The
last time
Capitolo
4 – Non dirmi “Io te l’avevo detto”
La
testa… la testa le pulsava come se dovesse esplodere
da un momento all’altro. Sentiva delle voci confuse, ma non riusciva a
distinguere le parole, né a ricordare dove fosse o il perché di quel mal di
testa. Era persa dentro al suo corpo, non riusciva a riconoscere gli occhi, o
la mano… cercò di muovere le dita, e sentì un
formicolio percorrerla. Le voci divennero più forti, come a volerle entrare
nella testa brutalmente, strappandola da quel fastidioso torpore. Sembravano
sorprese, se aveva sentito bene stavano esultando perché aveva mosso la mano. Bè, almeno adesso sapeva di essere riuscita a muoverla.
Forse sarebbe anche riuscita ad aprire gli occhi. Fece un tentativo, ma subito
li richiuse, infastidita. La vista era appannata, e c’era una forte luce
accecante.
“Signorina
non si preoccupi, sta arrivando l’ambulanza”, disse una voce, tramutata dalle
sue orecchie in un fastidioso ronzio di sottofondo. Ambulanza? Cercò di
ripercorrere gli ultimi avvenimenti, ma la sua mente rifiutava di collaborare
con lei. Nonostante questo, ben presto la sirena fece braccia nel suo torpore,
costringendola ad affrontare gli avvenimenti, e soprattutto quella
fastidiosissima luce. Aprì gli occhi lentamente, cercando inutilmente di
abituarsi al bagliore. Un uomo e una donna la fissavano preoccupati dal
finestrino abbassato. Ci mise diversi secondi a rendersi conto che era in
macchina. Poi, ci mise molto meno a capire cosa era successo.
“Sango”, urlò, ma dalla sua bocca uscì solo un debole
mormorio, e il suo collo si rifiutava di girarsi. Sembrava fissato al sedile
con un chiodo, tale era il dolore che le faceva assieme alla testa.
Richiuse
gli occhi, sospirando faticosamente. Le stava tornando un po’ di memoria, e
perse il senso temporale. Sentì che la tiravano fuori, mettendola su una
barella, le fecero delle domande, ma non riusciva a rispondere con lucidità a
nulla.
Sperava
solo di arrivare in fretta in ospedale.
La
prima cosa che sentì di quel posto era un fortissimo odore di medicina. La
raggiunse prima ancora dei rumori nel corridoio, prima ancora di accorgersi che
non poteva muovere il collo. E che la schiena le faceva un male tremendo. Aveva
la bocca secca, e il braccio le formicolava in modo fastidioso. Strizzò gli
occhi, per assicurarsi di essere sveglia, e poi si concentrò ad aprirli
lentamente. Il luogo era illuminato da fastidiose lampade al neon, i muri
bianchi peggioravano solo la situazione per le sue iridi abituate al buio.
Nonostante tutto, era abbastanza lucida. Ora. Perché se cercava di ricordare il
prima, tutto ciò che le tornava alla mente era un rumore metallico e uno strano
stridore. Dato che il formicolio al braccio non finiva, concentrò lo sguardo
lì, con fatica, perché il collo non si muoveva, come se fosse bloccato.
Impallidì alla vista del suo braccio
con quella cosa addosso.
“Ah”,
mormorò spaventata, cercando di calmarsi.
“Sango!”. La ragazza concentrò lo sguardo su una sedia lì
vicino. Kagome la fissava con sguardo sollevato, ora
che si era accorta che era sveglia.
“Toglimi
questa cosa!”, strillò la ragazza agitandosi. Pessima idea, tutto il suo corpo
reagì con fitte terribili, obbligandola al silenzio e all’immobilità. Kagome sorrise, fissando la flebo sul braccio dell’amica.
Sapere che stava bene, o almeno meglio di prima, la rasserenava. Soprattutto se
pensava che era lei la causa dell’incidente. Se solo non si fosse distratta.
“Potresti
dire qualcosa tipo: ‘Oh Kagome, stai bene anche tu!
Cos’è successo sorellina adorata?’”.
