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Autore: Ayepandayay    24/04/2015    2 recensioni
Claire ha appena compiuto diciotto anni e si rende conto di non aver realizzato molto. Ma i suoi occhi incontreranno quelli di Harry Styles, che riuscirà a sconvolgere la sua vita.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Che cosa vedi di bello in lui?

Per circa tre anni mi sono fatta questa domanda.

Che cosa provi per lui?

Era una domanda ancora più insistente.

Perché lui?

Ecco. Questa era la domanda cui mi sforzavo di dare una risposta, quella che per anni mi ha costretto a maledire il suo nome, ma anche quella a cui c’era un’unica, semplice risposta.

Era una mattina di fine aprile quando lo vidi per la prima volta.

Stavo dondolando piano su un’altalena nel parco a due isolati da casa mia, assorta nei miei pensieri: Cavolo mi dicevo ieri ho compiuto diciotto anni, eppure sono ancora qui, che dondolo sulla mia altalena preferita, come quando ne avevo cinque. Le ragazze della mia età di solito escono tutte le sere con i loro fidanzati. Perché io no?

Abbassai lo sguardo sul suolo sassoso, facendo ricadere delle ciocche di capelli davanti agli occhi. Ne presi una nella mano destra e la osservai: dicono che le ragazze con i capelli biondi e occhi azzurri siano le più attraenti, eppure io non mi sento per nulla attraente. E poi nessun ragazzo mi ha mai rivolto la parola, se non per… formalità.

Sospirai. Nei numerosi libri che leggevo, le ragazze con un aspetto come il mio erano quelle “popolari” che facevano cadere tutti ai loro piedi.

Ancora assorta nei miei pensieri, non mi accorsi che qualcuno mi stava chiamando, o più che altro stava cercando di attirare la mia attenzione.

«Ehi.» sentii una voce roca chiamarmi per l’ennesima volta.

Mi voltai: alla mia sinistra c’era una ragazza bassina –nonostante fosse seduta sull’altalena si notava chiaramente la sua statura- dai capelli corti e completamente tinti di verde, sotto i quali s’intravedevano due grandi occhi castani. Lì per lì pensai che fosse poco più che una bambina.

«Ciao.» abbozzai un sorriso «Chi sei?» chiesi, cercando di essere il più naturale possibile. Quei capelli m’inquietavano.

«Mi chiamo Phoebe.» disse, mentre le sue labbra rosse e carnose formavano un buffo sorriso «Tu come ti chiami?» chiese a sua volta. Nonostante la sua voce fosse roca, c’era una certa nota di dolcezza in essa.

«Claire.» risposi con un’alzata di spalle, tornando poi a fissare i sassi. In qualche modo riuscii a percepire che anche lei aveva abbassato la testa. Non pensavo che i sassi fossero davvero così interessanti.

«Vieni spesso qui, vero?» domandò, cominciando a dondolarsi, strusciando i piedi contro il suolo. Mi limitai ad annuire. «Però sembri triste. C’è qualcosa che non va? Ti va di parlarne?» la sua voce suonava comunque roca, ma allo stesso tempo delicata e insicura.

Sospirai. Perché avrei dovuto dire i miei problemi a una sconosciuta dai capelli verdi? Mi voltai verso di lei: stava dondolando sull’altalena, mentre il ciuffo voluminoso si attaccava alla guancia destra quando andava in avanti, e si staccava quando andava indietro, formando una sorta di fascio di alghe marine.

«Sto bene.» mormorai. In realtà era vero… insomma, non avevo nessun problema grave, e non ero neanche così disperata da andare a lamentarmi con la prima testa d’alga che mi capitava.

«Scusa» mormorò a sua volta «so che non ti fidi di me. Insomma, ci “conosciamo” da neanche cinque minuti, e già ti sto rompendo le scatole.».

Ci fu qualche minuto di silenzio. L'assenza di qualsiasi suono nelle vicinanze mi aveva sempre inquietata, e il fatto di avere accanto una tizia dai capelli verdi non aiutava per niente.

«Perché vuoi sapere se sono triste?» le chiesi improvvisamente, alzando un sopracciglio. Era come aveva detto lei: ci conoscevamo appena, eppure già mi aveva chiesto cosa avessi. La mia solitudine era così evidente, oppure quella ragazza era molto brava a capire i sentimenti della gente? In ogni caso, mi aveva incuriosita.

«Non lo so» rispose, facendo rallentare l’altalena «ma se vedo una persona triste, sento il dovere di aiutarla. Tu sembri piuttosto triste.» mi guardò, e i suoi grandi occhi sembrarono ingrandirsi ulteriormente.

Quella ragazzina era sorprendente: non solo aveva percepito in qualche modo la mia tristezza, ma voleva addirittura aiutarmi. Scossi la testa. Ero confusa, ma allo stesso tempo quasi divertita da quella situazione.

«Ci sono tante ragazze molto più tristi, e che hanno problemi molto più gravi» feci dondolare un paio di volte la mia altalena «perché vorresti aiutare proprio me? »

«Perché ti osservo da un po’ di tempo, e penso che tu abbia bisogno di qualcuno con cui sfogarti» affermò, sorridendo appena.

«Scusa?» aggrottai le sopracciglia «Cosa significa che mi osservi? Sei per caso una stalker?» chiesi alzando la voce, senza accorgermi della velocità sempre crescente con cui parlavo.

Phoebe scoppiò a ridere, facendo oscillare l’altalena in avanti; perse l'equilibrio –anche se tutt'oggi non mi spiego come fece- e cadde all'indietro. Nonostante fosse a terra con la schiena premuta contro il suolo sassoso, continuava a ridere come non avevo mai visto fare a nessuno.

Sgranai gli occhi e mi precipitai accanto a lei per controllare se si fosse fatta male.

«Ehi, stai bene?» le chiesi allarmata, del tutto consapevole di sembrare più sua madre che una ragazza incontrata per caso.

«Sì, sì.» annuì mentre la sua risata si affievoliva «ma non voglio alzarmi. Il terreno è comodo»

«Sei strana.» dissi ridacchiando. Quella ragazzina era diversa da tutte le altre che conoscevo. Sembrava più una bambina. In effetti, non le avevo ancora chiesto quanti anni avesse… ne dimostrava circa quattordici, ma non ebbi il tempo di chiederglielo.

Si mise seduta, e si guardò intorno come alla ricerca di qualcosa; quando fissò il suo sguardo su un punto indefinito del parco, la sua espressione divertita si tramutò in una smorfia di disgusto.

Cercai di capire cosa stesse guardando: il suo sguardo era rivolto su un punto ai piedi del grande albero che si trovava proprio al centro del parco. Lì si trovavano un ragazzo e una ragazza. Lei era in piedi, con i capelli corvini che le arrivavano fino alla vita, e le mani –con le unghie più lunghe delle dita stesse- davanti alla bocca, a coprire un sorrisino malizioso. Il ragazzo invece era in ginocchio, con un mazzo di fiori in mano, e i capelli ricci –sembravano così soffici- e mori che venivano scompigliati dal leggero venticello.

Allora esistono ancora i ragazzi romantici. Pensai Quello lì sembra proprio come quelli descritti nelle fiabe. Magari ha anche un cavallo bianco… scossi la testa. Quel ragazzo era chiaramente innamorato della ragazza di fronte a lui. Sperai con tutto il mio cuore che lei meritasse l’amore di quel ragazzo. Sentii come se qualcosa di affilato mi avesse graffiato l’interno del petto. Perché queste cose capitano solo alle ragazze come quella lì? Perché mai a me?

«Che palle.» sbuffo Phoebe, facendomi ridacchiare. Forse quello era il ragazzo che piaceva a lei? Beh, sarebbe stato normale: chi non vorrebbe un ragazzo come quello?

«Cosa c’è?» chiesi, spostando lo sguardo su di lei.

«Quello è mio fratello» borbottò indicando con un cenno della testa il ragazzo dai capelli ricci «e quella è la ragazza che gli piace. Non voglio che si mettano insieme.» sbuffò di nuovo.

Spalancai gli occhi senza accorgermene. Ah, quindi non è il ragazzo che le piace, è suo fratello. In qualche modo, la morsa che avevo allo stomaco si allentò di poco, facendomi sentire stranamente colpevole.

«Perché?» sussurrai.

«Non mi piacciono quelle come lei. Non vogliono relazioni serie. Mio fratello è sensibile, non voglio che soffra.» abbassò la testa e la voce le tremò appena mentre pronunciava l’ultima frase.

«Tuo… fratello vuole una relazione seria?» chiesi, sempre più stupita.

«Lui dice di sì» scrollò le spalle «non fanno per lui quelle di quattro-cinque settimane».

Mi sedetti accanto a lei, ignorando il leggero dolore che provocavano i sassolini sul terreno. Riportai lo sguardo sul ragazzo riccio: era seduto per terra, con le gambe piegate verso il corpo, lo sguardo perso nel vuoto e un mazzo di tulipani bianchi accanto a sé. Sembrava così solo. Era arrabbiato, riuscivo a percepirlo, ma di una rabbia contenuta, che sembrava tristezza. S’intravedeva un’espressione rassegnata, come se quella fosse solo un’altra “missione fallita”, un altro caso di sentimenti non ricambiati. Mi sentii male per lui. Innamorarsi di una persona e non confessarglielo è una cosa, ma confessarglielo ed essere rifiutati ne è un’altra. Finché non lo confessi, hai sempre una minima speranza che prima o poi la persona per cui provi dei sentimenti si accorga di te. Ma se lo confessi e vieni rifiutato? È quasi impossibile non rassegnarsi. Ed è questo che faceva quel ragazzo: si arrendeva, perché spesso è questa la soluzione più semplice.

«Gli ha detto di no.» sospirò il mini-cespuglio. Avrei voluto chiederle “E non sei contenta?”, oppure al contrario dirle “Mi dispiace per lui”, ma in quel momento non sapevo davvero cosa fare: Phoebe mi aveva detto che quella ragazza le stava antipatica, ma anche che teneva molto al fratello, e in quel momento egli non era proprio al massimo della felicità.

«Ne troverà una che lo merita, vedrai.» dissi con il tono di voce più dolce possibile. Che lo merita. Già. Ma cosa ne sapevo io di quel ragazzo? Poteva anche essere un maniaco che celava la sua vera indole sotto una maschera dolce e gentile. Eppure in quel momento mi sembrava la persona più bisognosa d’amore del mondo.

«Lo spero davvero.» disse piano mentre si alzava da terra. Si pulì il retro dei jeans con un gesto della mano sinistra, e si avvicinò lentamente al fratello, ancora seduto ai piedi dell’albero. Gli sussurrò qualcosa che gli fece alzare lo sguardo verso di lei, che gli accarezzò i folti ricci. Il ragazzo si alzò e si gettò fra le braccia della sorella, che lo strinse affettuosamente. In quel momento non potei fare a meno di pensare a mio fratello: non lo vedevo quasi mai a causa del suo lavoro che lo costringeva a stare lontano da casa per lunghi periodi. Quando tornava, però, era la persona più affettuosa del mondo. Certo, rimaneva comunque un grande coglione, e nonostante avesse vent’anni, si comportava come quando ne aveva quindici… ma è uno degli aspetti che più adoravo di lui. Riusciva sempre a tirarmi su di morale con le sue stupidaggini, anche se a volte proprio a causa di queste litigavamo. Era divertente persino litigare con lui, perché sapevamo che alla fine ci saremmo ritrovati a farci il solletico a vicenda. Mi mancava… e mi chiesi quando avrei potuto riabbracciarlo.

I due fratelli sciolsero l’abbraccio, e mano nella mano s’incamminarono nella mia direzione.

«Claire, noi andiamo, ci vediamo in giro!» Phoebe mi salutò con un gesto della mano, accennando un sorriso. Aveva gli occhi cerchiati di rosso: sicuramente aveva pianto insieme al fratello.

Ci fu un momento –una frazione di secondo- in cui i miei occhi e quelli del ragazzo entrarono in contatto. I suoi erano verdi. Un verde che non avevo mai visto prima, un verde che sembrava trasmettere e percepire ogni singola emozione. Un verde non molto chiaro, ma neanche molto scuro, che sembrava racchiudere l’animo di una persona buona e gentile ma arresa al fatto che nessuno l’avrebbe mai amata. Forse è per questo che mi ci persi: in fondo anch’io mi sentivo così. Sentii la sua solitudine come se fosse stata la mia, la sua tendenza ad arrendersi come se fosse stata la mia. Sentii le lacrime che cercava di trattenere dietro a quegli occhi lucidi, come se fossero state le mie.

Quando il ragazzo si voltò dall’altra parte, mi risvegliai dallo stato di trance. Non credo di aver mai visto occhi tanto… belli, era l’unica parola che mi veniva in mente, ma non era quella giusta. I suoi occhi non erano semplicemente belli, erano molto di più. In ogni caso, sarebbe stato meglio dimenticare quegli occhi, perché sicuramente essi si sarebbero dimenticati di me. Almeno era quello che mi dicevo.

«Ci vediamo, Phoebe.» fu tutto ciò che riuscii a dire prima di vedere i due fratelli sparire oltre il cancello del parco.

Mi sedetti sulla mia altalena preferita –ce n’erano tre, la mia era la prima da destra- e continuai a pensare a quegli occhi verdi. Dimenticati di loro, Claire, dimenticati di lui. Non lo conosci, non sai nemmeno il suo nome! Mi dicevo. Ma questo non era che l’inizio.

 

Pochi giorni dopo, a scuola, mentre frugavo nel mio armadietto, sentii qualcosa –o qualcuno?- sfiorarmi il braccio. Mi voltai lentamente: detestavo fermarmi in corridoio, dove accadevano la maggior parte dei litigi fra i ragazzi “popolari”, dove i fidanzatini amoreggiavano, e dove gli studenti migliori della scuola urlavano i loro voti altissimi ai quattro venti. Per quattro anni avevo sempre cercato di evitare le pause in corridoio, e di sicuro non sarebbe stato qualcosa che mi aveva sfiorato il braccio a trattenermi.

