandosi ad
essa.