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Autore: vannagio    27/04/2015    7 recensioni
«Hai telefonato al tuo amico cacciatore?», chiese Sam.
«Seeh».
«E che ti ha detto?».
«Mi ha dato l’indirizzo di un tatuatore. Mi ha assicurato che è uno dei migliori qui a New York. Un tipo che fa il suo lavoro senza fare domande, non chiede cifre esorbitanti e ha lo studio in una zona abbastanza defilata. Meglio di così…».
Diede un morso al cheeserbuger senza perdere di vista la cameriera. Sam annuì.
«Bene. Sbrigati a mangiare, allora. Voglio andarci stasera, prima che chiuda».
Dean spostò lo sguardo su Sam, sbattendo un paio di volte le palpebre, come qualcuno che è appena rinvenuto da un incantesimo. Mandò giù il boccone e sbuffò.
«Veramente…». Ammiccò in direzione della cameriera. «Avevo altri programmi per la serata».
Sam roteò gli occhi.
«Scordatelo. Non mi muoverò di un singolo passo prima di avere quel tatuaggio. Siamo stati incoscienti, avremmo dovuto farlo subito dopo l’incidente in Minnesota con Jo».

[Storia ambientata durante la seconda stagione, dopo gli eventi dell'episodio 2x14 "Born Under A Bad Sign"]
Genere: Avventura, Commedia, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Seconda stagione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Williamsburg, New York




Capitolo 3



Per quanto ne sapeva Dean, esistevano due categorie di donne: quelle dalle quali scappi a gambe levate subito dopo averci fatto sesso, possibilmente mentre stanno ancora dormendo, perché se ti beccano a letto è finita, ti si appiccicano addosso come cozze e poi spiegare loro che, sai, non posso proprio restare, mio fratello ha bisogno di un babysitter a tempo pieno, diventa un cazzo di problema; quelle con le quali ti puoi permettere di restare a riprendere fiato per qualche ora e, perché no, eventualmente fare un secondo round, perché loro hanno capito fin dalla prima occhiata che razza di figlio di puttana sei e non si aspettano nulla da te se non dell’ottima attività fisica. Una volta Dean aveva esposto la sua teoria a Sam, che ovviamente da chierichetto quale era lo aveva liquidato con un’occhiata sdegnata. O forse si era offeso per la parte del babysitter, chi poteva dirlo?
«Ho fame».
Dean sollevò una palpebra. Darla si era alzata, vestita soltanto di tatuaggi, e adesso stava contemplando l’interno del frigorifero. Non ci erano nemmeno arrivati, alla camera da letto. Si erano accontentati del tappeto del soggiorno. La serata comunque era ancora giovane.
«Dopo una scopata mi viene fame», disse lei. «È strano che non sia ancora obesa, in effetti. A te capita mai?».
«Di solito dopo una scopata dormo o scappo, ma chi sono io per dire no a un pasto gratis?».
«Anche se si tratta di una mezza pizza pepperony dell’altro ieri?».
«Basta che non ci sia l’ananas, va bene tutto. E poi sarebbe un peccato buttarla».
Darla tornò indietro con una bottiglia di birra e il cartone della pizza. Quando glielo aprì davanti al naso, l’odore del salame piccante lo svegliò completamente.
«Così sei uno che scappa», disse Darla, leccandosi le dita sporche di salsa. «Ci avevo visto giusto».
Dean aggrottò la fronte, la guance gonfie di pizza.
«Uhm?».
Lei sorrise.
«Per me ci sono due tipi di uomini: quelli che scappano dal senso di colpa e quelli che rimangono per appagare il loro ego».
«Non è vero che scappo! Sono ancora qui, o sbaglio?».
Dean azzannò un altro pezzo di pizza. Darla scosse la testa.
«Questo perché io appartengo al genere di donna che non fa sentire in colpa gli uomini che scappano».
Il pezzo di pizza gli andò di traverso, Darla gli assestò una pacca sulla schiena.
«Che c’è? Ho detto qualcosa che ti ha turbato?».
Dean tossì un paio di volte e bevve un sorso di birra, prima di rispondere.
«No, è che ho appena capito che se fossi nato donna, sarei te».
Darla scoppiò a ridere.
Il cartone di pizza venne ripulito molto velocemente. Dean stava giusto considerando l’idea di andare a testare la camera da letto, quando il cellulare di Darla prese a squillare.
