Mugiwara do it better
Si
diventa pirati per sete di libertà. Per voglia di avventura. Per amore del mare
e del vento, per vivere con i propri amici e cantare tutte le sere, combattere
spalla a spalla, prendersi cura l’uno dell’altro quando qualche maledetto
proiettile è più veloce di uno scudo.
Si
diventa pirati perché ormai non si ha più una famiglia da cui tornare, perché
quelli che sono garanti del bene sono le stesse persone che hanno sterminato
tua madre e tuo padre, si diventa pirati perché ti accorgi che vivere su un’isola
non basta più: vuoi tramonti rossi e oro, vuoi sere nere in cui lasciarti
cullare dal suono malinconico dell’armonica, vuoi chiamare casa una nave che ti porterà in capo al mondo, vuoi vivere tutta la
vita.
E si
diventa pirati perché certe cazzate, quando hai un gruppo di amici, riescono
meglio.
Usop
si era appena svegliato e, come ogni mattina, era in piedi davanti allo
specchio ad aggiustarsi la grande massa di ricci che lo contraddistingueva.
Accidenti se si erano fatti lunghi! Durante i due anni di allenamento non aveva
avuto proprio il pensiero di tagliarli, e ora si ritrovava con un cespuglio che
però, nonostante tutto, gli piaceva. Era bello scorrere le dita fra i ricci
scuri e sentirli molleggiare ad ogni movimento del capo.
Ma
era un cecchino, e non poteva permettersi ostacoli davanti allo sguardo, così
per la maggior parte del tempo li portava raccolti.
E
mentre era intento a legarli, l’occhio gli cadde sulla maglietta che usava come
pigiama, senza riuscire a reprimere un sorriso: sul petto campeggiava la
scritta “Mugiwara do it better”. Ognuno
ne aveva una, avevano deciso di farsele stampare su una piccola isola su cui avevano fatto tappa poche settimane prima. Nami l’aveva reputato uno spreco di soldi, ma
visto che persino Nico Robin aveva sorriso a quella goliardata aveva finito con
l’acconsentire.
– “Fanno meglio” cosa? – aveva chiesto Rufy
spaesato, inclinando la testa di lato e accudendo con amore le proprie caccole.
I suoi amici si erano trovati molto spesso davanti
alla sua ingenuità, ed era stato Sanji a risolvere la questione – Mangiare, no?
– aveva detto con un bel sorrisone.
Inutile insistere, l’argomento non era tabù, erano
tutti belli grandi, però… lui non lo capiva. E sì che durante i due anni di
allenamento era stato con quel grandissimo dongiovanni di Silvers Rayleigh!
Motivo in più, oltre alla faccenda delle Amazzoni, che aveva il povero cuoco
per rodersi il fegato: non solo aveva la pratica a disposizione, ma pure la teoria
di un luminare del settore!
Usop si lavò la faccia con l’acqua concessa dalla
brocca che ognuno di loro aveva a disposizione per la propria giornata e uscì
sul ponte, felice in cuor suo per quella tranquilla giornata di navigazione
dopo la loro ultima avventura su un’isola che ormai era un lontano ricordo.
Se solo ci pensava, gli si rizzavano i peli sulla
schiena dalla paura! Paura per i suoi compagni, eh! Mica per la propria
incolumità. Questi lettori, sempre a pensar male di un onesto cecchino!
Sulla Sunny nessuno dormiva moltissimo; era uno
degli aspetti negativi dell’essere solamente in nove: tra chi doveva manovrare
la nave e chi doveva stare di vedetta, i turni si avvicendavano rapidamente e
non sempre era possibile dormire per una notte intera, anche se grazie ad una
tabella oraria studiata con criterio da Nami era stato fatto in modo che ognuno
avesse, a rotazione, una nottata libera da turni da poter passare in
tranquillità.
Andare per mare era difficile e la navigazione non
sempre tranquilla, ma grazie a Franky lo spazio vitale, seppur comunque
ristretto, si era decisamente allargato rispetto a quando vivevano sulla Merry.