Mi trovai faccia a faccia con il fratello di Phoebe. Si formò un sorriso sulle sue labbra. Già, le sue labbra, erano rosse e piene come delle fragole. Delle fragole molto saporite. Scossi la testa, imbarazzata dal mio stesso pensiero.

«Ciao.» mi salutò con un tono basso. Aveva una voce roca… ma non come quella della sorella. La sua era più simile al suono del vento che soffia attraverso un vetro rotto, mentre quella di Phoebe mi faceva pensare all’eco di un verso in una caverna.

«Ciao.» risposi, cercando di non far tremare la voce.

«Tu sei Claire, vero? L’amica di Phoebe» chiese gentilmente, abbassando lo sguardo sulle proprie converse bianche.

«Sì, sono io. Tu sei suo… fratello?» dissi un po’ imbarazzata. Insomma, non sapevo se potermi definire proprio un’amica di Phoebe: avevamo parlato per circa mezz’ora dopotutto.

«Sì.» sorrise il ragazzo «Mi chiamo Harry» disse, guardandomi negli occhi. Distolsi immediatamente lo sguardo dal suo e lo posai sui suoi capelli: erano così ricci, sembravano così soffici, e mi venne un’improvvisa voglia di accarezzarli. Scossi impercettibilmente la testa, e spostai lo sguardo sulle sue labbra. Erano così piene e rosse che avrei voluto morderle. Mi sembrava che non ci fosse nulla di imperfetto in quel ragazzo, che fosse bellissimo da qualsiasi angolazione. Sarei mai riuscita a guardarlo in faccia senza incantarmi?

«Piacere.» dissi velocemente, decidendo di tenere lo sguardo posato sulle sue guance. Non erano paffute come quelle della sorella, ma in compenso gli si formavano delle adorabili fossette quando sorrideva. E in quel momento, accidenti a lui, stava sorridendo.

«Ti vedo poco in corridoio» disse a bassa voce «come mai?».

Vedo che stalkerarmi è un vizio di famiglia! Pensai divertita.

«Non mi piace stare qui.» dissi con un’alzata di spalle. In quel momento sarei voluta correre via da quel tizio, entrare nell’aula di matematica –per quanto poco mi potesse piacere quella materia- e sedere al mio banco, aspettando l’arrivo degli altri compagni. Harry mi faceva questo… strano effetto. Non mi ero mai sentita in imbarazzo prima, mentre in quel momento avvertivo le mie guance rosse e calde.

«Capisco.» borbottò, per poi voltarsi indietro. Per un attimo l’assenza dello sguardo di quel ragazzo su di me mi permise di riacquistare il controllo di me stessa e delle mie emozioni.

Decisi di alzare lo sguardo per capire il motivo del suo improvviso movimento: stava passando la ragazza che il giorno prima gli aveva spezzato il cuore, respingendo lui e i suoi sentimenti. Camminava leggiadra insieme alle sue amiche, con la sua folta chioma corvina che svolazzava. Il suo gruppetto si fermò per qualche attimo a guardare Harry, poi scoppiò in una fragorosa –ed odiosa- risata.

Avvertii improvvisamente un'inspiegabile rabbia. Socchiusi gli occhi per cercare di calmarmi. Che cosa avrei dovuto fare? Non potevo di certo picchiare quelle ragazze –avrei voluto farlo- ma neanche rimanere a guardare mentre Harry veniva deriso sarebbe stato corretto. Così decisi di raccogliere quel po' di coraggio che mi rimaneva dalla precedente interrogazione di biologia, e mi rivolsi alle quattro ragazze che stavano ridendo.

«Lasciatelo stare.» dissi, attirando la loro attenzione in poco tempo. Avvertii i loro sguardi famelici e sprezzanti, ma anche quello grato e rassicurante di Harry.

«Come hai detto, scusa?» avanzò la ragazza con i capelli lunghi e corvini. La sua voce faceva seriamente pensare al verso di un corvo.

«Ho detto “lasciatelo stare”.» ripetei, scandendo lentamente le parole. Mi morsi il labbro: ero tesissima in quel momento, sentii come se il cuore avesse smesso di battere, come se avessi smesso di respirare. Lo sto facendo per Harry mi dissi.

Quel pensiero sovrastò tutti gli altri, e senza alcuna esitazione continuai a parlare «Vi divertite tanto a usare i ragazzi, e poi ridete alle loro spalle, vero?» alzai un po' la voce, ormai convinta che la parte di me che diceva "Fai di tutto per salvare questo Harry di cui non sai niente!" avesse preso il sopravvento, chiuso in una cassa e gettato in mare l'altra parte di me che diceva "Claire, ma cosa cazzo stai combinando?". «Ma ci pensate ai sentimenti degli altri?» continuai, attirando sempre più sguardi indiscreti, e quindi sempre più guai. «State lontane da lui.» sibilai infine tra i denti.

Le quattro ragazze si guardarono in faccia e scoppiarono a ridere. Che il mio sforzo per difendere Harry fosse stato vano?

«Ti rendi conto di essere una nullità?» ghignò una ragazza dai capelli color biondo platino «Come ti permetti di rivolgerti a noi in questo modo?»

«È gelosa.» sibilò la ragazza dai capelli corvini «Lei non ha mai avuto un ragazzo. Poverina… vuole solo attirare un po' d'attenzione.»

Quelle affermazioni m'innervosirono parecchio.

«Io non ho bisogno di attenzioni» affermai con asprezza, cercando di sembrare sicura di me «e neanche di un ragazzo. Preferisco rimanere da sola, piuttosto che essere come voi». Sputai quelle parole come se fossero state veleno, non sapevo neanche se pensavo davvero quello che dicevo, ma non m'importava. Sentivo il dovere di proteggere Harry, anche se non ne conoscevo il motivo.

L'espressione sprezzante della ragazza corvina si tramutò in una parecchio adirata.

«Come osi?! Tu…» cominciò a urlare, avvicinandosi minacciosamente -per quanto lo potesse sembrare.

Geronimoooooo! Urlò qualcuno a squarciagola.

Una voce familiare. Un volto familiare che si avvicinava, dei capelli dannatamente familiari con un ciuffo che svolazzava.

Phoebe.

Aveva legato l'estremità di una corda attorno al lampadario principale del corridoio, e si teneva stretta all'altra estremità mentre faceva oscillare la fune in modo circolare e tirava calci dall'alto come un'Alga della Giustizia.

Più della metà delle persone che ci stavano osservando si ritrovarono per terra.

Spalancai gli occhi e mi voltai istintivamente verso Harry: era pallido e stava guardando a bocca aperta la strana impresa della sorella.

«Phoebe! Fermati!» esclamò pieno di preoccupazione e con una punta di esasperazione. La ragazzina si fermò e lasciò la corda appesa al lampadario.

«Hey Harry.» lo salutò lei con un buffo sorriso. Mi chiesi come sarebbe stato essere sua sorella… ugh, stressante ma divertente pensai.

«Ti rendi conto di cosa hai fatto?!» la rimproverò lui, ma nel suo sguardo non c'era neanche un briciolo di rabbia, solo... preoccupazione. Sì, la preoccupazione che solo un fratello maggiore può provare.

«Sì, li ho stesi tutti! Letteralmente!» rispose la ragazzina con tono allegro, mentre qualche studente si alzava da terra e correva nella propria classe, spaventato da quel mini-cespuglio.

Mi avvicinai ai due fratelli rimanendo in silenzio. Entrambi si voltarono nella mia direzione, e riuscii a notare -seppur involontariamente- alcune caratteristiche che li differenziavano e accomunavano: Harry era piuttosto alto, mentre Phoebe era bassa; lui aveva gli occhi verdi, lei castani. A dir la verità, a prima vista sembravano aver così poco in comune: solamente quelle labbra rosse e piene, e la voce roca ma gentile, li accomunavano.

«Grazie mille, Claire.» mi disse il ragazzo, posando i suoi occhi verdi su di me. Sorrise: mi chiesi come facesse ad avere un sorriso allo stesso così semplice, così insicuro, ma così inspiegabilmente bello.

«Per cosa?» chiesi, cercando di ricambiare il sorriso.

«Per aver preso le mie parti. Nessuno l'aveva mai fatto prima. Sei stata davvero coraggiosa.» disse, parlando molto lentamente, come se avesse voluto dare la giusta importanza a ogni parola che pronunciava.

«Mio fratello ha ragione.» affermò Phoebe, guardandomi. Anche il modo in cui i loro occhi si posavano sul mio viso era differente: lo sguardo di Harry era calmo, ma c'era qualcosa in esso che non riuscivo a spiegarmi... era come se stesse cercando qualcosa… una risposta, un segno. Lo sguardo della sorella invece era tranquillo ma curioso, come se dal nulla potesse spuntare improvvisamente qualcosa di infinitamente buffo. «Se non fosse stato per te…» aggiunse, ma subito il suo viso allegro divenne pallido, e assunse un'espressione terrorizzata.

Mi voltai e seguii lo sguardo della ragazzina; dopo pochi attimi mi accorsi di una presenza poco piacevole: quella della preside. Era una donna sulla sessantina -anche se non lo avrebbe mai ammesso- alta, troppo abbronzata per i miei gusti, gli occhi piccoli e neri, e i capelli biondi che sembravano bianchi.

«Phoebe Styles» chiamò, con la sua voce estremamente stridula «in presidenza.»

Intravidi il gruppetto delle ragazze "popolari" dietro alla figura imponente della preside. Erano state sicuramente loro a chiamarla.

Phoebe si avviò lentamente verso la presidenza, sussurrando un "ci vediamo ragazzi" prima di allontanarsi con il mostro abbronzato e le quattro vipere. Che ingiustizia pensai. Lei voleva solo aiutare… me. Rimasi stordita dal mio stesso pensiero: l'aveva fatto davvero per me, una sconosciuta con cui aveva parlato giorni prima al parco? No mi dissi l'ha fatto per suo fratello, per Harry. È sicuramente così.

Posai distrattamente lo sguardo sul lampadario principale, e mi accorsi che la corda di Phoebe vi era ancora legata.

Ora non so spiegare né come, né perché successe, so solo che successe: sapete, alcune cose succedono e basta.

Il lampadario cadde, e caso volle che Harry Styles si trovasse proprio sotto di esso. Gli corsi incontro, lo strinsi a me e lo sbattei contro un armadietto. Solo qualche secondo dopo, udii il terribile suono del lampadario che si schiantava a terra. Oh Phoebe, cos'hai combinato dissi tra me e me.

«Mi hai salvato. Di nuovo.» mormorò Harry, il cui viso si trovava a pochi centimetri dal mio a causa dell'urto. Quella vicinanza, quell'improvviso contatto fisico… mi fecero mancare l'aria. Indietreggiai, ricreando la distanza tra lui e me.

«Oh… beh, se non l'avessi fatto io, l'avrebbe sicuramente fatto qualcun altro.» risposi scrollando le spalle, cercando di apparire fredda.

«Non credo proprio.» accennò una risata, mandando il mio stomaco in subbuglio «A nessuno importa molto di me qui.»

"A me importa invece" avrei voluto dire, ma mi ritrovai a dover mugugnare un "Capisco".

Mi guardai attorno: ormai c'erano solo tre o quattro studenti in corridoio, degli addetti stavano provvedendo al cambio del lampadario. Alzai poi lo sguardo verso l'orologio in legno che si trovava sopra la porta d'ingresso: erano le dieci e cinquanta. Cazzo, sono in ritardo di venti minuti! Sussultai.

«Devo andare, ci si vede.» dissi velocemente, per poi sfrecciare nell'aula di matematica. Non seppi mai se il ragazzo mi rispose, né tantomeno cosa fece dopo che me ne andai. Non seppi rispondere neanche alle domande che mi pose la professoressa nell’interrogazione a sorpresa, a dir la verità. Harry Styles mi aveva fuso il cervello, bene!

Sentivo gli sguardi indagatori dei miei stupidi compagni di classe su di me: il fatto che avessi difeso un ragazzo era così strano per loro. Molti insinuarono che Harry fosse il mio ragazzo, altri erano certi che io odiassi da sempre Heather, la ragazza dai capelli corvini.

Ma non riuscivo a seguire i loro discorsi, né tantomeno la lezione: il pensiero della vicinanza a Harry mi distraeva continuamente; se prima solo i suoi occhi erano al centro dei miei pensieri, ora lo era lui, tutta la sua persona. Possibile che in così poco tempo un ragazzo fosse riuscito a insinuarsi nella mia mente?

 

Il tempo scorreva velocemente, troppo velocemente. Avevo atteso con impazienza la fine dell’ultimo anno di liceo, eppure proprio in quell’ultimo anno avevo conosciuto Phoebe, che era diventata ormai la mia migliore amica, e Harry, per il quale provavo dei sentimenti ancora non molto chiari. “Non molto chiari un corno. si lamentava una vocina nella mia testa “T’importa di lui più di quanto t’importi di chiunque altro, pensi ogni giorno a lui, lo sogni ogni notte… perché non ammetti che ti piace?”

Quella vocina aveva ragione: prima o poi avrei dovuto ammetterlo, Harry mi piaceva, e anche tanto. Con il tempo capii che non era solo un bel ragazzo, ma che era anche una persona gentile e sensibile. Capii che quella volta, al parco, non mi ero sbagliata: Harry aveva davvero un immenso bisogno di amore.

Quei mesi passarono più in fretta di quanto avessi voluto, ed ebbi il tempo di realizzare ciò solo quando la scuola terminò effettivamente.

Phoebe mi assicurò che ci saremmo riviste in estate e che avremmo passato più tempo possibile insieme: dopo non ci saremmo riviste per un bel po’. Anche l’estate trascorse velocemente, ma per la prima volta da quando avevo cinque anni, mi divertii moltissimo: chi avrebbe mai detto che un’alga potesse essere tanto simpatica?

D’altro canto c’era Harry, che si univa ogni tanto alle nostre interminabili chiacchierate. Ricordo che, nonostante avesse superato brillantemente gli esami, quel ragazzo si ostinava a studiare anche d’estate: diceva di voler essere “pronto” per la Stanford University.