«Pronto, JD, dimmi. Ehm… Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Scusa, eh? Ma saranno anche cazzi miei, no? Che significa è importante? Che è successo? Va bene, va bene, è qui, te lo passo».
Quando Darla gli porse il cellulare, Dean inarcò un sopracciglio.
«Che c’è?».
Lei fece spallucce.
«Vuole parlare con te».



«Pronti?».
«È meglio se togliete le magliette, state più comodi». Tre paia di occhi si posarono su Darla: il primo era divertito, il secondo un misto tra l’imbarazzato e lo scandalizzato, il terzo esasperato. Lei ammiccò. «Lo dico per voi…».
«Oooh-issa!».
Dean, Sam e JD sollevarono il grosso armadio dal pavimento e lo riportarono in posizione eretta contro la parete. Gli oggetti al suo interno si rimestarono come in un frullatore, producendo un fracasso infernale.
Dean si sfregò le mani per scrollarsi via la polvere, mentre tornavano nella sala d’aspetto del negozio.
«Così una bolla luminosa ha inghiottito un uomo fatto di ombra con un cappello da cowboy in testa e una cicatrice sulla guancia?», chiese a JD. «Ti rendi conto di quanto tutto questo suoni assurdo?».
Lui lo fulminò con un’occhiataccia.
«Disse il tizio che di mestiere faceva il Ghost Whisperer».
«Ragazzi, non litigate», intervenne Sam. «Qui il punto è un altro. Se JD è stato attaccato da un uomo, vuol dire che non è Juno il fantasma che stiamo cercando e che siamo di nuovo al punto di partenza».
Darla saltò a sedere sul bancone e accavallò le gambe.
«E che io ci ho rimesso un braccialetto per nulla».
Sam si rivolse a JD.
«Deve esserci qualcosa che ci è sfuggito. È successo qualcosa in questo negozio? Una morte violenta, magari. Tipo, non so, una rapina finita male?».
JD scosse la testa.
«No».
«Non che lui sappia», aggiunse Darla.
Dean aggrottò la fronte.
«Che intendi?».
Darla si accese la sigaretta ed espirò una lunga boccata di fumo, fissando JD.
«Se non glielo dici tu, glielo dico io».
«Dirci cosa?», chiese Sam.
JD esitò ancora un istante.
«Suvvia, non è il momento di fare l’orso», lo incalzò Darla.
«Va bene, va bene». Si sedette sul divano e si prese la testa tra le mani. «Quello che Darla intende… questo negozio, prima di passare a me, era di mio nonno Wile. E lui… diciamo che non è mai stato uno stinco di santo. Era il capo di una banda di motociclisti, le cui attività potrebbero essere state un pizzico illegali».
Dean incrociò le braccia al petto.
«Quel pizzico che basta a rendere fondata l’ipotesi che qui sia stato ucciso qualcuno?».
JD si tirò i capelli indietro, sospirando.
«Sì».
Dean fischiò.
«Be’, congratulazioni, JD! Oltre che un negozio di tatuaggi, hai ereditato un bel fantasma incazzato. Probabilmente assetato di vendetta».
«Tu sai di chi potrebbe trattarsi?», chiese Sam. «Wile ti ha mai accennato qualcosa?».
JD fece no con la testa.
«Mi ha sempre tenuto all’oscuro, non voleva che entrassi nel suo giro».
Dean roteò gli occhi.
«E il premio per il miglior nonno dell’anno va…».
Darla schiacciò il mozzicone di sigaretta nel posacenere e saltò giù dal bancone.
«In compenso… conosci chi potrebbe saperlo».



L’Impala si fermò accanto a una lunga fila di motociclette, per lo più Harley Davidson. Dean fischiò, ammirato. Aveva sempre preferito le auto, ma doveva ammettere che le moto avevano dalla loro un certo fascino selvaggio che le auto non avrebbero mai potuto eguagliare. L’insegna al neon del Coyote Club illuminava un gruppetto di biker tatuati, radunato di fronte all’ingresso, dall’aria poco raccomandabile. Sotto i gilet di pelle si intravedevano dei rigonfiamenti piuttosto eloquenti.
Dean si rivolse a JD attraverso lo specchietto retrovisore. Era seduto sul sedile posteriore insieme a Darla.