Guardò una foto della loro prima caravella che aveva attaccato accanto allo
specchio del bagno, sospirando al ricordo. Era stata una compagna, per lui. Una
vera amica, un’entità di cui potersi fidare, e sembrava di poterle parlare in
quelle lunghe ore passate a ripararla, dove non aveva idea di cosa stesse
facendo mentre impeciava assi e batteva chiodi… ma lo faceva, sentiva il dovere
e il bisogno di fermare con le proprie mani il tempo che scorreva inesorabile
lungo i fianchi malmessi della nave che il domestico Merry aveva messo nelle
loro maldestre mani.
Era stato il momento peggiore in quella strana
famiglia. Non avrebbe mai voluto combattere contro Rufy, ma per la Going Merry
l’aveva fatto. E poco c’era mancato che vincesse anche, ma si sa che molto
spesso non conta chi esca vittorioso dallo scontro: conta solo combattere, e
far capire all’avversario che non mollerai finché avrai un grammo d’energia in
corpo.
Poi era bastato poco a chiarirsi; del resto tra
compagni ci si capisce subito.
Ormai erano tre anni che quel meraviglioso
brigantino era la loro casa, e la bravura di Franky era stata anche nel
prevedere le loro esigenze non solo come naviganti, cosa che comunque ci si
aspetta da un carpentiere degno di tale nome, ma anche e soprattutto come
persone.
La palestra di Zoro era efficiente, e il pavimento
rinforzato per i bilancieri più pesanti.
La cucina di Sanji era ben ponderata, con le
“isole” per appoggiare le pentole e abbastanza lavelli per lavarle tutte. I
pensili, poi, non si contavano, così come i fornelli, e un grande frigo e un
bel congelatore garantivano una scorta sufficiente per nove… pardon,
otto stomaci.
La biblioteca era meravigliosa, ma anche la camera
di Robin (e solo la sua) aveva uno scaffale speciale per riporre i libri, con
tanto di listello per farli star buoni sulle mensole anche durante le boline
più strette.
Lo studiolo di Nami era impressionante, con il
tavolo da disegno professionale, inclinabile ed enorme che campeggiava sotto un
oblò gigantesco. Nessuno aveva mai avuto l’onore di vederla al lavoro, in
quanto preferiva assoluta tranquillità e guai a non garantirgliela, ma non era
difficile immaginarsela immersa nei propri disegni seduta a quello spettacolare
tavolo degno di uno studio di architetto.
L’infermeria era un prodigio della tecnica,
insonorizzata come la camera di Brook per far riposare in tranquillità i
convalescenti, armadietti erano in materiali facili da pulire e disinfettare,
il tavolo operatorio dall’altezza era regolabile, e ci erano voluti giorni
perché Chopper smettesse di ringraziare Franky in lacrime.
Ma la cosa più bella, nonostante la perfezione che
aveva reso l’ambientarsi più semplice, era il concetto stesso di vivere in
quella che consideravano una vera casa. Svegliarsi la mattina e andare in
cucina. Sapere dove trovare pentolini per il latte e macchinetta per il caffè
anche se Sanji non era disponibile, e cucinare disastri nucleari improponibili
(o ottimi lassativi?) che venivano gettati fuoribordo. Aprire un armadio
sapendo che le lenzuola per il cambio fossero lì. Ritagli di giornale attaccati
ai letti, l’odore di rhum sul tappeto dell’acquario per quella volta che Chopper
lo volle provare ma rovesciò il bicchiere, le coperte riposte in un baule sul
ponte che si portavano a vicenda la notte, quando faceva freddo e le vedette
erano in difficoltà.
La Sunny era il posto sicuro dove tornare alla fine
di un’avventura.
Era casa.
Il Cecchino salì in coperta, trovandosi sul tappeto
erboso del ponte centrale.
– PALLA! –
Prima di quell’esilio forzato a Greenstone si
sarebbe preso una sonora pallonata in faccia che gli avrebbe dato un naso di
dimensioni comuni, adesso però i riflessi allenati dalla permanenza nella
giungla gli permisero di afferrare il pallone di cuoio con le mani quasi senza
danni.