“Sì,
nei tuoi sogni, ora staccami questo… questo… coso!”, ringhiò Sango,
cercando di non agitarsi nuovamente. Kagome ridacchiò
di nuovo, divertita da questo lato pauroso della sorellastra.
“Si
chiama ago, Sango”.
La ragazza rabbrividì. “E comunque non te lo tolgo, quella flebo contiene non
so quale medicina che allevia il dolore”.
“Oh
sì, sono certa che non-so-quale-medicina sia vitale per la mia guarigione!”, si
lamentò l’altra borbottando. Kagome si fece seria.
“Hai
una frattura alle vertebre cervicali. Per il contraccolpo”, spiegò, fissando il
collare che impediva il movimento del collo di Sango.
La ragazza inarcò un sopracciglio, uno dei pochi gesti che non la indolenziva.
“Kagome, cosa è successo? E tu stai bene?”, chiese subito,
dato che la sua mente non era proprio decisa a ripercorrere eventi futuri. O
forse era svenuta prima. L’altra fece uno sguardo colpevole, e cominciò
nervosamente a incrociare le dita tra di loro.
“Ecco… siamo finite nella corsia opposta senza accorgercene,
e… bé, abbiamo preso una
macchina. Chiunque sia, ora è in prognosi riservata. Sembra che non avesse la
cintura”. Sango sospirò, colpevole a sua volta. Aveva
distratto Kagome con discorsi che la preoccupavano.
“Papà?”,
chiese dopo un lungo silenzio, entrambe riflettevano sugli accaduti, “E non mi
hai ancora detto come stai tu”.
“Bè, io ho solo sbattuto la testa, nulla di grave. E papà… bè, l’ho chiamato, ma non
poteva venire qui. Sembra che manderà Kohaku e
qualcun’altro”, spiegò Kagome facendo spallucce, come
per dimostrare che sì, non si era fatta nulla. Sango
arricciò il naso, riflettendo sull’eventuale qualcuno. “Senti Kagome… ma tu cosa pensi
di…”.
“LO
SAPEVO CHE DOVEVA DORMIRE DA NOI”. Le ragazze sobbalzarono, mentre una tempesta
vivente attraversò il corridoio, con tanto di spostamento d’aria. Fissarono
allibite e confuse la porta, mentre una serie di infermiere si affrettava a
inseguire la suddetta tempesta per limitare i danni a cose o pazienti.
“K-Kagome, vai un po’ a controllare”, disse Sango preoccupata, e probabilmente con un piano per
togliersi il coso – alias l’ago – dal
braccio con qualche complesso stratagemma. La ragazza annuì, alzandosi dalla
sedia e dirigendosi verso la porta lentamente. Il dottore le aveva detto di evitare
movimenti bruschi, e questo la scocciava parecchio. Era fastidioso muoversi
alla velocità di un bradipo malaticcio. Molto. Comunque, al momento il
corridoio sembrava controllato da due infermieri robusti, quindi non doveva
essere in pericolo di vita nell’avventurarsi nel famigerato ospedale. Sorrise
al pensiero, come poteva una sola persona aver causato quel cataclisma? Dalla
voce, oltretutto, le era sembrata una donna.
“Signorina,
la smetta di urlare!”.
“NO,
LASCIATEMI!”. Kagome vide in fondo al corridoio una
massa di cinque infermiere che cercavano di trattenere una ragazza. Accanto, un
ragazzo alto e moro attendeva afflitto il termine della ‘rissa ospedaliera’.
“La
prego, si calmi!”, insistette una delle povere infermiere, “il suo amico è in
prognosi riservata, solo ai familiari è permesso di…”.
“Al
diavolo i familiari!”, urlò la ragazza, i lunghi capelli rossi spettinati e
scomposti, con diverse ciocche che aderivano al volto sudato. A vederla doveva
aver fatto una bella corsa. Anche il ragazzo era parecchio sudato, e Kagome notò una lunga coda da lupo che spuntava dai jeans.
C’era da aspettarselo: demoni. Chi altro poteva fare un simile baccano? La
ragazza rossa continuava a strillare, attirando l’attenzione di tutti i
pazienti che, in cerca di avventure durante la malattia, si avventuravano oltre
la porta della loro stanza. “Se conosceste suo fratello direste che sono molto
meglio io, maledetti!”.