«Tutti tuoi clienti, immagino».
«Già».
Sam stava fissando l’entrata del locale con la faccia dello Stitico Tormentato.
«E ci faranno entrare senza problemi?».
«Voi lasciate parlare me».
JD smontò dall’auto. Sam lo imitò immediatamente, Dean invece si voltò verso Darla, che stava giochicchiando col cellulare con aria annoiata.
«Tu non vieni?».
«No, tesoro, non sono la benvenuta lì dentro».
«Che hai fatto? Hai ammazzato il gatto a qualcuno?».
Il sorriso di Darla era enigmatico.
«Qualcosa del genere».
Mentre si incamminavano verso l’ingresso, attraversarono la distesa di motociclette e passarono a fianco ad una magnifica Sportster 883 rossa fiammante. Ipnotizzato, Dean allungò una mano per accarezzarne il serbatoio, ma prima che i suoi polpastrelli potessero sfiorare il metallo della carrozzeria, JD lo trattenne per il polso.
«Vuoi perdere la mano per caso?». Lanciò un’occhiata nervosa al gruppetto di biker. Effettivamente due di loro stavano guardando in quella direzione e non sembravano in vena di fare amicizia. JD lasciò andare il braccio di Dean, ma lo ammonì con lo sguardo. «Questa gente attacca briga per molto meno, vedete di fare i bravi».
Sam annuì, serio come la morte. Dean si limitò a fare spallucce.
L’interno del Coyote Club era pieno come un uovo: energumeni barbuti vestiti di pelle nera e strafighe in abiti succinti ovunque. Sul palco della band, un The Rock leggermente più pallido dell’originale stava intonando una straziante Killing Me Softly. Dean scosse la testa, schifato.
«L’unica cosa che sta uccidendo, quello, è la canzone, e nemmeno tanto dolcemente».
Intanto JD si faceva strada nella calca di gente come Mosé nelle acque del Mar Rosso. Al suo passaggio riceveva pacche sulle spalle dai più espansivi e cenni del capo dai più timidi. Raggiunsero il bancone con la sensazione di aver attraversato la Manica a nuoto.
«Mi sembra di essere finito in un episodio di Sons of Anarchy», disse Dean. «Oh, salve, dolcezza!».
La cameriera gli rivolse un sorriso malizioso.
«Cosa prendete, ragazzi?».
Dean si appoggiò al bancone e ghignò.
«Te, tesoro, se mi dici a che ora stacchi».
Prima che la ragazza potesse aprire bocca, venne spintonata bruscamente di lato da una vecchia ossuta dall’aria arcigna e dai lunghi capelli grigi.
«Occupati dei tavoli, qui ci penso io», le abbaiò contro. Letteralmente.
Dean diede di gomito a Sam.
«Che ti dicevo? C’è anche Gemma Teller-Morrow. Solo un po’ più incartapecorita».
Se uno sguardo avesse potuto uccidere… Dean indietreggiò involontariamente di un passo.
«Chi cazzo è questo coglione che ti porti dietro, JD?», chiese la vecchia. «Non mi piace, mi ricorda mio marito».
«Perché? Chi è tuo marito?», chiese Dean.
La vecchia indicò con un cenno del mento il tavolo più vicino al palco.
«Il porco che sta palpando il culo alla cameriera».
«Ah».
JD si frappose tra Dean e gli occhi assassini della vecchia.
«Halona, avremmo delle domande da farti su Wile… è importante».
Lei incrociò le braccia al petto. Aveva un coyote tatuato sulla spalla.
«Te l’ho fatta io per prima, una cazzo di domanda».
«Siamo degli amici di JD», intervenne Dean.
Lo sguardo di Halona era impassibile.
«Non stavo parlando con te, coglione. Anzi, con te non ci parlo proprio».
«Quale parte della frase “Lasciate parlare me” non hai capito?», bisbigliò JD a denti stretti.
Sam si schiarì la voce e prese Dean in disparte.
«Ehm… che ne dici di farti un giro?».
«Cosa? Perché? Un giro dove?».
«Perché è chiaro che con te nei paraggi non caveremo un ragno dal buco. Hai appena fatto imbufalire la proprietaria».
«Come fai a dire che è la proprietaria?».