– Rimessa laterale! – gridò Sanji sotto l’albero
maestro, invitandolo ad unirsi al gioco. Usop fece un paio di palleggi di
destro e poi rispedì la palla al cuoco. In porta, sotto al cassero, c’era Rufy:
era un portiere formidabile, anche se durante le partite cercava di non usare
il suo frutto: sarebbe stato imbattibile, e anche scorretto. Dal canto suo,
Sanji si asteneva dal suo micidiale Diable Jambe, che avrebbe irrimediabilmente
rovinato il pallone. E poi va’ a convincere Nami a comprarne un altro!
Chopper faceva il tifo per tutti sbocconcellando
dei pancake messi da parte la sera precedente. Esultava per i gol di Sanji
nella porta immaginaria disegnata col gessetto contro la paratia di legno, e gioiva
per le parate di Rufy; tratteneva il fiato quando la palla non diventava che
una macchia d’arancione in mezzo al blu, finché le braccia elastiche del
capitano non la riportavano in lidi più sicuri.
Si erano finalmente riuniti dopo un’avventura,
quella a Dressrosa, che li aveva visti separati per un periodo relativamente
breve ma che a loro sembrava essere durato più di un biennio. Quello che
volevano era continuare per la loro rotta fino all’isola successiva, l’ennesima
tappa per raggiungere Raftel.
Nami controllava la rotta. Era così sovrappensiero
quella mattina che non era uscita dal suo studiolo nemmeno una volta per
minacciare i “calciatori” di bucar loro il pallone per l’ennesimo violento e
rumoroso rimbalzo. Troppi conti non le tornavano nemmeno un po’: come al
solito, una volta nella Rotta Maggiore, la rotta da seguire era a discrezione
dei naviganti che la decidevano a seconda dei movimenti dei Log-Pose. Rufy
aveva scelto la strada più turbolenta, quella che preannunciava morte e
distruzione, ma la navigazione per il momento era tranquilla: zefiri dolci
sospingevano il brigantino, le vele erano pigramente gonfie, dall’acqua con
salti gioiosi facevano capolino delfini argentei e pesci colorati, nemmeno
fossero stati nell’All Blue di Sanji. “Tutto troppo bello”, pensava la
navigatrice, sospettosa per natura.
Controllava e ricontrollava le cartine, ma essendo
lei stessa un pioniere della topografia non aveva esempi illustri con i quali
paragonare il proprio lavoro e doveva procedere a tentoni; stava ultimando la
cartina di Dressrosa e aggiungendo Zou al suo atlante personale quando un grido
la distrasse più di quanto avrebbero fatto le pallonate:
– Terra! Terra a dritta! –
La voce baritonale di Zoro sembrava scuoterle le
spalle, come a ridestarla, e si precipitò all’aperto. Con il mollettone per i
capelli in bocca salì le scale che portavano al ponte di prua e, giunta accanto
a Rufy, si sistemò la chioma in una crocchia disordinata, con le ciocche
ondulate e ribelli che danzavano attorno alla testa. Appena vide che aveva le
mani libere, Franky le passò il cannocchiale d’ottone.
– Mi sembra ancora lontana – azzardò il cyborg,
serio.
– Con questo vento arriveremo lì per domani
mattina, sul tardi – confermò Nami. – Il vento non è a sfavore, ma le correnti
ci portano troppo verso est. – disse.
– E se la raggiungessimo con la Mini Merry? –
propose Rufy. – È più veloce della Sunny!
– No! – esclamò categorica Nami, irritandosi e
rifilando a Rufy una botta in testa con il giornale del giorno arrotolato – Hai
scelto la rotta più pericolosa, ti ricordi?! Arriveremo in quell’isola tutti
insieme, qualsiasi cosa ci sia laggiù io non intendo rischiare la vita perché
mezzo equipaggio non poteva aspettare qualche ora! Chiaro?! –
Come arringa parve a tutti convincente, e Rufy non
obbiettò, limitandosi a fissare l’isola in lontananza dal suo punto
d’osservazione preferito, la testa della grande polena a forma di leone.