Kagome
avrebbe capito solo dopo da cosa nacque l’impulso che la spinse ad avanzare
verso la ragazza rossa. Non c’era un motivo preciso, sentiva di doverla
calmare, in qualche modo. Come se lo stesse decidendo qualcun altro.
“Ehm… mi scusi, infermiera. Cosa…?”,
cominciò timidamente, e subito si sentì fuori luogo. Cosa poteva fare lei, se
cinque infermiere non servivano a nulla? Forse poteva consigliare l’uso di un
po’ di morfina…
“Ah,
sei la ragazza dell’incidente!”, esclamò l’infermiera. Kagome
annuì, e attese il seguito, per avere una spiegazione. L’infermiera, però,
distolse lo sguardo, fissando nuovamente la rossa. In quell’istante Kagome si rese conto del silenzio innaturale che era sceso
nel corridoio. Due occhi smeraldo la stavano fissando.
“Ragazza
dell’incidente?”, domandò la youkai con voce
strozzata. L’infermiera annuì.
Peggio,
precisò.
“Sì,
era alla guida del veicolo che ha scontrato quello del vostro amico”. Kagome dovette ammettere di non aver mai visto uno sguardo
tanto carico d’odio. Già, neppure quando aveva accidentalmente rotto uno dei ventagli di Kagura.
Mai.
“TU!”,
urlò improvvisamente, facendo sobbalzare tutti, “IO TI AMMAZZO!”. Per la prima
volta, il ragazzo la prese per un braccio, tirandola e sé, e la strinse con
forza.
“Ayame, calmati”, le sussurrò all’orecchio, “calmati ti
prego”. La ragazza si divincolò, ma riuscì a liberare un braccio, che usò
debitamente per additare insistentemente Kagome
mentre sbraitava.
“Si
può sapere cosa fai mentre guidi? Leggi il giornale per caso? Come diavolo hai
fatto a finire nell’altra corsia, IDIOTA! Se lui… se lui…”. Si morse un labbro, e per un attimo si immobilizzò. Kagome alzò un braccio, afflitta, per cercare di
consolarla, ma subito l’altra si riprese, facendola sobbalzare. “PIRATA DELLA
STRADA! Se credi di passarla liscia ti sbagli, ti perseguiterò in eterno, e ti
causerò ogni singola frattura che tu hai causato al mio amico!”.
“Ayame calmati, lui guarisce in fretta, non è la stessa cosa”,
cercò di trattare il ragazzo, e in quel momento Kagome
cominciò a prendere sul serio le minacce.
“Zitto,
o fratturo anche te!”, minacciò la ragazza, ma effettivamente cominciò ad
urlare di meno, anche se le minacce continuavano a scendere come una cascata
sulla non proprio povera Kagome. Le infermiere tirarono un sospiro di sollievo.
“Ayame!”, disse una voce dal fondo del corridoio, che
aggiunse in tono da rimprovero, “te lo avevo detto che stava qui, solo lei
poteva causare tutto quel baccano”.
“Rin”, mormorò il ragazzo, fissando lo sguardo su lei e sul
demone che la accompagnava, “come ha fatto a trascinarsi dietro Sesshomaru?”.
“Ottimo,
ci servirà”, sentenziò Ayame con tono minaccioso, e
affilando gli occhi.
“Koga, cosa avete saputo?”, chiese la nuova arrivata
preoccupata al ragazzo.
“Nulla,
non ci dicono nulla, dato che non siamo familiari”,
rispose acida Ayame al suo posto, fissando in modo
accusatorio le infermiere. Rin tirò a sé Sesshomaru, mentre Koga
sospirava, liberando la rossa. Kagome arretrò
d’istinto.
“Lui
è un parente”, disse Rin indicandolo, Sesshomaru rispose con un ‘Mmm’
infastidito, “e loro sono amici”.
“Se
promettono di stare in silenzio, forse posso farvi passare tutti”, disse un
medico uscendo da un stanza alludendo a Koga e Ayame.