«Il coyote sulla spalla, idiota. Ti prego, fai un favore a tutti e vai a fare compagnia a Darla, sono sicuro che troverete il modo per ammazzare il tempo».
Dean ci pensò su per qualche istante, poi sorrise.
«Giusto. Buona idea».
Da dietro il bancone, Halona sbuffò.
«Ti pareva che quella troietta di Darla non saltasse fuori in qualche modo. Sei proprio spiccicato a mio marito».
Per essere una vecchia decrepita, l’udito le funzionava anche troppo bene.
Qualche minuto più tardi Dean era tornato alla macchina. Prese posto accanto a Darla, sul sedile posteriore.
«Già di ritorno?», chiese lei senza distogliere l’attenzione dal cellulare.
Dean annuì distrattamente, lo sguardo perso nel vuoto. Poi qualcosa andò al suo posto, come nel gioco del tetris, e si voltò a fissarla.
«Per caso ti sei fatta il marito della proprietaria?».
Gli occhi sempre sullo schermo del cellulare. Darla arricciò soltanto un angolo della bocca.
«Le voci corrono velocemente, a quanto pare».
Dean tornò a fissare il vuoto, aggrottando la fronte.
«Sono pazzo io, o lui assomiglia tantissimo a Keith Richards?».
«Aspetta di sentirlo cantare, allora sì che ti sembrerà Keith Richards».
«Cavolo, me lo scoperei perfino io uno con la voce di Keith Richards».
«Vedo che hai colto il punto!». Darla sospirò pesantemente e lanciò il cellulare nella borsa. «Mi annoio. Pomiciamo?».
Lui si strinse nelle spalle.
«Perché no!».



Non appena Dean era uscito dal locale, Sam aveva messo su una faccia da Mea Culpa e, guardando Halona dritto negli occhi, aveva pronunciato le paroline magiche: “La prego di perdonare il comportamento di mio fratello, signora”. Forse era stata la sua espressione contrita, forse erano stati i suoi modi educati, forse perché l’aveva chiamata “signora” con una certa reverenza, fatto sta che Halona aveva abbozzato un accenno di sorriso, cosa che JD le aveva visto fare soltanto due volte da quando la conosceva, e poi aveva detto loro di seguirla fino a un tavolo appartato.
«JD, non pensare che abbia dimenticato la mia domanda», disse lei, mentre si sedevano. «Chi è questa gente che ti porti dietro?».
Sam, a differenza di Dean, aveva capito tutte le parti della frase “Lasciate parlare me” e rimase buono buono in silenzio in attesa che JD si spiegasse.
«Sono miei clienti. Stanno cercando una persona che Wile potrebbe aver conosciuto».
Gli occhi di Halona si strinsero in due fessure sospettose, mentre sondavano il viso di Sam.
«Perché?».
«Be’, loro…».
«Non l’ho chiesto a te, JD», lo interruppe Halona, continuando a fissare Sam.
Merda, pensò, ma Sam non sembrava essersi scomposto. JD sperava con tutto il cuore che non tirasse fuori la storia dei fantasmi, perché altrimenti erano fottuti.
«Abbiamo un conto in sospeso con lui», disse semplicemente.
«Che tipo di conto in sospeso?».
«Non posso dirlo».
«Allora io non posso aiutarvi».
Il contatto visivo tra Halona e Sam non si era interrotto nemmeno per una frazione di secondo. JD avrebbe voluto avere una confezione di popcorn con sé per godersi la scena. In compenso poteva fumarsi una sigaretta: frugò nella tasca della giacca e si ritrovò in mano pacchetto, zippo e un anello.
«Signora, capisco benissimo il motivo della sua diffidenza nei miei confronti. Probabilmente mi crede uno sbirro e anche se posso assicurarle che non lo sono, so che la mia parola vale meno di niente in questo posto e che ogni tentativo di convincerla del contrario sarebbe inutile. So anche, però, che persone come lei considerano la loro gente come una famiglia e che la famiglia si difende a costo della vita. Mio fratello ed io siamo gli ultimi rimasti della nostra, di famiglia, i nostri genitori sono morti per mano dello stesso individuo e adesso siamo a caccia di vendetta».
L’espressione di Halona era indecifrabile.
«L’uomo che Wile potrebbe aver conosciuto… pensi sia lo stesso uomo che ha ucciso i vostri genitori?».