Ricordo che una volta entrai in camera di Phoebe, ma lei non c’era perché “il bagno la chiamava”. La stanza era arredata con mobili esclusivamente di pino, e profumava di vaniglia. Alcuni vestiti erano poggiati sulla sedia della scrivania: intravidi la ormai familiare polo bianca e un paio di jeans neri. Spostai poi lo sguardo sulla scrivania: sopra vi erano appoggiati un portapenne a forma di koala contenente vari colori e matite, un libro dalla copertina grigia, e un quaderno in pessime condizioni.

Aprii il quaderno e cominciai a sfogliarlo. Sulla prima pagina c’era scritto “Mie canzoni”. Sorrisi istintivamente: Magari se leggo queste canzoni riuscirò a capire meglio quella testa d’alga pensai.

Lessi qualche canzone, e rimasi colpita: non avevo mai pensato a Phoebe come una ragazza che scrive di solitudine, tristezza, e sentimenti profondi. Sull’ultima pagina, in particolare, c’era una canzone molto corta, composta da una sola strofa. Forse doveva ancora finirla, forse le bastava così.

 

1I’m sorry, I’m sorry, I’m sorry.

For everything I did

For everything I felt.

I’m tired to be always like this

I’m tired to be always the sad one.

But now I want to start all over again.

 

Lessi quelle sei righe almeno dieci volte.

«Cosa significa tutto questo?» sussurrai, convinta di parlare con l’aria. Cosa significava ciò che stava scritto in quel quaderno? Avevo sempre visto Phoebe come una ragazzina allegra e combina guai… non avevo pensato a come fosse stata in passato, prima di conoscermi.

«Significa che prima ero una persona diversa da quella che sono ora.» rispose la ragazzina con tono secco. Mi voltai e la vidi: aveva un’espressione seria, le mani nelle tasche dei jeans e i piedi ancorati saldamente al pavimento, come se fossero inchiodati. Non l’avevo mai vista in quel modo. Sperai di non averla fatta arrabbiare… insomma, frugare tra le sue cose senza permesso non era esattamente la cosa più corretta che potessi fare, ma in un certo senso ciò mi aveva aiutata a conoscerla meglio.

«Perché non…»…me ne hai mai parlato?” avrei voluto chiedere, ma mi resi conto che sarebbe stata una domanda stupida. Chi ero io per stabilire cosa doveva dirmi e cosa no? Immagino che ci siano alcune cose che non vogliamo rivelare a nessuno… neanche a noi stessi.

«Perché ormai ho cancellato quella parte estremamente pessimista di me stessa.» disse, sedendosi sul letto dalla coperta turchese «O almeno pensavo di averlo fatto. Non si può cancellare ciò che si è stati» alzò lo sguardo su di me, e con un cenno del capo m’invitò a sedermi «ma si può ricominciare daccapo ed essere migliori.» terminò, abbozzando un sorriso compiaciuto.

Mi sedei anch’io sul letto, proprio di fronte a lei. Ascoltai con attenzione le sue parole, e mi resi conto che aveva ragione: non si può cancellare il passato, ma si può migliorare il presente.

«Quindi non sei arrabbiata?» chiesi, ansiosa di ricevere una risposta. Far arrabbiare quella ragazzina era davvero l’ultima delle mie intenzioni.

«E per cosa? Per aver letto le canzoni che ho scritto in terza media?» disse, e mi sembrò di avvertire una nota di sarcasmo nella sua voce, ma pensai di essermelo immaginato «Ho la faccia di una persona che si arrabbia per una cosa del genere?» indicò il proprio viso con l’indice della mano sinistra, per poi scoppiare in una risata contagiosa.

 

Purtroppo il divertimento finì presto, perché quando ci si diverte, il tempo vola.

Il giorno prima della partenza, Phoebe e Harry mi vennero a trovare: il giorno dopo lei sarebbe tornata a scuola e avrebbe cominciato il secondo anno del liceo, il fratello sarebbe partito per Stanford ed io per Cambridge, in Massachusetts, dove si trovava l’Harvard University.

«Sarà dura senza voi due.» aveva sospirato la ragazzina «Mi mancherete.»

Fu strano sentirsi dire “mi mancherai” da una persona che non fosse mio fratello.

«Mi mancherai tantissimo, forse anche più delle altre volte. E poi per molto tempo non potremo festeggiare i nostri compleanni insieme. Ma queste esperienze si devono fare prima o poi, no? Quindi vai, e vivi la tua esperienza come meglio puoi!» mi aveva detto. Stavo per scoppiare a piangere: sarei riuscita a stare quattro anni senza vedere né Phoebe, né Louis, né Harry? Beh, sperai con tutto il cuore di sì, perché non sarei più potuta tornare indietro.

A un certo punto Harry mi prese in disparte nel ripostiglio di casa mia. Mi preoccupai abbastanza, visto che non mi parlava quasi mai in assenza della sorella.

«Volevo chiederti una cosa.» disse tutto d’un fiato. M’irrigidii. Forse aveva capito di piacermi? Ma come? Mi chiesi Ho cercato di nasconderlo in tutti i modi possibili e immaginabili, eppure…

«Cosa?» lo incalzai ansiosa. Fortunatamente nella stanza c’era poca luce, altrimenti avrei spaventato il ragazzo, visto il modo in cui mi torturavo nervosamente le mani.

«Qual è il tuo fiore preferito?» chiese con una nota d’imbarazzo nella voce. Rilassai i muscoli, e feci un lungo sospiro di sollievo nella mia mente. Falso allarme.

«La rosa rossa.» risposi senza alcuna esitazione. Il rosso era –ed è tutt’oggi- il mio colore preferito, e le rose… beh, hanno qualcosa di affascinante che non so spiegare.

«Bene.» disse soltanto, per poi uscire dal ripostiglio.

 

Lo dimenticherò. Devo dimenticarlo.

Ma come si fa a dimenticare quelle labbra rosse e piene che ti invitano a baciarle?

Come si fa a dimenticare quei capelli ricci che sembrano fatti apposta per essere accarezzati?

Come si fa a dimenticare quelle adorabili fossette?

Come si fa a dimenticare quel sorriso che ti scombussola lo stomaco e fa suicidare quell’unico neurone rimasto?

Come si fa a dimenticare quegli occhi verdi che sembrano accarezzare l’anima?

Come si fa a dimenticare Harry Styles, con la sua bontà d’animo, la sua gentilezza, e il suo essere semplicemente… se stesso?

 

«Ahh, fottuta vocina nella testa.» borbottai, mentre mi stendevo sul letto della stanza che mi era stata assegnata. Era stato un viaggio lungo ed estenuante, quindi non vedevo l’ora di andare a dormire, anche se erano solo le otto di sera.

«Forza e coraggio. Ho quattro anni di università davanti a me, e dovrò impegnarmi sul serio per superarli decentemente. Tutto questo mi sfinirà, lo so, ma mi aiuterà a dimenticare. Ed io ho bisogno di dimenticare.» dissi tra me e me. Mi alzai svogliatamente e andai a mettermi il pigiama, poi andai a letto. Ero sicura che sarei riuscita in tutti i miei intenti.

E così fu… più o meno.

Riuscii a seguire le lezioni, a concentrarmi, a studiare anche gli argomenti più difficili e quelli che mi piacevano di meno. Decisi poi di laurearmi in psicologia, quindi m’iscrissi a quella facoltà: all’inizio fu abbastanza difficile, ma con il passare del tempo mi abituai a quel ritmo. Non contenta, m’iscrissi anche a un corso di giornalismo, a cui dedicai molto tempo e passione.

Ma non riuscii a realizzarmi solo sul piano scolastico: feci amicizia con le mie compagne di stanza, che si rivelarono simpaticissime. Il terzo anno mi fidanzai con un ragazzo del quarto, ma poiché l’anno successivo sarebbe dovuto tornare a Kansas City, in Missouri, mi lasciò il giorno prima della sua partenza, con un semplice messaggio che diceva “Domani parto, mi dispiace. Ti lascio.

Insomma… la lontananza avrebbe davvero potuto influire sul nostro rapporto? Sì, sicuramente. Quando mi arrivò il messaggio non piansi neanche tanto. Solo un po’, giusto per dimostrare a me stessa che mi dispiaceva. Lui mi piaceva, ma ciò che provavo era completamente diverso da quello che avrei voluto provare. Piano piano dovetti ammettere che quel ragazzo era solo un rimpiazzo, una distrazione dal ricordo ancora vivido che avevo di Harry.

Harry. Il giorno non era un grande problema, perché tra studio e chiacchierate con le mie amiche riuscivo a pensare ad altro.

Ma di notte? Di notte c’erano solo il silenzio e le tenebre, e come compagni avevo solo i miei pensieri che mi tormentavano. Non avrei mai potuto dimenticare Harry Styles. E la cosa che più mi feriva era la certezza che lui invece si fosse dimenticato di me. Avrà trovato una ragazza che lo meriti. Sarà bella, intelligente, saprà capirlo, e… «ed io?» mormoravo.

Già, ed io? Lui era tutto ciò che mi accorsi di volere, ma allo stesso tempo tutto ciò che non potevo avere.

A volte mi svegliavo nel cuore della notte con il suo volto impresso nella mente, altre volte semplicemente piangevo, perché non ne potevo più di quei ricordi.

 

Ritornai nella mia città al termine del quarto anno, verso la fine di luglio.

Non appena entrai in casa, avvertii il familiare odore di frittura: chiusi gli occhi e ricordai la cucina con il calendario appeso alla parete sinistra, pieno di scritte e appunti, il frigorifero su cui mio fratello ed io attaccavamo le foto di quando eravamo piccoli, il piano cottura che sembrava perennemente occupato da pentole e pentolini, il lavandino che una volta usai per fare il bagno, pensando che fosse una mini-vasca; il forno che mio padre dovette aggiustare perché mio fratello si era divertito a “far fare la sauna” a una mia bambola; la dispensa che un attimo prima era piena e l’attimo dopo vuota a causa delle grandi abbuffate che facevamo Phoebe ed io.

 

Aprii gli occhi: tutto era come lo ricordavo. Fu commovente, ma anche un po’ inquietante, come se il tempo si fosse fermato, come se nulla fosse successo durante i miei quattro anni di lontananza. Invece io sapevo che il tempo non si era fermato, che tutto era continuato, con o senza di me. Quando ero a Harvard, chiamavo la mia migliore amica una volta a settimana per farmi raccontare cosa stesse accadendo lì, nella città in cui ero nata e vissuta per diciotto anni, e nella scuola in cui avevo trascorso gran parte della mia adolescenza.

Phoebe mi aveva anche raccontato di come si trovasse bene al primo anno della Yale University, a New Haven, in Connecticut. Ero felice per lei, ma allo stesso tempo triste, perché sapevo che non l’avrei vista per ancora molto tempo.

Sospirai, felice per essere tornata, ma stanca per il viaggio. Posai lo sguardo sulla grande valigia rossa che tenevo in mano e m’incamminai verso la mia stanza. Mi accorsi solo in quel momento che la luce del corridoio era accesa.

«Chi c’è?» dissi ad alta voce, mentre con gli occhi esploravo ogni singolo centimetro del corridoio.

«Il fantasma di Loch Ness.» rispose una voce delicata, ma allo stesso tempo sarcastica e familiare. Non può essere lui, non è possibile…

Sentii qualcuno che a passo lento si avvicinava a me. Non appena fu esposto alla luce, lo riconobbi: basso come un adorabile nano da giardino, occhi color acquamarina e capelli castani perennemente scompigliati.

«Louis!» esclamai. Lasciai cadere la valigia a terra  e corsi ad abbracciarlo. Lo strinsi fortissimo e feci sprofondare il mio viso nella sua spalla destra, inspirando a pieni polmoni il suo profumo di anice.

«Mi sei mancata così tanto, Claire.» mi sussurrò. Sembrò tutto così irreale: lui, i suoi occhi sempre pieni di allegria, la sua voce sempre così cristallina. Sì, ogni tanto l’avevo chiamato durante il mio soggiorno all’università, ma… la sua voce dal “vivo” era tutta un’altra cosa.

«Anche tu, fratellone.» sorrisi, mentre la voce mi tremava per la gioia. Sciolsi l’abbraccio per poter guardare Louis negli occhi: non era cambiato molto. Sentii le lacrime scorrere calde sulle mie guance. Avrei voluto raccontargli tante cose, dirgli “Mi sei mancato” fino alla nausea, stringerlo per sempre fra le mie braccia, come se fosse stato l’essere più indifeso del mondo.

 

Mi accompagnò nella mia stanza, e apparì anch’essa uguale a come la ricordavo.

«Era “Il Mostro di Loch Ness”, comunque.» gli dissi improvvisamente «O “Il Fantasma Formaggino.» continuai. Mi chiesi se fosse rimasto il solito idiota, o se magari fosse diventato un po’ più serio.

«Lo so.» mi rispose lui, alzando un sopracciglio «Infatti, “Il Fantasma di Loch Ness” è un incrocio tra i due, quindi è due volte più spaventoso» concluse assumendo un’espressione serissima, come se avesse detto la cosa più razionale del mondo.

«Non cambi mai, Louis» ridacchiai, guardandolo affettuosamente. Come ho fatto a vivere per anni senza le sue stupidaggini?

«Neanche tu sei cambiata. » disse lui, sembrando serio per qualche momento. Mormorai un “Eh?”, ma non sono sicura che l’avesse sentito. «Sei sempre troppo alta.» disse infine facendo una smorfia. Scoppiai a ridere,  e decisi che per quella sera sarebbe stato meglio lasciar perdere i pensieri seri e profondi, lasciando spazio a quelli divertenti e infantili, come quelli di mio fratello.

Ma in fondo mio fratello aveva ragione: non ero per niente cambiata, ma non fisicamente. All’università m’illusi di star dimenticando Harry, ma non fu affatto così… anzi, sentivo i miei sentimenti per lui ogni giorno più forti. Accidenti a me!