Ognuno, in vista dello sbarco che sarebbe avvenuto
l’indomani, si preparò al meglio: Sanji in cucina si stava organizzando per
preparare i suoi famosi cestini, Nami osservava il profilo dell’isola
imprimendoselo in memoria per i successivi disegni. A tendere l’orecchio, si
sarebbe potuta sentire la mola che affilava le lame di Zoro e di Brook, e
Franky in officina che batteva e batteva chissà qualche chiodo, perfezionando
qualche arma che avrebbe sorpreso tutti di lì a poco. Usop controllava i
rifornimenti di semi velenosi con le mani tremanti (ma era per uno sbalzo di
pressione, mica per la paura!).
– Chi scenderà a terra, oltre a Rufy? – domandò nel pomeriggio
Usop, che già si era messo a capo del drappello che avrebbe sorvegliato la
Thousand Sunny mentre altri sarebbero andati in esplorazione. Il sole si
abbassava placido sul mare, e si erano tutti ritirati sottocoperta perché fuori
spirava un vento gelido, segno che si stavano avvicinando ad un’isola autunnale
o addirittura invernale.
– Io, Zoro e Nami. – rispose Franky accordando la
propria chitarra, seduto su uno dei divanetti della sala dell’acquario.
– Come tieni le dita? – domandò lo scheletro
canterino, indicando le dita del carpentiere sulla tastiera della chitarra. O
meglio: indicando le dita delle manine bioniche che uscivano dalle enormi
mani metalliche che il carpentiere si era impiantato, che premevano
le corde formando un accordo che nemmeno lui, musicista, aveva mai visto.
– Oh, questo – arrossì Franky – È il sol…
non sono mai riuscito a farlo come tutti!
Brook era il musicista, su questo non ci pioveva, e
il suo talento era indubbio; ben pochi erano gli strumenti che non sapesse
suonare e la sua età avanzata gli dava un’esperienza in merito che nessun altro
compagno poteva vantare. Però anche Franky sapeva suonare la chitarra, e spesso
succedeva che suonassero insieme, anche se la formazione accademica dello
scheletro spesso cozzava contro l’autodidattismo del cyborg.
– Oh, Franky! – gioì Chopper – Sei stato bravissimo
ad imparare da solo… sei un genio! io senza il Dottor Hillik e la Dottoressa
Kureha sarei riuscito a combinare ben poco!! – disse estasiato.
– Autodidatta vuol dire che sai poco, e quel poco
che sai probabilmente è pure sbagliato! – rispose schivo il carpentiere
arrossendo di nuovo come un bambino al complimento.
– Sciocchezze – si intromise Robin, di passaggio
verso la cucina dove avrebbe messo su del caffè. Franky sollevò lo sguardo in
direzione dell’archeologa, ma lei era già sparita.
– Esattamente, Robin cara! Ora se cortesemente
potrei vedere le tue mutan-
– Com’era l’accordo, Brook? – domandò il cyborg con
voce leggermente più alta. Ci fosse stata Nami, un bel pugno in testa non
gliel’avrebbe levato nessuno, ma Franky era decisamente più pacato; senza
contare che un suo pugno avrebbe polverizzato quelle ossa.
D’un tratto, la nave fu scossa da un sobbalzo che
fece andare a tutti il cuore in gola dalla sorpresa; Robin tornò nella sala dell’acquario
dov’erano gli altri, ma nessuno ebbe tempo di aprir bocca che un secondo
sussulto, più forte, fece cadere dalla sedia Usop e Brook.
– Un Re del Mare! – esclamò Franky alzandosi –
Stasera super-grigliata! – e infilandosi gli occhiali da sole corse in coperta.
Quando il carpentiere fu all’aperto, vagò con lo
sguardo per il mare attorno alla Sunny senza però scorgere pinne né squame.
– L’hai sentito?! – gli urlò Sanji scendendo agile
dalla sartia della vela maestra.
– Certo! – rispose Franky – Dov’è? – chiese,
immaginando che grazie all’Ambizione dell’Osservazione i suoi compagni avessero
già individuato il nemico.
– Non lo vedo! – dichiarò Zoro arrivando da poppa e
fermandosi al centro del ponte. Il terzetto fu raggiunto da Rufy.