“Certo,
saremo buoni”, disse l’altra con volto angelico. Nulla di più falso. Solo in
quel momento, Rin si accorse di Kagome.
“Oh,
vieni anche tu?”, domandò dolcemente. Ayame la
fulminò immediatamente. “Certo che viene! Deve
scusarsi con Inuyasha!”.
…
I-I-INUYASHA?
“Ehm,
in realtà mia sorella dovrebbe…”.
“Tu
verrai”, sibilò Ayame,
prendendola per la maglietta. E così, la trascinarono con loro. Kagome arrossì inevitabilmente. Quella stupida,
stupidissima visione! E quello stupidissimo destino!
“Sesshomaru, mi dici che ci fai qui?”, domandò Koga perplesso. Sesshomaru non si
sarebbe mosso di un millimetro nemmeno per andare al funerale del fratello.
“Per
riconoscere il corpo all’obitorio”, rispose lui, ghiacciando tutti i presenti,
meno l’innocente Rin. “Oh, ma che domande, l’ho
convinto io a portarmi con la macchina”, disse lei sorridente, come se il
fidanzato avesse appena invitato tutti i presenti a cena fuori.
Ogni
dubbio di Kagome, ormai era chiarito.
Stava
in mezzo ad una gabbia di matti.
Ora
il punto era: come fuggire? Il corridoio era dritto e senza vie di fuga, ed era
circondata. Venne spinta fino ad una porta bianca, prontamente aperta dal
medico, ed entrarono nella stanza che faceva da anticamera alla sala
operatoria. Aveva un vetro con tendine, dal quale si scorgeva l’interno. Ayame strinse convulsamente il braccio di Koga, terrorizzata, mentre il medico elencava la serie di
operazioni che avevano svolto sul ragazzo. Kagome
sentì un terribile groppo allo stomaco. Le veniva da vomitare, e sentiva un pressante
senso di colpa. Ma non era normale. Sentiva il bisogno di aggiustare le cose. E le era difficile trattenersi, anche se non
poteva effettivamente fare nulla.
“Dovete
ringraziare che il vostro amico è un hanyou”, terminò
il primario, stringendo la maniglia della sala operatoria, “un essere umano
sarebbe morto. La cintura è importantissima in questi casi, tenerla slacciata è
stato imperdonabile”. Ayame annuì debolmente,
fissando il vetro. Anche Kagome concentrò lo sguardo
su quel punto, vedendo il lettino al centro della stanza, circondato da
numerosi macchinari. Il bisogno che sentiva aumentò, e si morse un labbro per
trattenere quello strano istinto. Cosa le stava succedendo?
“Possono
entrare solo i familiari”, precisò il medico, facendo passare Rin e Sesshomaru ed entrando,
chiudendo la porta dietro di sé. Gli altri tre rimasero a fissare il letto
attraverso il vetro.
Inuyasha
era lì, immobile. Aveva la flebo al braccio, il collare e il tubo
endotracheale. Ayame scoppiò a piangere, e Koga la strinse a sé, cercando di consolarla. Inuyasha era il loro migliore amico. Vederlo ridotto così… non potevano descrivere neppure un decimo di quello
che provavano. Ed era vivo per un pelo. Kagome
cominciò a sentirsi male. Sentiva di dover vomitare da un momento all’altro, e
lo stomaco le sembrava quasi contrarsi.
“Io…”, balbettò, stringendosi il ventre, “torno quando si
sarà svegliato”. Corse via senza attendere risposta, e Ayame
non la fermò, non stavolta. Non ne aveva la forza, e le era sembrata pallida.
In fondo, anche lei era stata coinvolta nell’incidente.
“Kagome!”, strillò Kohaku,
abbracciandola non appena la ragazza rientrò nella camera, “sorellona,
stai bene!”. Kagome riprese colore immediatamente, e
sentì il malessere scivolare via. Sembrava che la vicinanza di Inuyasha le facesse male. Alzò lo sguardo, trovando nella
stanza anche Miroku, che la salutò con un gesto
rapido.
…
Miroku?!
“E
tu cosa ci fai qui?”, domandò Kagome confusa. Kohaku sospirò rassegnato, con l’aria di uno che la sa
lunga sulla situazione.