Nascondendosi dietro la sigaretta, JD cercò di suggerire con lo sguardo a Sam che era meglio non esagerare con le minchiate.
«No, ma… lavorano dalla stessa parte, diciamo così».
Ecco, bravo.
Halona incrociò le braccia al petto.
«Hai un nome?».
Sam scosse la testa.
«No, purtroppo. Però… ecco, porta un cappello da cowboy e ha una cicatrice sulla guancia destra. Ricorda nessuno che potrebbe corrispondere a…».
«Killer Joe. Joe Cooper. Un sicario professionista. Dubito, però, che possa esserti utile nella tua caccia, ragazzo, non se ne sa più nulla da almeno trent’anni». Halona inarcò un sopracciglio. «Perché non mi sembri sorpreso?».
«Perché lo sospettavo».
«Non capisco come un fottuto morto possa aiutarti…».
«Lei ha i suoi segreti, io i miei. Wile conosceva questo Killer Joe?».
Ahia, la replica di Sam era stata troppo brusca. Gli occhietti neri di Halona erano nuovamente sospettosi.
«Sì e no», rispose infine.
JD picchiettò la sigaretta sul posacenere.
«Che intendi?».
«Che lo conosceva, ma che non erano… culo e camicia, diciamo così».
Sam annuì.
«Erano nemici».
«Nulla di personale, Killer Joe era stato pagato per fare fuori Wile. Wile ha avuto una soffiata e… be’, Killer Joe è scomparso prima che potesse portare a termine il lavoro».
«Che ne è stato del corpo?».
«Corpo? Sturati le orecchie, ragazzo. Killer Joe è scomparso. Puff!».
«Lei ha detto…».
«Non ho proprio detto un cazzo, ragazzo».
«Ma…».
«Ma un paio di palle». Gli occhi di Halona ardevano, adesso. «Anche se fossi così rincoglionita da ammettere che Wile abbia fatto fuori Killer Joe, e ficcati in quella graziosa testolina che non l’ho fatto, mi devi spiegare a cosa cazzo ti serve sapere che fine ha fatto il suo fottuto cadavere».
Sam si strinse nelle spalle.
«Devo essere sicuro che sia morto. E se lei sostiene che è solo scomparso, capisce bene che a me il dubbio rimane».
Halona sbuffò.
«Sai dove te lo puoi ficcare il tuo dubbio?».
Sam sospirò.
«Okay, facciamo così. Le racconterò qualcosa su mio fratello e me di davvero compromettente, qualcosa che potrebbe metterci nei guai. E in cambio lei mi dirà quello che voglio sapere. È equo, no? Un peccato a testa, così nessuno potrà scagliare la prima pietra».
Il ghigno di Halona diceva che il guanto di sfida era stato colto.
«Sentiamo, sono proprio curiosa di sentire cosa possa aver mai fatto di tanto compromettente un angioletto come te. Rubare le caramelle, forse».
Non i fantasmi, non i fantasmi, pensò JD.
«Siamo ricercati per omicidio e rapina in banca a mano armata con sequestro di persona dal FBI. Dean e Sam Winchester. Milwaukee, Wisconsin. Lo scorso gennaio. Può controllare, se vuole. Sono sicuro che ha i suoi modi per ottenere informazioni sulle persone. Sono state distribuite anche delle foto segnaletiche in giro».
Per poco JD non si strozzò con la sigaretta. Halona invece era un blocco di marmo.
«Ne ho sentito parlare, me lo ricordo bene, perché ho pensato “Winchester come il cazzo di fucile?”».
Sam sorrise.
«Lo considera un prezzo equo per le informazioni di cui ho bisogno?».
Halona rubò la sigaretta a JD e le diede un tiro. Fumava solo una volta ogni morte di papa.
«Dobbiamo parlare con Lester. Lui sa tutto di questa storia. Se gli offrite da bere, vedrete che canterà neanche fosse Cher». Indicò un tavolo nell’angolo più inculato del locale. «Si trova laggiù».
Poco dopo, stavano già seguendo Halona attraverso il locale a una decina di passi di distanza da lei.
«La solfa sulla famiglia da dove ti è uscita?», domandò JD.
«Ieri sera mio fratello mi ha costretto a rivedere Fast and Furious». Sam lo spiò di sottecchi. «Non mi chiedi nient’altro?».