 

«Claire?» udii una voce chiamarmi. Chi è che mi chiama di prima mattina? Sono stanca, cavolo, lasciatemi dormire! Dissi tra me e me, ma evitai di esporlo ad alta voce. Aprii appena l’occhio destro, poi quello sinistro, e infine li spalancai entrambi. Una figura familiare si trovava accanto a me, e mi fissava insistentemente.  Grandi occhi castani, capelli lunghi e verdi…

«Phoebe?» sussurrai, tra confusione e sonno. Nah, non poteva essere lei… insomma, Testa d’Alga era alla Yale University. E poi aveva i capelli corti! Mi suggerì la mia mente. Era sicuramente un’allucinazione causata dalla stanchezza, o più probabilmente un sogno.

«Sì, sono io. Avanti, so che il letto è morbido, comodo e tutto quello che vuoi, ma ora devi alzarti, suu!» continuò a parlare con la sua inconfondibile voce roca.

Mi sedetti sul letto, arresa alle parole che sembravano davvero quelle della mia amica Phoebe, e guardai la ragazza che era seduta davanti a me: sembrava davvero lei… ma come era possibile?

«Tu non puoi essere davvero qui.» dissi a bassa voce. Lei mi guardò e inclinò di poco la testa, facendomi capire che era confusa almeno quanto me. «Tu dovresti essere alla Yale University» spiegai, dandole un’altra occhiata «non qui. E poi questi capelli lunghi? Io non…»

«Non li ho mai tagliati.» m’interruppe, continuando però a fissarmi intensamente «Poi adesso siamo a luglio» mi sorrise con quel sorriso infantile di cui solo lei era capace nonostante avesse diciotto anni «posso studiare anche qui, non sono costretta a stare in quel posto. E comunque non potevo di certo starmene alla Yale proprio oggi!»

«Perché? Cosa succede oggi?» chiesi, ancora un po’ intontita. Ero ancora leggermente sconvolta dal fatto che fosse tornata. Insomma, ehi, avrei potuto farlo anch’io! Invece no, ero rimasta per quattro anni a Cambridge.

«Oh, insomma…» la ragazza scosse la testa, gonfiando le guance come suo solito. Neanche lei è cambiata molto pensai. «bentornata, Claire!» esclamò improvvisamente, gettandomi le braccia al collo e facendomi ricadere sul materasso morbido. Scoppiai a ridere, e lei mi seguì a ruota. No, non poteva essere un sogno o un’allucinazione, perché solo la vera Phoebe avrebbe potuto fare una cosa del genere.

«Aspetta, aspetta.» la fermai, ritornando seduta. Anche lei si sedette sul copriletto color pesca, e mi guardò, aspettando che parlassi. «Mi stai dicendo che sei tornata perché sapevi che sarei tornata anch’io?» chiesi, cercando di capire.

«Per te e per Harry!» esclamò annuendo. Harry. Il solo udire il suo nome mi provocò una fitta al cuore. Spalancai gli occhi quasi istintivamente. Che fosse tornato anche lui a casa?

«Harry?» pronunciai quel nome con un filo di voce «Anche lui è tornato?» chiesi. Chissà come sarà diventato? Le sue labbra saranno ancora così rosse? E i suoi capelli ricci sembreranno ancora così morbidi? E i suoi occhi verdi… sapranno accogliere la mia anima ancora una volta?

Sarà ancora lo stesso Harry Styles che ho conosciuto cinque anni fa al parco?

La mia testa era colma di domande, ed io aspettavo impaziente la risposta di Phoebe.

«No» disse alzando le spalle. Per un attimo la fitta che avevo al cuore si alleviò, ma ritornò subito, ancora più forte di prima. «ma tornerà stasera.» si affrettò ad aggiungere la ragazza, forse allarmata dall’espressione che mi ero lasciata sfuggire.

Annuii semplicemente, come se ciò che mi aveva detto non m’importasse più di tanto. Ma dentro di me sapevo che m’importava, m’importava davvero.

«Ora su, forza, alzati!» esclamò, spezzando il silenzio «Dobbiamo prepararci per la festa di stasera!» disse poi, alzandosi lentamente dal letto.

«Quale festa?» chiesi, alzando un sopracciglio. Perché la gente doveva organizzare le cose e tenermi sempre all’oscuro?

«La festa di bentornato!» rispose Phoebe, come se fosse stata la cosa più ovvia al mondo. Si catapultò poi davanti al mio specchio, perché dovevo “prepararmi per la festa”. Oh cielo, addirittura una festa! Sai quanto cibo!

Dopo essermi fatta una doccia, tornai in camera e trovai il mini-albero (ormai “mini-cespuglio” non andava più bene perché i capelli erano lunghi) ad attendermi davanti allo specchio con una busta blu in mano. La guardai alzando un sopracciglio, e poggiai entrambe le mani sui fianchi.

«Se mi hai preso anche un regalo, ti picchio.» dissi sarcastica. Le si alzò un angolo della bocca, formando una specie di espressione maliziosa. Cosa diavolo avrà in mente stavolta? Mi ritrovai a pensare, un tantino preoccupata.

«Non è proprio un regalo.» replicò lei alzando le spalle «Ma adesso dobbiamo prepararci, forza!» esclamò improvvisamente, ed ebbi l’impressione che stesse facendo una risata malefica. Scrollai le spalle, e pensai che fosse un po’ presto per prepararsi per una festa che si sarebbe svolta di sera, quando… beh, era ancora mattina. Non sapevo di essermi svegliata all’una del pomeriggio (perché quell’idiota di mio fratello non mi aveva svegliata?!), ed ecco spiegato il motivo della mia fame.

Mi ritrovai a dover ringraziare Phoebe: senza di lei mi sarei sicuramente svegliata verso le quattro… ma non mi sarebbe dispiaciuto, eh.

 

 

Entrai nella grande sala da un’ampia porta dorata. Posai gli occhi su ogni persona che si trovava nella sala, in cerca di qualche viso conosciuto. Scesi le scale con cautela, cercando di non inciampare nel vestito lungo. Maledizione, Phoebe! Dove sei? Che qualcuno mi aiuti! Imprecavo nella mia testa. Testa d’Alga –perché sì, era ancora un’emerita Testa d’Alga- mi aveva fatto indossare un bellissimo vestito rosso a giro maniche, con delle semplici rose sul fianco sinistro, e una specie di strascico. Addirittura? Avevo pensato quando l’avevo visto per la prima volta. Dovevo andare a una festa, mica sposarmi!

Ma il problema non era stato assolutamente quello: il vestito era bellissimo, della mia misura, e persino comodo! Il problema erano state… le scarpe con il tacco. Erano anch’esse rosse e bellissime, ma erano davvero… alte.

«Coraggio, Claire, è solo per una sera!» aveva cercato di rassicurarmi Phoebe.

Sospirai. I capelli raccolti sulla testa in uno chignon ordinato mi provocavano uno strano senso di disagio.

«Claire.» una voce piuttosto familiare pronunciò il mio nome con un tono così basso che quasi non la sentii. Mi voltai, e credo che il mio cuore perse parecchi battiti. Rimasi paralizzata, con gli occhi spalancati, e chissà quale forza misteriosa mi impedì di urlare.

Davanti a me si trovava Harry Styles, ma non lo stesso Harry Styles che avevo conosciuto anni prima in quel parco. Quello che avevo davanti era diverso. Era molto più alto di me, i suoi capelli erano diventati più lunghi e meno ricci –ma la mia voglia di accarezzarli rimaneva la stessa- e le sue labbra sembravano sempre quelle rosse e piene di una volta. Poi… i suoi occhi. Sussultai non appena posai il mio sguardo su di essi. Erano verdi, sì, ma… di un verde che non avrei mai associato a lui. Un verde smeraldo, mille volte più penetrante e profondo di quello che avevo incontrato a diciotto anni. Era come se attraverso quegli occhi Harry avesse voluto mostrarmi la sua anima, solo e soltanto la sua anima; come se il suo corpo fosse stato solo un minuscolo granello di sabbia in confronto alla sua enorme e incombente anima.

Mi fissava con i suoi occhi, che in quel momento sembravano così gentili, ma così… irrequieti?

«H-Harry.» riuscii soltanto a dire con un filo di voce. In quel momento sentivo il mio cuore battere fortissimo, come se avesse voluto uscire fuori dal petto. Ma cosa diavolo mi sta succedendo?

«Sono felice di vederti.» disse, curvando le labbra in un sorriso. Se quattro anni prima ciò mi aveva provocato le “farfalle nello stomaco”, in quel momento avevo minimo tutti gli insetti esistenti al mondo –compresi quelli non ancora scoperti- nel mio povero stomaco. Forse per quello mi passò la fame.

«Anch’io.» risposi tutto d’un fiato. Serrai le mani in una morsa, e desiderai ardentemente che Phoebe venisse a salvarmi con una delle sue improbabili entrate in scena. Ma allo stesso tempo non volevo terminare quel contatto visivo, quella conversazione fatta di sguardi. Non potevo e non volevo staccare gli occhi da quel ragazzo, che non era bellissimo e basta, no… era anche qualcos’altro. Qualcos’altro che non riuscivo a definire. «Anch’io sono felice di vederti.» mi corressi, cercando di assumere un’espressione diversa da quella di un automa terrorizzato.

«Sai, ti ho pensata molto durante questi quattro anni.» ammise, sorprendendomi. Quindi… anche lui ha pensato a me? Certo, non nello stesso modo in cui io ho pensato a lui, ma mi ha pensata, cavolo, si è ricordato della mia esistenza!

«Davvero?» inclinai impercettibilmente la testa, e sorrisi per la prima volta da quando ero entrata in quel posto. In realtà avrei voluto dirgli “Ah, sì? Anch’io ti ho pensato moltissimo, caro Styles! Ti ho sognato ogni fottuta notte, sai? E dire che avevo persino promesso a me stessa di dimenticarti!” ma ovviamente non potevo.

«Sì» disse soltanto, annuendo «e ti ho portato una cosa.» aggiunse alzando le spalle. Intenta a osservare i suoi occhi, non avevo notato le sue braccia, che infatti si trovavano dietro alla schiena. Rapidamente portò il braccio destro davanti a sé, e mi porse qualcosa. Per un momento non riuscii a capire cosa fosse, ma guardando meglio mi accorsi che era una rosa rossa.

«Harry»» mi morsi il labbro, prendendo delicatamente il fiore che mi aveva porto «è bellissima… grazie.» gli sorrisi, mentre esultavo nella mia testa. Il suo gesto era stato così semplice, ma mi aveva riempito il cuore di gioia.

«Non è nulla.» scrollò le spalle, facendo un passo verso di me. «Sai, io…» sussurrò, ma venne interrotto dalla voce di Phoebe, che era salita sul palco con un microfono.

 

«Buonasera.» disse la ragazza, con un tono di voce stranamente calmo e insicuro «Questa sera siamo qui per dare il “bentornato” ai ragazzi che quattro anni fa hanno lasciato questa città per intraprendere gli studi in vari college e università.» si morse il labbro per la tensione. Aveva un vestito a mezze maniche, lungo fino a sotto le ginocchia: la parte superiore era nera –in contrasto con la sua carnagione molto chiara-mentre quella inferiore verde acqua. Indossava poi delle converse nere e alte dall’aria comodissima. Perché io invece dovevo indossare i tacchi? Uffa.

Poi una ragazza dai capelli biondi e ricci le sfilò il microfono di mano e cominciò a urlare… tante cose di cui capii solo “Divertitevi ragazzi!”.

Dopo di ciò, partì una musica spaccatimpani, decisamente da discoteca. Ma questa non è una discoteca. Sbuffai.

«Andiamo a sederci?» mi chiese Harry con lo stesso tono gentile che aveva usato in precedenza. Tuttavia, in qualche modo capii che neanche a lui piaceva quella musica. Annuii, e lo seguii a un tavolino in un’altra sala un po’ più piccola, dove trascorremmo quasi metà della serata parlando di come ci eravamo ambientati alle rispettive università. Poi passammo alle “note dolenti”, ossia i fidanzamenti non andati a buon fine. Gli raccontai di Luke, il ragazzo per il quale mi ero presa una cotta, ma che poi mi aveva lasciata il giorno della sua partenza per Kansas City. Lui invece mi raccontò di Ashley: Harry era entrato di soppiatto in camera della ragazza per farle una sorpresa, e l’aveva trovata a letto con non-ricordo-quanti ragazzi, quindi lui la lasciò. Mi raccontò anche di Marie: una ragazza che voleva ogni tipo di gioiello esistente sulla Terra; una volta, però, Harry non riuscì a comprarle quello che voleva, e lei lo lasciò, spaccandogli in testa il vaso della sua bisnonna.

Ormai la conversazione aveva preso una svolta comica: stavamo entrambi ridendo di gusto per le stupidaggini fatte, e nonostante la stesse ballando la samba nel mio stomaco perché la sua risata era mille volte più melodiosa di quanto ricordassi, continuai a ridere e parlare.

«Ti prego, spiegami come fai a innamorarti di ragazze come loro.» dissi a un certo punto, cercando di tornare seria.

«Beh» alzò le spalle lui, tornando serio «sono  sicuro che ognuno di noi ha del bene e del male, dentro di sé.» spiegò, mordicchiandosi il labbro inferiore «Io vorrei soltanto essere colui che… riesce a far emergere tutto il male dalle persone, per poterle amare, farle sentire amate. Io credo che non esista il bene puro, o il male puro. Il bene può trasformarsi in male, come il male può trasformarsi in bene. È l’amore che fa la differenza.» concluse, lasciandomi a bocca aperta.

«Ma è anche vero che l’amore rende ciechi, e che molte volte si fa del male proprio a causa di esso» dissi, cercando di spiegarmi meglio possibile. Perché improvvisamente stavo parlando con quel ragazzo di un argomento di cui ne sapevo così poco?

«Anche questo è vero.» annuì, ed io mi sentii leggermente realizzata nel costatare che avevo davvero detto qualcosa di sensato  «È per questo che ho detto che l’amore fa la differenza. Amare equivale anche a soffrire, e la sofferenza molte volte porta al male…» si fermò un attimo, e colsi l’occasione per provare a completare la frase.

«Ma il male causato dall’amore può trasformarsi in bene solo attraverso l’amore stesso.» sospirai, cercando di concludere la mia teoria con una frase sensata. Molto probabilmente, se ci fosse stata Phoebe al mio posto, avrebbe concluso con una frase tipo “In sintesi: viva la pizza!”. Ma io non sono Phoebe, quindi dovetti pensare a qualcosa di diverso. «Perché dove l'amore è la malattia, spesso è anche la cura.» dissi infine. Figa come frase a effetto, no?