“Papà
non voleva mandarmi da solo, e nessun altro poteva. I ragazzi dovevano badare
agli strumenti e agli animali, Kagura lo ha fulminato
prima di dileguarsi, e intanto lui”,
sottolineò indicando Miroku, “saltellava da una parte
all’altra dicendo ‘Scegli me, scegli me!’. Oh, sorella”, aggiunse rivolto a Sango, “il viaggio in macchina è stato tremendo, ammiccava
a tutte le ragazze che vedeva lungo la strada!”. Kagome
e Sango si scambiarono un’occhiata più che eloquente,
per poi osservare Miroku con sguardo truce e severo.
Il ragazzo, che casualmente si sentì
colpevole, schizzò in corridoio con Kohaku, dicendo
che doveva chiamare per informare la famiglia.
Kagome
si lasciò cadere su una sedia, distrutta.
“Bè? Che è successo in corridoio?”, domandò Sango con innocenza. Kagome si
pietrificò, sbiancando. “Nulla”. L’altra la fissò poco convinta. Era sicura di
stare bene? La sorella le sembrava pallida, e terribilmente preoccupata.
“Kagome, non mentire”, disse Sango,
con lo stesso tono di un monito. L’altra scosse la testa, dicendo che non
mentiva affatto, e anzi, rimproverò l’altra perché si era tolta la flebo senza
il permesso delle infermiere. Sango alzò gli occhi al
cielo, ignorandola ampiamente.
“Insomma
Kagome, smettila di ignorare l’argomento e dimmi chi
abbiamo preso!”, sbraitò Sango, sempre immobilizzata
dal collare. Era così fastidioso. Non
poteva muoversi come voleva, tantomeno risultare minacciosa come avrebbe
voluto. “Ho saputo che è un’hanyou, per nostra
fortuna, o eravamo accusate di omicidio”. Kagome
sbiancò ancora, per quanto fosse possibile ancora farlo, e questo fece
insospettire Sango. Vediamo, la sorella che sbianca
per la parola omicidio? No, era impallidita un po’ prima…
Sango spalancò gli occhi, incredula.
“Oh.
Mio. Dio!”, esclamò a bocca aperta. Kagome la fulminò
immediatamente. “Non è come pensi, Sango!”, sbraitò,
ma ormai l’altra era già totalmente indignata.
“Kagome! Io t…”.
“Non
dire ‘Io te l’avevo detto’!”, urlò la sorella
scattando in piedi, “c-che ti credi?! Che io abbia agito senza pensare? Cioè,
mettiti nei miei panni! Io… tu cosa avresti fatto
davanti ad una visione del genere?”. Sango sospirò,
mentre osservava l’altra andare avanti e indietro per la piccola stanza,
mordendosi le mani. Capiva benissimo che la situazione era problematica. E,
soprattutto, aveva paura per Kagome. Aveva o no
violato una regola? L’unica regola? Miroku tornò
nella stanza, annunciando felicemente che era tutto a posto, e che il dottore
aveva detto che Kagome poteva tornare a casa, a patto
che tornasse a farsi visitare il giorno successivo. La ragazza sospirò,
fissando la sorella.
“Non
preoccuparti per me”, disse subito l’altra sorridente, “tornerete a trovarmi
domani”. Kagome annuì, e si diresse verso la porta
con Miroku e Kohaku.
“Ah,
Kagome”. “Sì?”. “Un’ultima cosa”, fece dolcemente Sango, “prima che tu te ne vada”. Kagome
si voltò, fissandola perplessa. Sango sorrise,
facendole poi la linguaccia.
“Io
te l’avevo detto!”.
Ok,
non ho tempo per i ringraziamenti purtroppo, quindi ringrazio tutti coloro che
hanno commentato lo scorso capitolo nonostante il nostro mostruoso ritardo ^^’
Ringraziamenti:
-Roro
-Toru85
-Demetra85
- Bchan
-Mikamey
Ringrazio
anche tutti coloro che ci hanno messo tra i preferiti! *___*
E
adesso a te, Emi-chan! ^^