Il Capitano aprì la bocca per dire qualcosa, ma la voce
gli morì in gola quando un potente “crack” arrivò da sotto i loro piedi,
facendo tremare il robustissimo legno della nave.
– Non è un Re del Mare – ringhiò Sanji
affacciandosi al parapetto di prua.
– E secondo te che sarebbe?? – rispose Zoro
cercando di prendere in mano la situazione.
Rufy avrebbe dato battaglia all’istante, di
qualsiasi cosa si fosse trattato, ma combattere contro qualcosa che non si può
vedere e che per di più è sotto il mare era un tantino al di sopra anche delle
sue capacità.
– E se fosse un sottomarino come quello di Traffy? –
azzardò il capitano.
– Sarebbe un super-problema perché non abbiamo
cannoni che puntino in basso – si rammaricò Franky.
– Rufy, l’Ambizione, cazzo! – risolse Sanji.
Cappello di Paglia annuì, e l’attimo dopo quel raro
potere che lo caratterizzava scosse il mare come un’onda sismica; qualche
secondo più tardi, vennero a galla pesci più o meno grandi che avevano
risentito dell’urto.
I pirati si guardarono a vicenda rilassandosi, ma
un altro colpo sordo investì la nave, facendola beccheggiare violentemente
verso tribordo.
– Non ha funzionato?! – esclamò sorpreso Zoro.
Nami uscì sul ponte furibonda: la nave le
continuava a scricchiolare sotto i piedi, il mare si stava increspando all’improvviso
senza che il vento fosse minimamente cambiato.
– Franky! Coup de burst! Dobbiamo levarci da qui!! –
prese le veci del capitano.
– Agli ordini – il carpentiere corse ad azionare il
meccanismo richiesto, quando un sinistro scricchiolio percorse la nave dalla
poppa alla prua, e improvvisamente il mondo per i ragazzi sembrò inclinarsi,
erano sul punto di ribaltarsi.
All’interno della nave Nico Robin aveva intessuto
con i propri poteri una rete di braccia e di mani che Chopper, Brook e Usop
stringevano gridando di terrore.
Il pavimento della sala si era spaccato e l’acqua
zampillava dalle crepe, la parete dell’acquario minacciava di cedere inondando
tutta la sala.
– Cercate di risalire in coperta! – disse imperiosa
l’archeologa sovrastando le voci isteriche. Altre mani e altre braccia
spuntarono in un turbinio di petali, trasportando tutti ai piani superiori.
Arrivarono sul ponte inclinato ormai quasi di
quarantacinque gradi, tra grida di disperazione e di rabbia; la Sunny sembrava
sconvolta da un terremoto che proveniva da sotto al mare, e la prima cosa che
Robin sentì quando fu all’aperto fu la voce di Franky che diceva: – IL SISTEMA
DI COMANDO È ANDATO! – il che, pensò, significava che sarebbero morti tutti.
– Spieghiamo le vele! –
Ma proprio mentre Zoro e Usop stavano salendo su
per le sartie, con un crepitio assordante l’albero maestro si spezzò a metà
altezza e cadde all’indietro, sull’osservatorio, con un’esplosione di vetri che
graffiarono il cuore dei Mugiwara.
– Il dock system! – risolse Franky – Lo Shark Submerge
e la Mini Merry hanno abbastanza potenza per fare da rimorchiatori. Se
raggiungiamo quella zona – indicò con il dito un punto verso est, dove il mare
era molto più calmo – Possiamo salvarci! –
In quel momento, con un rumore sordo di travi spezzate
e metallo incrinato, l’erboso ponte principale si spezzò in due, la prua e la
poppa si allontanarono, il mare mugghiava minaccioso intorno a quella che da
brigantino stava diventando una bara.
Monkey D. Rufy decise, all’improvviso e d’impulso
come suo solito; una decisione che mai avrebbe voluto dover prendere, e che mai
si sarebbe aspettato di dover affrontare. Non così presto almeno, e non contro
un nemico invisibile che stava facendo a pezzi la loro nave sotto i loro occhi,
senza che riuscissero a farci niente. Lui amava viaggiare libero, e amava
rincorrere il suo sogno; la Thousand Sunny era l’unico mezzo al mondo che gli
avrebbe permesso di arrivare a Raftel. Ma altrettanto preziosi erano i suoi
amici, senza i quali non avrebbe avuto senso arrivare alla fine della Rotta
Maggiore. Allungò un braccio verso la cima del moncone dell’albero maestro,
strappando la vecchia bandiera dal pennone.