«È quello che penso anch’io.» disse semplicemente, sorridendomi. Per un momento ebbi l’impressione che volesse aggiungere qualcosa, ma poi scosse la testa e capii che mi stavo sbagliando. Avrebbe voluto aggiungere più di qualcosa, ma evidentemente non ne aveva il coraggio, o la forza, o qualsiasi altra cosa gli servisse per parlare di quell’argomento.

«Io non amavo quelle ragazze.» disse poi, con tono basso «Mi ero illuso di amarle.» sospirò «Ma la verità è che non ho la più pallida idea di cosa sia l’amore. Mi faccio delle idee, cerco di dare delle definizioni, ma non si può capire l’amore finché non si è innamorati.» disse. La sua voce era velata di una strana tristezza, quasi si stesse vergognando ad ammettere quelle cose. Il suo sguardo era posato sul tavolino di marmo, come se improvvisamente tutta la luce di cui risplendeva si stesse spegnendo.

«Come si fa a capire se si è innamorati?» chiesi, fissando il lampadario blu al centro della stanza. La mia domanda non era rivolta a lui, era solo… una domanda e basta. Ma cosa diavolo mi sta succedendo? Perché sto parlando dell’amore con il ragazzo che mi piace? Mi domandai, irritata da me stessa.

«Non lo so.» rispose con voce sommessa. Sobbalzai, pensando che mi avesse letto nel pensiero e avesse risposto alla domanda che avevo fatto a me stessa. Poi mi rilassai, realizzando che stava solo rispondendo alla domanda che avevo fatto… al lampadario? Alzò lo sguardo, e le sue labbra s’incurvarono nuovamente in un sorriso. «Ma quante cose ancora non sappiamo? A quante domande dobbiamo ancora rispondere? Tante. Troppe.» si passò una mano tra i capelli, gesto che mi spinse inspiegabilmente a mordermi il labbro inferiore.

Quante cose ancora non sappiamo? A quante domande dobbiamo ancora rispondere?

Istintivamente pensai a un quaderno su cui iniziai a scrivere all’età di sedici anni: su una pagina scrissi la frase “Dov’è il mio lieto fine?”. Ogni anno aprivo quel quaderno e scrivevo una risposta diversa, in base a ciò che avevo imparato dalle mie esperienze. Dovrei riaprire quel quaderno. Pensai. Magari riuscirà a darmi qualche risposta.

 

Vidi gli occhi di Harry spalancarsi mentre si posavano sulla porta che conduceva alla sala principale –la sala da ballo. Mi voltai anch’io verso la porta, ma non vidi niente, solo… le persone nell’altra sala che danzavano insieme. Insieme?! Trasalii. Ma non stavano ballando a ritmo di musica da discoteca?

No. Non più. Le persone ballavano sulle note di una canzone dal ritmo diverso, dolce. Harry si alzò e fece un paio di passi verso di me. Mi guardò, e con il sorriso più luminoso che avessi mai visto, mi chiese con il suo tono roco ma gentile:

«Claire, ti va di ballare con me?»

Mi alzai e gli sorrisi, un po’ imbarazzata dalla richiesta. Intanto le mie orecchie si abituavano al suono del nuovo tipo di musica, e cominciai a riconoscere la voce del cantante.

 

Poggiai la mano sinistra sulla sua spalla, e lui la mano destra sulla mia schiena. Il mio braccio destro era teso verso il suo braccio sinistro, che invece era piegato per far sì che le nostre mani si incontrassero. Il suo tocco era delicato, ma le sue dita callose e ruvide; nonostante ciò, la sensazione di quella mano così grande attorno alla mia così piccola… era qualcosa di inspiegabilmente piacevole.

 

And I'm thinking 'bout how people fall in love in mysterious

ways.

 

E sto pensando a come le persone s’innamorino in modi misteriosi.

Guardai Harry negli occhi: quegli occhi così verdi, così profondi, quegli occhi di cui mi ero innamorata al primo sguardo, e che durante quei quattro anni erano cambiati così tanto. Capii che è così che ci si innamora delle persone, e così io mi ero innamorata di lui. Avevo sempre pensato ai miei sentimenti per lui come una semplice attrazione fisica, al massimo una cotta. Riuscii così a rispondere alla domanda che mi ero posta prima: “Come si fa a capire se si è innamorati?”. Beh, non c’è un modo per capirlo: si capisce e basta. Ed è vero, le persone s’innamorano in modi misteriosi. Io mi ero innamorata di Harry con uno sguardo ai suoi occhi, con uno sguardo alla sua anima.

 

Maybe just the touch of a hand

 

Forse solo il tocco di una mano”.

Guardai le nostre mani: la sua stretta attorno alla mia, che mi guidava sulle note di quella canzone meravigliosa. I nostri corpi che ogni tanto aderivano l’uno contro l’altro, permettendoci di sentire il battito cardiaco di entrambi. I miei piedi si muovevano da soli, mentre, a ritmo di musica, seguivano quelli di Harry.

 

 Oh me, I fall in love with you every single day

 

“Oh me, io m’innamoro di te ogni singolo giorno”

Sì, era così, era decisamente così. Mi ero innamorata di lui, e avevo continuato a innamorarmene giorno per giorno anche all’università, quando non era con me. Sentivo il bisogno di dirglielo, di farlo sentire non solo una persona che ama, ma una persona che è amata.

 

 

Le note della canzone continuavano a cullare la nostra danza, ed io finalmente ne riconobbi l’autore: Ed Sheeran, uno dei miei cantanti preferiti in assoluto. Sorrisi, perché quella sera tutto sembrava così dannatamente perfetto, come se fosse stato un sogno.

Purtroppo, come tutte le cose belle, la canzone finì, ed io e Harry rimanemmo a circa un metro di distanza a fissarci. Ad un certo punto, però, lui mi prese per il polso e mi trascinò fuori da quel posto, giusto un attimo prima che ricominciassero a ballare quella musica spaccatimpani.

 

Senza accorgermene cominciai a correre sul prato, e nonostante mi facessero male i piedi –maledetti tacchi- mi divertii.

Quando fummo abbastanza lontani dall’edificio, Harry lasciò il mio polso e si stese sull’erba, intimandomi di fare lo stesso. Mi sedetti accanto a lui, facendo attenzione a non sporcare il vestito rosso.

«Sono bellissime.» mormorò, con la testa rivolta verso il cielo. Cosa? Avrei voluto chiedere, ma alzando lo sguardo capii che si riferiva alle stelle. Erano davvero bellissime. Abbassai per un momento lo sguardo su di lui: rimasi senza fiato, osservando i suoi lineamenti illuminati dalla fioca luce della luna. Il suo smoking nero lo faceva sembrare ancora più mozzafiato. Mi distesi sul prato, determinata più che mai a confessargli i miei sentimenti. Dovevo dirglielo, altrimenti sarei esplosa.

«Sono così luminose, eppure noi vediamo solo dei puntini.» annuii, incrociando le braccia sotto la testa «Sono un po’ come le persone, non credi? Emanano una luce ed un calore immenso, ma solo alcuni se ne accorgono. E per accorgersene si deve conoscere una persona. Siamo tutti delle stelle, in fondo. Chi più, chi meno luminoso, ma lo siamo tutti.» affermai, e mi voltai verso Harry. Mi guardava meravigliato, come se avessi appena detto una bellissima poesia. Oddio. Pensai. Forse ho appena detto qualcosa di profondo senza accorgermene!

«Non ci avevo mai pensato.» ammise «Ma sono d’accordo. Spesso le persone non vedono ciò che siamo realmente. Oppure non vogliono vederlo.» affermò, mordendosi il labbro inferiore.

 

«A cosa pensi di solito, quando guardi le stelle?» chiesi, spinta dalla pura curiosità. Era una domanda che rivolsi una volta a mio fratello: lui mi rispose che pensava all’Isola Che Non C’è, e al modo di raggiungerla attraverso la “stella di Peter Pan”. Spesso avevo riso delle sue improbabili risposte, ma la mia non era tanto diversa.

«Al futuro.» rispose dopo un po’ Harry, risvegliandomi dai miei ricordi. «Provo a immaginare come sarò a settant’anni. Se avrò una famiglia, se amerò mia moglie nello stesso modo in cui l’amavo quando eravamo più giovani…» sorrise e posò nuovamente gli occhi sulle stelle «al modo in cui la vita mi ricompenserà alla fine dei miei giorni.» si voltò verso di me «e tu? A cosa pensi, quando fissi le stelle?»

«Al Paese delle Meraviglie.» risposi prontamente, aspettando una sua risata da un momento all’altro. Una risata che non arrivò. Mi stava fissando, aspettando che continuassi a parlare. Sospirai «Non credo che c’entri molto con le stelle, ma…» mi morsi il labbro, cercando le parole «a me piacciono molto. Credo che esistano diversi “Paesi delle Meraviglie”, uno per ognuno di noi. Nel mio ci sarebbero sicuramente le stelle.» spiegai, mantenendo lo sguardo fisso su quelli che sembravano puntini luminosi.

 

Silenzio. Perché non diceva niente? Avevo detto qualcosa di strano? Beh… forse sì. Ma cavolo, perché non parlava?

Avvertii la sua mano sulla mia, e bloccai l’impulso di ritirarla. Volevo vedere cosa sarebbe successo. Me la strinse, facendo intrecciare le nostre dita.

«Claire…» sussurrò, e mi accorsi di avere il braccio contro il suo. Quando si era avvicinato? «sai, volevo dirti che…» notai un pizzico di dolcezza nella sua voce bassa e roca, e mi voltai completamente verso di lui. «sei bellissima.» disse, avvicinandosi al mio orecchio. Sussultai e spalancai gli occhi. Che?

«Che cosa?» chiesi, con una voce incredibilmente bassa. Non poteva averlo detto davvero, no.

«Sei bellissima, Claire.» ripeté po’ più lentamente Scusa se non te l’ho mai detto.» sorrise, ed ebbi l’impressione di poter scoppiare a piangere da un momento all’altro. Perché stava succedendo tutto all’improvviso?

«Quando ti ho vista per la prima volta, non ho visto una ragazza come le altre. In te ho visto… una luce diversa, ho provato una sensazione magnifica quando ci siamo incontrati per la prima volta quattro anni fa, in quel parco. È vero, i nostri occhi si sono incrociati solo per un momento, ma in quel momento io…» cercò di farmi capire, gesticolando, mentre io lo guardavo stupefatta «in quel momento, ho capito che non ti avrei dimenticata tanto facilmente. Ci eravamo guardati per un momento, eppure eri già parte di me. Quando poi, ho avuto modo di conoscerti meglio, ho capito che non sei solo una ragazza bellissima, ma anche divertente, coraggiosa, gentile, intelligente.» si fermò un attimo per asciugare con il pollice destro una lacrima che stava scendendo, seguita poi da tante altre. Stava per dire qualcos’altro, ma lo fermai. Non potevo permettergli di aggiungere altro. Il cuore batteva, mi sembrava che stesse per sfondare la cassa toracica. Dovevo dirlo. Non m’importava delle conseguenze –in realtà sì- ma dovevo dirglielo.

«Harry. Sai cosa ci rende così diversi, ma allo stesso tempo uguali?» chiesi, cercando di parlare con più fermezza possibile. Il ragazzo si limitò a scuotere la testa lentamente. «L’amore, Harry.» respirai profondamente. Sto per scoppiare a piangere, lo so. «Tu cerchi qualcuno da amare, io qualcuno che mi ami. Tu pensi di avere abbastanza amore da poterlo dare a qualcuno, io di non averne abbastanza. Ma… la verità è un’altra. Io ho un… disperato bisogno di amare, Harry. E tu sei l’unica persona che io abbia mai amato. Tu, Harry, che hai bisogno di essere amato. Tu, Harry, che hai un disperato bisogno di amore, ma non lo vuoi ammettere.»

Non appena smisi di parlare, le lacrime cominciarono a scorrere calde sulle guance. Chiusi gli occhi, convinta che se ne sarebbe andato, ma non lo fece.

 

Poggiò le sue grandi mani sulle mie guance, e poggiò le sue labbra delicatamente sulle mie.

Chiusi gli occhi, assaporando quel bacio fino in fondo.

Quel bacio che avevo segretamente desiderato fin dall’età di diciotto anni.

Quel bacio che avevo sognato per diverse notti, finché una mia compagna di stanza non mi aveva consigliato una specie di sonnifero. Da allora i sogni si erano limitati al volto del ragazzo riccio.

Quel bacio che, in fondo, era l’unica cosa per cui avevo pianto.

 

E tutto ciò che avevo sempre sognato dall'età di diciotto anni si realizzò quella notte. Da quella notte tutto cambiò.

 

 

Dopo quel bacio, gli eventi si susseguirono così velocemente che io stessa faticai a realizzare quello che succedeva. I miei sentimenti per Harry erano ormai chiari, come era chiaro che lui provava lo stesso per me.

Così, una sera, dopo circa un mese di uscite insieme, mi portò in un piccolo locale in cui si sentiva sempre il profumo di fiori. Ormai cenare con lui era diventata quasi un’abitudine; amavo quando mi portava in posti dove potevamo stare un po’ da soli, come quando vedemmo insieme il sole tramontare sul mare. Amavo la sua risata, e il fatto che cercasse in tutti i modi di farmi ridere perché “la mia risata aveva lo stesso suono di un pianoforte suonato da mani di seta”. Amavo il modo in cui parlava di qualsiasi cosa: riusciva ad essere divertente e affascinante allo stesso tempo. Amavo il modo in cui mi baciava, perché lo faceva in modo così appassionato, ma così delicato.

«Mi concedi l’onore di essere il tuo ragazzo?» chiese, porgendomi una rosa rossa. Quel fiore ormai non era solo il mio preferito, ma anche il simbolo di tutto ciò che Harry ed io stavamo costruendo piano piano, mese dopo mese.

«Certo.» risposi senza esitazioni, ma con una punta d’imbarazzo. Gli sorrisi, e avvicinai il mio volto al suo per far aderire le nostre labbra. Eravamo così contenti da pensare di aver raggiunto la felicità. Ma non sapevamo che la felicità arriva solo dopo gli ostacoli.

 

All’età di ventiquattro anni, dopo una delle consuete visite mediche, scoprii di avere una malattia abbastanza grave. Non riuscii a spiegarmi come l’avessi presa, né ora ne ricordo il nome: ogni volta che si accennava ad aghi e operazioni andavo in panico e non capivo più niente. Decisi di non dire niente ad Harry per non farlo preoccupare. O magari gliel’avrei detto, ma di certo non così su due piedi.

Purtroppo a quell’età ero particolarmente testarda, e nonostante le mille raccomandazioni dei medici di non affaticarmi troppo, continuai ad andare a lavoro: mi occupavo di animali presso un centro veterinario, prendendomi cura di cani e gatti finché essi non avessero trovato un padrone. Proprio perché detestavo gli aghi, il mio compito era solo quello di fornire cibo, acqua e coccole agli animali. Il mio sogno, però, era sempre stato quello di diventare una psicologa per poter “ascoltare i problemi delle persone”, ma la mia esperienza non era sufficiente. Mi accontentavo comunque di quegli adorabili animali che riempivano le mie giornate di abbai, miagolii, dolcezza, e talvolta cacca puzzolente sotto le scarpe.

A causa della malattia, però, svenni varie volte, e i medici decisero di farmi seguire –nel senso letterale della parola- da una specie di dottore privato. Avrebbe dovuto controllarmi per evitare ulteriori svenimenti.

Quando me lo presentarono spalancai gli occhi: una cresta bionda e un paio di occhi azzurri mi fecero tornare in mente tanti ricordi.

«Luke?» sussurrai, e mi chiesi se qualcuno mi avesse sentito.

Anche lui parve sorpreso di rivedermi, infatti fece di tutto per non incontrare il mio sguardo. Il camice bianco lo rendeva più… attraente? No, no! Non è possibile! Non posso pensare sul serio una cosa del genere! Mi rimproverai, respingendo l’istinto di scuotere la testa.

 

«Allora, Claire…» disse, una volta usciti dalla clinica. Mi bloccai al suono della sua voce. Solo in quel momento mi accorsi che essa era roca. Perché ho questa fissa con i ragazzi dalla voce roca? Sospirai. La voce di Luke, però, era completamente diversa rispetto a quella di Harry. La sua era più… stridula, mentre quella del mio ragazzo era bassa e profonda. «come va la vita?» mi chiese, camminando con le mani nelle tasche dei jeans.

«Benissimo.» risposi, con un tono più convinto del dovuto. «A te?»

«Bene.» disse solo, e per un attimo pensai che la nostra conversazione fosse finita lì. «Cos’è che ti rende così felice?» chiese invece, provocandomi una fitta allo stomaco. Perché all’improvviso aveva tutta questa voglia di parlare con me? Non si era fatto sentire per anni!

«Chi ti dice che sono felice?» domandai, voltandomi verso di lui. I nostri occhi azzurri s’incontrarono, ma gli sguardi rimasero impassibili. In realtà, l’unica domanda che volevo fargli era “Cosa diavolo ci fai qui?”. Ma non lo feci. Non potevo rischiare che mi domandasse se mi era mancato, perché la risposta in tutta sincerità sarebbe stata “No, non mi sei mancato affatto.”.

«Lo dicono i tuoi occhi.» sussurrò, sorprendendomi. «Quando ti ho conosciuta all’università, il tuo sguardo era spento, ma alla ricerca di qualcosa in grado di accenderlo. Ora invece è… pieno di vita, anche se non te ne rendi conto. Qual è il motivo?» chiese, prendendomi alla sprovvista. Avrei dovuto dirgli di Harry?

«Ho semplicemente trovato ciò che mi rende felice.» risposi esitando. Posai lo sguardo sulla mia Giulietta rossa, chiedendomi se la presenza di Luke avrebbe irritato Harry. Non avrei neanche potuto presentarlo come “il dottor Luke”: avevo intenzione di dire della malattia solo dopo essere guarita. Pensai che sarebbe stato più facile…

«Hai un ragazzo?» chiese in tono delicato, avvicinandosi allo sportello destro. Spalancai impercettibilmente gli occhi ed entrai in macchina. Il biondo si sedette sul sedile accanto al mio e chiuse lo sportello, ed io feci lo stesso rimanendo in silenzio.

«Sì.» dissi solo, con tono secco. Smettila di fare domande, smettila di parlare, maledizione! Pensai mentre facevo partire la macchina. Non lo guardai neanche, ma sapevo che in quel momento stava sorridendo. Lo percepivo.

«Capisco.» disse infine. Ringraziai il cielo, perché sapevo che quella sarebbe stata l’ultima parola che mi avrebbe detto. Dovetti ammettere che era un po’ cambiato. Quando l’avevo conosciuto era piuttosto loquace, mentre in quel momento era… silenzioso.

 

Nascondere la mia malattia ad Harry si rivelò più complicato del previsto. Dovetti cominciare a rinunciare agli appuntamenti con lui… arrivammo al punto di vederci a stento una volta a settimana.

 

«Quindi… cosa mi consigli di fare?» chiesi mordendomi il labbro, aspettando impazientemente una risposta dalla persona che stava dall’altro capo del cellulare.

«Ascolta…» rispose la voce pacata e grave di Phoebe «devi dirgli tutto il prima possibile. Harry detesta quando le persone non sono sincere con lui, anche se è per proteggerlo. Poi devi parlargli anche di Luke, il tuo ex…» soffocai una risata isterica. La parola “ex” mi aveva sempre fatto ridere. Non avrei mai pensato di poter avere un “ex”. «anche se non si direbbe, il mio fratellone sa essere molto geloso.»

 

Sospirai pesantemente, dimenticandomi completamente della presenza di Luke al mio fianco. La sua testa scattò nella mia direzione, e i suoi occhi esplorarono il mio volto per quella che doveva essere la millesima volta in quella mattina di gennaio.

«Ho sempre pensato che tu fossi una ragazza testarda. E cavolo se lo sei!» esclamò alzando la testa, lasciandomi perplessa.

«Dovrei prenderlo come un complimento?» alzai un sopracciglio, e per un attimo lasciai una lieve risata fuoriuscire dalle mie labbra. Sembrò come se tutti quegli anni di distanza ed estraneità si fossero dileguati, e che ci fossimo stati solo lui ed io come semplici… amici.

«Beh, dipende dai punti di vista…» ridacchiò, ma notò subito che il mio volto era tornato serio e la mia espressione dura. Abbassò lo sguardo e sospirò, facendomi sentire improvvisamente colpevole. Perché non possiamo essere semplici amici?

Piombò il silenzio. Luke fissava lo schermo scuro del televisore spento con la schiena incurvata in avanti, mentre io mi sentivo una completa idiota, seduta troppo compostamente sul divano cobalto.

«Claire» pronunciò il mio nome in tono sommesso ma deciso «tu… mi amavi?» chiese, senza però spostare lo sguardo su di me.

«Mi piacevi.» risposi semplicemente, senza pensarci troppo. D’altronde non avrei potuto rispondere diversamente: attribuivo la parola “amore” solo ad Harry, e sapevo che confrontare quello che provavo per lui con quello che avevo provato per Luke era come confrontare le dimensioni del Sole con quelle della Terra.

«Capisco.» disse poggiandosi allo schienale del divano e guardandomi finalmente negli occhi «E adesso, invece? Ami qualcuno? Sai, io…» avrei tanto voluto sapere cosa stava per dire, ma qualcosa mi diceva che poi me ne sarei pentita.

«Sì» lo interruppi «sono innamorata. Forse ho sempre amato questa persona, o forse provavo dei sentimenti nei suoi confronti che poi si sono trasformati in amore. Provo qualcosa per lui dall’età di diciotto anni; ho provato a dimenticarlo, ma senza successo.» cercai di spiegare, risultando però più fredda del dovuto.

Mi guardò con un’espressione indecifrabile: sembrava talmente triste da apparire contento, talmente arrabbiato da apparire inquietantemente tramquillo.

Stavo per aggiungere qualcos’altro, ma il trillo del campanello mi fermò. Mi alzai e corsi ad aprire la porta.

 

Harry era davanti a me con un adorabile cappellino di lana blu e un cappotto grigio che lo faceva apparire più alto di quanto già non fosse. Le sue labbra s’incresparono in un sorriso un po’ impacciato, ma comunque bellissimo, che cercai di ricambiare come meglio potevo.

«Non ti vedo da un po’…» mormorò chiudendo la porta «stai bene, Claire?» chiese, prendendomi le mani. Rabbrividii, e non so se fu a causa delle sue mani fredde, o per il modo in cui aveva pronunciato il mio nome.

«Sto bene.» risposi stringendomi nelle spalle. I suoi occhi cominciarono ad esplorare il mio volto, preoccupati dal tono della mia risposta. «Tu come stai?» chiesi poi stringendogli le mani.

«Io…» spostò lo sguardo su qualcos’altro; poi, aggrottando le sopracciglia, terminò la frase «starei meglio se sapessi chi è quel tizio.»

Luke, sentendosi chiamato in causa, si alzò dal divano e si diresse verso di noi. Aveva un’aria tranquilla… quasi di sfida.

«Tu devi essere il ragazzo di Claire.» disse, e per un momento mi sentii avvampare. Come diavolo ero finita in quella situazione?! Harry annuì con aria decisa. «Io sono Luke.» si presentò, porgendo una mano al riccio.

«Luke? Il tuo ex-ragazzo?» Harry si voltò verso di me con aria interrogativa. Annuii appena, sperando che fosse solo un incubo. «Cosa ci fa qui?» chiese, stringendo le mie mani tanto da far male. Emisi un quasi-impercettibile gemito di dolore, quindi il riccio lasciò la presa sulle mie mani e portò le proprie nelle tasche del cappotto. Lo sentii mormorare uno “Scusami”, per poi continuare a fissarmi.

«È venuto a trovarmi.» mentii, abbassando lo sguardo. Avrei dovuto mentire ancora per poco: il giorno dopo mi sarei operata, e allora gliel’avrei detto.

«Ah, davvero?»il riccio alzò un sopracciglio. La sua espressione stava lentamente mutando: i suoi occhi assunsero un colore molto più scuro rispetto al solito, le sue labbra incurvate a formare un’espressione severa. No dissi tra me e me Harry Styles si sta davvero… arrabbiando?

«Me ne stavo andando.» disse Luke con la voce più atona che gli avessi mai sentito. «Ci vediamo, Claire.» mormorò, e dopo avermi rivolto uno sguardo freddo se ne andò. Avvertii i muscoli di Harry rilassarsi, il colore dei suoi occhi ritornare verde smeraldo, e il suo sguardo meno impenetrabile.

Improvvisamente le sue lunghe braccia mi avvolsero come grandi ali di un’aquila che protegge i propri piccoli. Mi strinsi istintivamente a lui, facendo sprofondare la testa nella sua spalla destra. La sua presenza mi donava sicurezza come nessun’altra. Chiusi gli occhi e mi lascai cullare per un po’ da quella sicurezza che profumava di menta, da quel ragazzo dagli occhi e dal cuore colmi d’amore, anche se inconsapevolmente.

«Harry.»  sussurrai il suo nome cercando di riaprire gli occhi, come se ciò che stessi per chiedere richiedesse un maggiore attaccamento alla realtà.

«Sì?» sussurrò a sua volta.

«Non sei arrabbiato?» domandai, cercando di non far trasparire la preoccupazione per quella che sarebbe potuta essere la sua risposta.

«Arrabbiato?» ripetè sembrando perplesso. Sciolse la stretta per potermi guardare negli occhi, poi aggiunse addolcendo la propria espressione «Per niente. Non potrei mai arrabbiarmi con te.»

«Oh.» dissi solo, abbassando lo sguardo. Un sorriso spontaneo comparve sul mio volto «E con Luke? Sei...» feci per chiedere, ma m’interruppe prima che potessi terminare la domanda.

«No.» scosse la testa con espressione calma. «Non sono arrabbiato con nessuno.» poi il sorriso ricomparve sul suo volto «Se tu dici che era venuto solo per una visita, io mi fido.»

Io mi fido.

Harry si fidava di me, ed io… non gli stavo dicendo tutta la verità. Non sapevo che fare. Dirglielo o no? Oh, andiamo, gliel’ho tenuto nascosto per settimane; un giorno in più non farà tanta differenza. Pensai.

«Ti amo, Harry.» dissi stringendomi nuovamente a lui. Trattenni le lacrime: come potevo fargli questo?

Ma in fondo non stavo facendo niente di male. Non gli avevo detto niente per il suo bene. Ma alla fine, chi ero io per decidere cosa fosse “il bene” per lui?

 

Ricordo molto bene il giorno dell’operazione: era un lunedì piovoso e freddo, la classica giornata che avrei passato molto più volentieri a casa bevendo della cioccolata calda. E invece no, ero stata costretta ad alzarmi presto per andare in clinica e operarmi.

 

Erano solo le sei e mezza e avevo borbottato  la parola “merda” qualcosa come mille volte. «Odio i lunedì. Sono così distanti dalla domenica, eppure così vicini… che giorno di merda. Odio la pioggia. Non si può fare praticamente niente quando piove! Che tempo di merda. Odio il  freddo… ma non c’è un perché. Il freddo è freddo, e detesto sentire freddo. Freddo di merda.»

Continuai a borbottare cose senza senso per una buona mezz’ora, prima di rendermene conto. Fortunatamente nessuno mi aveva sentito –alle sette di mattina non c’era molta gente. Prima che potessi accorgermene, la porta bianca della sala operatoria si aprì e si affacciò una donna dalla chioma folta e riccia che si apprestava a sistemare i capelli nella cuffia da infermiera.

«Tomlinson.» mi chiamò in tono cordiale. Mi alzai lentamente ed entrai nella tanto temuta sala operatoria.

Oh, merda. Sospirai.