– ABBANDONARE LA NAVE! –
Tutti si voltarono di scatto verso di lui, ma il
giovane capitano strinse i denti e continuò: – Manovra d’emergenza! Tutti nel
dock system! ABBANDONATE LA NAVE! –
– Rufy, non possiam-
balbettò Nami spaventata.
– Nami. – Zoro le
mise una mano sulla spalla, interrompendola. Sapeva che Rufy stava accantonando
qualsiasi sogno per dare la precedenza alle loro vite. – Ognuno prenda il
proprio compagno! – tuonò lo spadaccino.
Quella che Rufy
aveva chiamato “manovra d’emergenza” era qualcosa ideato di notte, quasi in
segreto, per timore che chissà qualche forza sovrannaturale lo venisse a sapere,
forse per antica scaramanzia, forse perché i Mugiwara non avevano nessun
piacere nell’affrontare la questione. In caso di naufragio, ogni membro che non
aveva mangiato un Frutto del Diavolo doveva occuparsi di un compagno che,
invece, non era refrattario all’acqua di mare. Zoro, sia per una questione di
fisicità che per la propria lealtà, si sarebbe fatto carico di Rufy; Sanji,
nonostante avrebbe voluto soccorrere una delle sue dee, alla fine acconsentì ad
occuparsi di Brook; Chopper, che era il più leggero, sarebbe stato aiutato da
Usop mentre a Nico Robin avrebbe pensato Franky. Nami rimaneva spaiata, ma
Franky e Sanji si erano accordati affinché fosse aiutata da loro. Insomma,
nessuno doveva rimanere isolato.
Purtroppo era venuto
il momento di usare quel piano.
Mentre tutti
prendevano per mano il compagno assegnatosi, il sole ad occidente si oscurò, e
una grande ombra venne proiettata sui pirati.
Tutti si girarono
all’improvviso e videro un’immensa parete d’acqua che torreggiava sulla nave.
– È un’onda di maremoto
– sussurrò Nami pallida.
– Non ce la faremo… –
le fece eco Usop.
Si estendeva per
chilometri, e nel panico generale non si erano accorti della profondità del
mare che si era improvvisamente ridotta. La sua cresta era bianca e lontana,
più in alto del pennone superstite, il suo colore blu petrolio. Un velo di
acqua e di morte che avrebbe avvolto i corpi dei naviganti come un sudario.
Un silenzio di tomba
gelò la nave, Zoro corse a prua, sguainò le spade, saltò.
– NO! ZORO! –
Le spade lacerarono l’onda,
ma non poterono nulla contro le due cortine d’acqua che si abbatterono
pesantemente a destra e sinistra della nave. Il legno si spezzò, le vele si
lacerarono e tutto si tinse di nero davanti agli occhi dei coraggiosi pirati.
Dietro le quinte...
Yeee sono tornata! Ce l'ho fatta ad aggiornare! Mi scuso per il ritardo, purtroppo sono in periodo d'esame e ho altre -troppe altre- fanfiction per la testa.Spero che il capitolo vi sia piaciuto, se notate errori o refusi non vi fate scrupolo a farmelo notare nelle recensioni.
Se l'affondamento della Sunny vi sembra forzato e innaturale, e non avete capito cosa diavolo sia successo, siete in buona compagnia perché nemmeno i poveri Mugi l'hanno capito. Ma tutto si spiegherà a tempo debito, non preoccupatevi: una ragione c'è, e tiene conto della famosa resistenza dell'Albero Adam.
Vi dò la buonanotte!
Yellow Canadair
Edit: l'idea della maglietta con la scritta "Mugiwara do it better" e la conseguente scena iniziale con Usop è ispirata a questa fanart, la cui autrice è Screaming_Banshee.