 

Il giorno prima Phoebe mi aveva chiamato per augurarmi buona fortuna e per dirmi che mi sarebbe stata vicina con il pensiero. Aveva cercato di tranquillizzarmi, dicendo che nonostante il dolore iniziale, poi tutto sarebbe passato e sarei stata meglio. Così, quando mi operarono pensai a lei e ad Harry. Sarebbe andato tutto bene.

 

Quando uscii dalla sala operatoria, mi dissero che l’operazione era andata come previsto, quindi perfettamente bene. Tirai un sospiro di sollievo: era fatta! Sarei dovuta rimanere per un paio di giorni per dei controlli, ma il peggio era passato. Chiamai immediatamente il mini-albero e le raccontai del successo dell’operazione.

«Sapevo che sarebbe andato tutto bene.» affermò con la convinzione di una veggente a cui non si è dato ascolto.

«E se invece ti fossi sbagliata?» chiesi un po’ divertita.

«Impossibile.» effermò lei sembrando quasi seria «Io non so molte cose. Ma ciò che so è sempre vero o si avvera.» mi ci volle un po’ di tempo per capire cosa avesse detto.

«Quindi saresti una specie di veggente?» sorrisi giocherellando con una ciocca di capelli.

«Nah.» rispose accennando una risata «Sono solo una tizia con un po’ di speranza e sesto senso.»

 

La porta della stanza si eprì ed entrò Luke. Si avvicinò al mio letto e si sedette su una sedia bianca accanto ad esso.

«Quindi l’operazione è andata a buon fine.» disse con un tono calmo sorridendo appena.

«Beh, sì» affermai alzando un sopracciglio «altrimenti non so se saremmo qui a parlare.»

«Già.» disse soltanto, accennando un suono che sembrava quello di una risata. «Qui fuori c’è qualcuno che vorrebbe vederla, signorina Tomlinson. Posso farlo entrare?» domandò piano. “Signorina Tomlinson”? Sul serio? Okay, era al lavoro, ma fino a quel momento mi aveva sempre chiamato “Claire”. Sospirai, pronunciando un debole “Sì.”

«Bene.» disse soltanto. Si alzò ed uscì dalla stanza, lasciandomi non poco perplessa. Dopo un po’ la porta si aprì nuovamente, e si chiuse dietro le spalle di un ragazzo.

Spalancai gli occhi e per pochi secondi smisi di respirare. Poi presi tutta la calma che avevo, feci un bel repiro e schiusi le labbra per pronunciare due parole:

«Ciao Harry.»

 

Si sedette sulla sedia e rimase a fissarmi in silenzio. Deglutii. Cosa avrei dovuto dire? Cominciai a giocherellare con le mani e cercai di guardarlo negli occhi. In quel momento erano più impenetrabili di una fortezza con delle mura difensive. Quasi mi spaventava.

«M-mi dispiace.» abbassai lo sguardo.

«Per quanto tempo, Claire?» chiese con un tono basso e la mascella contratta «Per quanto tempo me l’hai tenuto nascosto?»

«Qualche… settimana.» ribattei piano. Solo in quel momento realizzai di averla combinata davvero grossa. Avrei volentieri preso il muro a testate.

«Ah, davvero?» alzò semplicemente un sopracciglio come se gli avessi rivelato la cosa più normale del mondo. Annuii, in attesa di una sfuriata epica. Alzai lo sguardo, e vidi che lui stava… piangendo.

«Harry!» esclamai preoccupata alzandomi di scatto. Poggiai delicatamente la mia mano destra sulla sua che teneva davanti al volto per cercare di nascondere le lacrime. Adesso allontanerà la mia mano e mi urlerà contro. Me lo merito dopotutto. Pensai.

Ma non fu così: Harry mi prese la mano e delicatamente l’appoggiò sulla mia guancia. Puntò quei due smeraldi che aveva al posto degli occhi nei miei che a confronto sembravano di un banale azzurro.

«Non ti fidi di me, non è così?» sussurrò con gli occhi lucidi «Perché? Eppure io mi fido ti te…»

«Lo so, m-ma… insomma, non volevo farti preoccupare.» abbassai lo sguardo sui miei piedi nudi.

«Sai, non credo di meritarti.» disse come se non avesse sentito la mia precedente risposta. aggrottai le sopracciglia. Cosa? «Insomma, tu… hai affrontato tutto questo da sola, con le tue sole forze. Anche se c’era il dottor Luke con te…» come diavolo fa a saperlo? «… non ti sei mai lamentata. Neanche una volta.» sospirò «sei molto più coraggiosa di quanto potessi immaginare. Mi dispiace di non essermene accorto prima, Claire.» accennò un sorriso, portando una mano sulla mia guancia per accarezzarla.

«Harry… cosa… cosa significa questo?» sbattei le palpebre un paio di volte. Avevo gli occhi lucidi, e a breve sarei scoppiata a piangere, lo sentivo.

«Scusa.» disse solo, abbassando lo sguardo. «Solo che… non meriti di avere accanto una persona debole come me, ecco tutto.»

Detto questo si alzò ed uscì dalla stanza.

Rimasi in piedi a fissare la sedia per circa un minuto. Era… finita? No. Non poteva essere così. Lui non era debole, anzi. Ero io quella stupida, quella debole che aveva cerato di rendersi forte ai propri occhi restando in silenzio. Ed era solo colpa mia se l’avevo perso.

Allora presi la decisione più folle di tutta la mia vita: spalancai la porta della stanza e –con ancora indosso il camice e i piedi nudi- attraversai velocemente il corridoio dell’ospedale rincorsa dai medici che mi rimproveravano e mi precipitai fuori alla ricerca di Harry.

Ero consapevole della possibilità che una macchina m’investisse, che avrei potuto calpestare qualcosa e farmi davvero male, o prendere un brutto raffreddore, vista la pioggia. Ma niente avrebbe potuto fermarmi. Dovevo parlare con Harry e dirgli tutto ciò che non ero stata in grado di dire due minuti prima in quella sala d’ospedale. Non lo trovai subito: ad un certo punto riconobbi la sua macchina e la inseguii più velocemente che potei. Con difficoltà la superai e mi fermai con le braccia spalancate davanti ai cancelli dell’ospedale. Lo vidi spalancare gli occhi, poi fermare la macchina e scendere da essa. Ansimai: non sapevo cosa gli avrei detto, ma avrei trovato qualcosa per fargli capire che non era solo lui ad aver bisogno di me: anch’io avevo bisogno di lui.

«Claire!» esclamò correndo verso di me. «Ma che cosa fai?! »

«Io non voglio perderti, Harry. Ho bisogno di te!» esclamai stringendo i pugni. Ero consapevole di sembrare una pazza scappata da un manicomio appositamente in un giorno di pioggia per attuare i propri piani di conquista del mondo, ma… non m’importava.

«Ma non c’è niente di… niente in me! Tu sei coraggiosa e…»

«Oh avanti Harry, non dire idiozie! Io non sono stata coraggiosa, sono stata solo… stupida! Non ti ho detto niente perché pensavo che sarebbe stato meglio non farti preoccupare. Però… non ho pensato che questo magari potesse ferirti.» gli dissi tutto d’un fiato. Ormai ce l’avevo a pochi centimetri di distanza, e potevo sentire il suono del suo respiro coprire il rumore della pioggia incessante.

«Tu sei sempre stata coraggiosa invece, sin dal primo giorno che ci siamo coinosciuti. Mi hai difeso contro quelle ragazze… ricordi?» quasi non ci credevo. Davvero ricordava quell’episodio?

«Ma quello è stato tanti anni fa…» sussurrai. Forse se al posto suo ci fosse stato qualcun altro quel giorno, non l’avrei difeso. Quel giorno avevo difeso Harry Styes solo perché era lui, o perché era un ragazzo qualsiasi che veniva preso in giro davanti a me?

«E quella volta che ci derubarono, il ladro mi diede uno schiaffo, e tu lo riempisti di calci nelle palle perché “non avrebbe dovuto toccarmi”? O quando quel ragazzo mi prese in giro perché sapevo giocare meglio a pallavolo che a calcio, e tu gli rispondesti per le rime? Potrei stare tutto il giorno a farti esempi. La verità è che mi appoggio troppo a te, sono inutile. Tu non hai bisogno di me. Tu sei una guerriera che mi salva da ogni situazione, che mi difende. Ma io non faccio niente. Io conto troppo su di te, ma tu non ti fidi di me.» disse con il suo solito ritmo lento e profondo. Ormai anche lui era bagnato fradicio: i capelli gli si erano attaccati sulla fronte e sulle spalle, la camicia nera gli stava aderente come i jeans che indossava. Mi soffermai qualche secondo ad osservarlo: perché diamine il suo corpo doveva distrarmi in un momento come quello? Ah, maledetta pioggia.

«Harry» scossi la testa «io non so se sono una guerriera o meno… ma so che i guerrieri combattono. Bene, io non sto combattendo per te. Io sto combattendo con te. Ognuno di noi è un guerriero a modo suo, Harry. Anche tu lo sei. E stai combattendo insieme a me per proteggere noi.» sospirai. Sperai con tutto il cuore che avesse capito ciò che intendevo, anche perché sarebbe stato difficile ripeterlo. Cose del genere si dicono una sola volta nella vita… immagino.

Aveva gli occhi lucidi quando terminai di parlare. Poi mi prese in braccio e mi baciò con passione. Avvolsi le braccia attorno al suo collo e continuai a baciarlo, e avrei continuato fino allo svenimento se un tizio non ci avesse urlato “Tutto molto bello, ma adesso spostatevi, io devo uscire di qui!”

Harry ed io scoppiammo a ridere e corremmo all’interno dell’ospedale tutti bagnati; ci beccammo una bella ramanzina da una decina di medici, dal tizio che gestiva il parcheggio e da uno dei dottori principali. Sì, prendemmo davvero entrambi l’influenza, ma la cosa più importante era stare insieme, e ci sentimmo finalmente in pace con noi stessi: Harry aveva bisogno di me, ed io di lui, ma entrambi avevamo bisogno di noi, e avremmo lottato per quel noi con le unghie e con i denti.

 

Qualche giorno dopo uscii dall’ospedale e tornai a casa: aprii lentamente la porta d’ingresso e mi diressi verso camera mia. Avevo una strana ansia addosso: c’era troppo silenzio! Era come se non fossi sola. Per un momento mi chiesi se non fossi sul set di qualche film horror; entrai furtivamente nella mia stanza. “C’è nessuno?” pensai di dire. Se stavano girando un film sarebbe andata bene come battuta, no?

Accesi la luce e dopo pochi secondi sgranai gli occhi.

Camera mia era ricoperta di rose rosse. Erano dappertutto: sul pavimento, sul letto, sulla scrivania, perfino sull’armadio! Era come… un campo di rose rosse.

Dopo un po’ notai che una rosa si stava muovendo verso di me. Alzai un sopracciglio e mi avvicinai ad essa. Accarezzai un petalo: era morbidissimo e delicato. Avvicinai il viso al fiore per annusarne il profumo, e delle labbra spuntarono improvvisamente da esso per posarsi sopra le mie. Sobbalzai, ma appena mi resi conto che quelle erano le labbra di Harry mi rilassai. Non poteva che essere stato lui. Quando ci staccammo, mi guardò negli occhi; fece un respiro profondo e s’inginocchiò.

Sussultai. Non può essere…

«Claire Tomlinson» sussurrò incurvando le labbra nel sorriso più luminoso che avessi mai visto «vuoi sposarmi?» domandò, aprendo quella che pochi secondi prima mi era sembrata una rosa; e invece no, era un cofanetto con un anello dorato all’interno.

Oddio. L’ha detto sul serio. E ora cosa faccio? Certo che lo voglio sposare! Se solo la mia voce si decidesse ad uscire sarebbe molto più semplice. Esci, stronza di una voce!

«S-sì.» mormorai, sperando che mi avesse sentito.

Continuò a fissarmi per qualche secondo, poi capii che non mi aveva sentito. Feci un respiro profondo.

«Sì, Harry, voglio sposarti.» ripetei a voce piu alta con convinzione. I suoi occhi s’illuminarono di una luce mistica, e pochi attimi dopo si fiondò sulle mie labbra.

 

«Cosa?!» urlò Phoebe dall’altro capo del telefono.

«Ci sposiamo, Cespuglietta!» urlai a mia volta. Dovevano essere circa l’una di notte, ma non avevo nessuna intenzione di dormire.

«Oh cazzo.» disse con un tono spaventosamente calmo. «Lo sapevo, lo sapevo!» riprese ad urlare. Sentii poi degli “Shh” che probabilmente provenivano dalle sue compagne di stanza. Forse non era stata proprio una grande idea chiamarla nel cuore della notte, facendola spaventare a morte.

«È una reazione positiva o negativa?» chiesi ridendo. Ed eccoci qui, dopo anni di lontananza, ancora a ridere e scherzare come due bambine. Pensai increspando le labbra in un sorriso spontaneo.

«Guarda, se non fosse l’una di notte e domani non avessi lezione, verrei lì a piedi e abbraccerei fortissimo entrambi. Ma non posso farlo, quindi stritolatevi a vicenda da parte mia.» rispose ridendo. Cominciai a saltellare euforicamente qua e là, per poi buttarmi sul letto e produrre un tonfo.

«Lo faremo.» affermai divertita «Adesso però è meglio andare a dormire, non credi?» poggiai il capo alla testata del letto cercando di calmarmi «Buonanotte Phoebe, ti voglio bene.»

«Mi dici adesso come diamine faccio a dormire?» esclamò, facendomi ridere. «Vaa bene Claire, buonanotte. Anch’io ti voglio bene.» sospirò e attaccò, ma senza che prima io sentissi le proteste delle compagne di stanza. Spero di non averla messa nei guai. Dissi tra me e me.

Bene, a Phoebe l’avevo detto, ai miei genitori pure. Loro mi avevano abbracciata e si erano congraturati con noi. Sinceramente non pensavo che accogliessero così la notizia, ma in fondo non si erano neanche mai opposti al mio fidanzamento con Harry. Certo, si preoccupavano spesso di come le cose andassero tra di noi, ma a parte quello erano semplicemente contenti per me.

Il vero ostacolo da superare era mio fratello, Louis. Litigavamo spesso, certo, ma tutti lo fanno. Sono convinta che anche Harry e Phoebe litighino di tanto in tanto. Louis però era –e sono convinta che sia ancora- un tipo di fratello molto protettivo. Forse anche un po’ troppo.

Non lo vedevo dal mio ritorno a casa da Harvard. Non gli avevo detto neanche del fidanzamento… ma dovevo chiamarlo. Dovevo dirglielo, dirgli che la sua sorellina presto si sarebbe sposata e sopportare il suo interrogatorio di circa tre ore per convincerlo della nostra relazione. Sarebbe stata dura, ma ce l’avrei fatta. Ce l’avremmo fatta.

 

«Pronto?» Louis rispose al telefono dopo circa due squilli. Okay Claire, stai calma, rilassati.

«Lou.» dissi con tono pacato. Abbassai lo sguardo sull’anello: era bellissimo. Semplice e bellissimo.

«Claire!» esclamò non appena udì la mia voce. Sembrava sereno, bene. Avevo una possibilità in meno che uscisse dal telefono per andare a “parlare” con Harry.

«Fratellone… devo dirti una cosa.» sospirai. Non avevo voglia di fare tanti giri di parole, e poi Louis stesso li odiava. Voleva che quando si parlasse con lui si fosse chiari e diretti.

«Oh okay… sembra una cosa seria. Dimmi, dai.»

«Ecco, io…» feci un respiro profondo «sto per sposarmi.» L’ho detto. Oddio, l’ho detto sul serio. Sto per morire, lo sento.

«Tu…» bisbigliò. Dopo qualche secondo di silenzio, scoppiò a ridere. Era tanto divertente…? «Ah, sorellina! E io che pensavo chissà cosa. Tu vuoi farmi morire d’infarto! Non fare mai più scherzi del genere!» continuò a ridere. Ebbi l’impressione che non mi avesse presa sul serio.

«Ehm… Louis… sono seria. Mi sposo davvero.» mi morsi il labbro inferiore cercando di riacquistare un tono tranquillo.

«Ah.» smise di ridere. Oh cazzo, adesso inizierà ad urlare. «Non era uno scherzo?»

«No.» sospirai.

«Ma sei piccola!» esclamò. Ecco, si era arrabbiato. «Hai tutta la vita davanti e vuoi sposarti proprio adesso con uno che probabilmente tra tre anni se ne fregherà di te?»

«Non sono piccola!» esclamai a mia volta «E poi lui… lui non è così!»

«E tu cosa ne sai?» disse in tono di sfida. «Da quanto siete fidanzati?»

«Due anni.» risposi immediatamente.

«E non mi hai detto niente?» urlò, per poi sbuffare «Sai cosa, Claire? Vaffanculo!» spalancai gli occhi.

«Bene allora. Ti sei mai innamorato di qualcuno, Louis? Beh, perché io non posso?» alzai la voce. Stava cominciando ad irritarmi, e stavolta non sarebbe finita con noi due a farci il solletico a vicenda.

«Non sto dicendo che non puoi! Solo che addirittura il matrimonio mi sembra troppo!» continuò ad urlare. Il suo tono però non era quello di quando voleva aver ragione a tutti i costi… ma piuttosto di quando era preoccupato.

«Lou, ascolta…» sospirai, carcando di calmare la voce «so che sei preoccupato per me e che mi stai dicendo tutto questo perché mi vuoi bene. Vorrei davvero che tu potessi conoscerlo, così-»

«Fantastico!» m’interruppe. Il suo si era tramutato in un tono allegro, e ciò mi preoccupava. «Sarò lì tra un paio di giorni, ci vediamo sorellina!» e attaccò.

Mi accasciai contro il muro e sorrisi sarcasticamente.

«Figo, sono nella merda.» sospirai.

 

Qualche giorno dopo, mentre Harry ed io stavamo tranquillamente sul divano a coccolarci, sentimmo la porta aprirsi, e ci staccammo appena in tempo per vedere Louis entrare in casa. Mi morsi il labbro, preparandomi mentalmente ad ogni evenienza.

«Oh, beh, almeno ha i capelli ricci.» disse lui non appena posò lo sguardo sul mio ragazzo.

«Ciao anche a te, Lou.» lo salutai sarcastica corrugando la fronte. Mi rivolse uno sguardo annoiato e riportò gli occhi su Harry.

«Li vedi questi bei ricci?» mio fratello si avvicinò a lui e prese una sua ciocca di capelli. «Se la farai soffrire» voltò per qualche secondo la testa verso di me per indicarmi, poi tornò a guardare il riccio «avranno l’onore di morire sotto le mie forbici.» terminò, sorridendo innocentemente come se avesse detto la cosa più normale del mondo.

«Ma a me piacciono i miei ricci…» ribattè Harry sbattendo le palpebre un paio di volte.

«Anche a me,» Louis annuì sbattendo le palpebre a sua volta «ma tengo di più a mia sorella. Quindi attento o i tuoi ricci faranno una brutta fine.» poi alzò gli occhi, come per ricordare qualcosa. Spostò lo sguardo da me ad Harry, poi a me, e infine di nuovo ad Harry. «Tu farai una brutta fine.» sorrise nuovamente inclinando leggermente la testa di lato.

Harry mi rivolse uno sguardo preoccupato, ed io farfugliai un “è normale”. Poi guardai Louis e scossi la testa: perché doveva spaventare quel poverino?

«I-io amo Claire» trovò il coraggio di dire Harry «non la farei mai soffrire.» mi prese per mano.

«Sarà meglio per te… ehm, com’è che ti chiami?» domandò apparendo un po’ più gentile.

«Harry.» rispose il mio ragazzo sembrando meno teso «Harry Styles.»

«Styles?» Lou alzò un sopracciglio «come Phoebe Styles?». Come fa a conoscere Phoebe? Non gliene ho mai parlato…

«Conosci mia sorella?» Harry diede infatti voce al mio pensiero imitando l’espressione di Lou.

«Phoebe è tua sorella?» chiese poi mio fratello.

«Potete per favore smettere di fare domande e rispondere a qualcuna?» intervenni mettendomi tra di loro. Entrambi sospirarono.

«Phoebe ha frenquentato il mio corso di pianoforte l’anno scorso. Una ragazzina brillante.» Lou sorrise come intenerito.

Si sedettero sul divano e cominciarono a parlare di Phoebe, per poi passare ad altre cose di cui, onestamente, persi il filo. Però ero sicura di una cosa: Phoebe aveva involontariamente sventato un… capellicidio? Beh, comunque per merito suo Louis ed Harry cominciarono ad andare d’accordo. Viva Phoebe!

 

Osservai per l’ultima volta il mio riflesso allo specchio: avevo i capelli raccolti in uno chignon alto, e quest’ultimo era ornato con dei piccoli fiorellini bianchi. Il corpetto del vestito era senza maniche con dei motivi ricamati, mentre la gonna era molto ampia, come avevo sempre desiderato. Mi morsi il labbro e mi chiesi per l’ennesima volta se sposare Harry mi avrebbe resa felice, e per l’ennesima volta mi risposi che sì, Harry era tutto ciò di cui avevo bisogno per essere felice. Poggiai il velo sul viso e feci un respiro profondo: era il momento di andare.

Le porte della chiesa si aprirono ed entrai, stando attenta a non inciampare. Non appena mossi un passo sul tappeto rosso, invece di quella nuziale, partì una musica che mi era familiare. Mi voltai verso destra e guardai nello spazio dove di solito suonava il coro.

Non c’era nessuno. Anzi, a dire il vero c’era un pianoforte che non avevo mai visto prima… e un cespuglio più sorridente che mai che lo suonava.

2Look into my eyes

It’s where my demons hide

Don’t get too close

It’s dark inside

It’s where my demons hide.

 

Cantò Harry. La sua voce roca mi fece venire la pelle d’oca. Spalancai gli occhi, stupita, e continuai a camminare verso di lui.

Poi Phoebe cominciò a suonare un’altra canzone che riconobbi subito. Era una delle mie preferite.

 

3Now I'm a warrior

I’m stronger than I’ve ever been

And my armor, is made of steel, you cant get in

I’m a warrior

And you can never hurt me again.

 

Cantai io stavolta. Sapevo di non essere molto brava, ma era la mia canzone preferita dopotutto, non potevo non cantarla.

 

Raggiunto Harry sull’altare, gli rivolsi un sorriso sincero e mi voltai nella direzione del sacerdote.

«Vuoi tu, Harry Edward Styles, prendere come tua legittima sposa la qui presente Claire Tomlinson per amarla, onorarla e rispettarla in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, finché morte non vi separi?»

«Sì, lo voglio.» rispose Harry con un sorriso luminoso stampato in volto.

«E tu, Claire Tomlinson, vuoi prendere come tuo legittimo sposo il qui presente Harry Edward Styles per amarlo, onorarlo e rispettarlo in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, finché morte non vi separi?»

«Sì» urlai quasi «lo voglio.»

«E per il potere a me conferito, vi dichiaro marito e moglie.» si voltò verso Harry «Ora puoi baciare la sposa.»

Così il mio ragazzo –appena divenuto mio marito- poggiò le sue morbide labbra sulle mie. Così facendo, suggellammo una promessa: una promessa per l’appunto di amore, ma anche di onore e rispetto.

Gli presi la mano e incrociai le dita con le sue. Insieme camminammo verso l’uscita della chiesa, mentre il piano si apprestava a produrre un’ultima melodia, stavolta a me sconosciuta.


4And red roses will fall from the sky

Or maybe from the heaven,

Red roses will shine on the grass

Maybe the Earth is happy

But the only thing I know is that

If you’ll bring me a little red rose

It will be the most beautiful ever.

 

Stavolta fu Phoebe a cantare, con la sua voce roca e calma. Sorrisi al pensiero che tutto ciò stesse accadendo davvero, e che proprio io, una ragazza che pochi anni prima si sentiva una nullità, fosse riuscita a realizzare tanto.

 

 

 

«Mamma, ho fame!» l’urlo di mia figlia mi fa sobbalzare. Pochi secondi dopo la vedo entrare in cucina con le cuffie nelle orecchie e le mani poggiate sui fianchi. Ha ereditato gli occhi del padre e i miei capelli lunghi e biondi… e beh, evidentemente anche il mio amore per il cibo.

«Tra poco torneranno tuo padre e tuo fratello.» alzo un sopracciglio «Aspettiamo loro.»

«Oh, allora okay.» fa spallucce, e mentre torna in camera sua la sento borbottare qualcosa come “Faranno meglio a sbrigarsi.”

Dopo circa un quarto d’ora, infatti, ecco Harry e Colin che sono di ritorno da una gita in barca.

«Mamma, mamma!» il piccolo Colin corre verso di me «Papà mi ha fatto vedere i pesci del fiume! Sai che sanno anche saltare? Voglio tornarci!» esclama contento mentre Harry ridacchia.

«Ha fatto il bravo?» chiedo accarezzando i ricci del bambino. È uguale ad Harry in tutto tranne per gli occhi.

«È stato molto bravo.» annuisce.

«Ciao papà.» lo saluta nostra figlia apparendo all’improvviso.

«Karen.» sorride lui andandole incontro «Ti ho preso una cosa. Vieni a vedere se ti piace?» lei annuisce ed insieme a Colin vanno in soggiorno.

Li raggiungerò a momenti, ma prima c’è una cosa che devo fare.

Entro nella camera mia e di Harry e chiudo la porta; cerco un bauletto di legno e lo apro, per poi tirare fuori un quadernino un po’ impolverato. Lo apro.

“Dov’è il mio lieto fine?” trovo scritto, e sotto ci sono tutte le risposte che ho dato negli anni. Le leggo tutte, ma mi rendo conto che nessuna, neanche l’ultima, è giusta.

“Il mio lieto fine non è ancora arrivato” scrivo “perché non è ancora la fine.”

Che cosa vedi di bello in lui?

“Lui non è solo bello, né tantomeno perfetto. È semplicemente se stesso, ed è ciò che mi ha fatto innamorare di lui.” scrivo mentre mio marito entra nella stanza.

Che cosa provi per lui?

“Lo amo. Non c’è altro verbo, parola o frase che spieghi meglio cosa provi per lui. Potrei parlare per ore dell’effetto che mi fa quando mi parla, mi stringe, mi accarezza. Ma va bene così.” continuo mentre mi sussurra che mi ama.

Perché lui?

“Perché… perché lui è Harry Styles, l’unico e solo nel mondo, e ciò mi basta per essere felice.” e chiudo il quaderno tra la risata genuina di Harry e Colin, i “Grazie papà!” di Karen, e… l’ “Indovinate chi c’è?” di quella specie di cespuglio che soliamo chiamare “zia Phoebe”.

 

Questa è Phoebe:

 

Canzoni*

1Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.

Per tutto ciò che ho fatto

Per tutto ciò che ho provato.

Sono stanca di essere sempre così

Sono stanca di essere sempre quella triste.

Ma ora voglio ricominciare tutto da capo.

 

2Guarda nei miei occhi

È dove i miei demoni si nascondono

 Non avvicinarti troppo

Dentro di me c’è il buio

È dove i miei demoni si nascondono.

-Imagine Dragons- Demons

 

3Adesso sono una guerriera

Sono più forte che mai

E la mia armatura, è fatta di acciaio, non puoi toccarmi

Sono una guerriera

E non potrai mai ferirmi di nuovo.

-Demi Lovato- Warrior

 

4E rose rosse cadranno dal cielo

O forse dal paradiso

Rose rosse brilleranno sull’erba

Forse la Terra è felice

Ma l’unica cosa che so è che

Se tu mi porterai una piccola rosa rossa

Sarà la più bella di sempre.

 

Angolo Autrice

Ciao a tutti! È da molto che non pubblico qualcosa, ma un giorno l’ispirazione è venuta… ed eccomi qui a pubblicare questa one-shot.

Dedico questa storia alla mia migliore amica “insegnamiadamare” <3 sappi che ti voglio bene :3

Se vi va recensite, a me fa sempre piacere! Alla prossima.

-Panda.

   
 
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