«Dovrei?».
«Una persona normale sarebbe spaventata a morte, al tuo posto».
JD scansò un energumeno barbuto che sembrava appena evaso da un carcere di massima sicurezza e sorrise.
«Hai visto che razza di gente frequento, no? E avrai capito che razza di persona era mio nonno. Con gli anni ho imparato che meno domande faccio, meglio è. E poi se tu e Dean fosse stati davvero degli assassini senza scrupoli, non credo che vi sareste disturbati ad aiutare Darla e me con questa storia assurda dei fantasmi. Anzi, proprio perché fate il lavoro che fate, penso che siate ricercati ingiustamente. O che almeno le cose non siano andate come sembra. Dato che non esiste un sindacato dei Ghost Whisperers, di sicuro non lo fate per la paga». JD gli sorrise di nuovo. «O sbaglio?».
Sam annuì.
«In effetti, no».
Raggiunsero il tavolo di Lester, che sorseggiava il suo whiskey col mignolo all’insù. Era un uomo grigio e rattrappito, con qualche striatura di arancio tra i capelli e i baffi ingialliti dal fumo e dall’alcool. La bottiglia che aveva di fronte era vuota e nel vedersi comparire davanti Halona con un Jack-Daniel’s (offerto gentilmente da Sam; o, meglio, dal Signor Plant, come recitava la sua carta di credito), esultò.
«Stavo giusto per venire a chiederti un’altra bottiglia, ma non credo di potermi permettere quella».
«La offre questo signore», disse Halona, additando Sam. «In cambio di qualche domanda».
«Domande a cui posso rispondere?», chiese lui.
«Altrimenti non lo avrei portato qui».



Se mai un giorno, un giorno molto remoto e molto lontano, gli fosse venuto qualche dubbio sui suoi gusti sessuali, ecco, quel giorno remotissimo e lontanissimo avrebbe ripensato a Darla e si sarebbe detto che sì, era robustamente eterosessuale.
Aveva la bocca di burro, quella ragazza. Dean ci affondava dentro la lingua e gli tornavano in mente tutte le cose che lei gli aveva fatto qualche ora prima e che avrebbe voluto che lei gli rifacesse, subito, adesso, immediatamente, sul sedile posteriore dell’Impala, con quella bocca di burro. Giusto il tempo di trovare un vicolo buio…
Toc, toc, toc.
Giuro che se è Sam…

Dean lasciò a malincuore la bocca di Darla, che era rossa e gonfia e umida e… okay, datti una calmata. Si voltò verso il finestrino e il brutto muso con cui si ritrovò a tu per tu fu il getto di un idrante sull’incendio per i suoi bollenti spiriti. Abbassò il vetro, inarcando un sopracciglio. Era il tizio che somigliava a The Rock, quello che uccideva dolcemente le canzoni.
«Sì?».
«Devo parlarti».
«Sarei un tantino occupato, in questo momento».
«Scendi, o ti spacco la macchina».
Dean sorrise a Darla, che sorrise a sua volta.
«Torno tra un attimo, tesoro».
Si richiuse la patta dei pantaloni e smontò dall’auto. Anche in posizione eretta, The Rock lo superava di circa cinque spanne. Dean gli si piazzò di fronte a gambe larghe e raddrizzò la schiena nel tentativo di guadagnare qualche centimetro, ma perfino così, se non alzava lo sguardo, si ritrovava a fissargli i capezzoli. Che sporgevano da sotto la maglietta attillata come bottoncini, tra le altre cose.
«Allora? Di cosa volevi parlarmi?».
«Ho sentito dire che avevi da ridire sul mio modo di cantare».
Dean si strinse nelle spalle.
«Be’, più che cantare sembrava che stessi sgozzando un maiale, perciò…».
Il pugno si scagliò contro il suo mento all’improvviso, ma Dean riuscì a pararlo con il braccio sinistro e a mandare a segno un destro nello stomaco di The Rock. Che non batté ciglio. E sorrise.
Oh, merda.



«Versa, ragazzo, versa. Il caro vecchio Jack è un toccasana per la memoria».
Sam non ne era tanto convinto, mentre gli riempiva il bicchierino. JD si era riacceso un’altra sigaretta e giochicchiava con un anellino e uno zippo sovrappensiero. Halona assisteva alla conversazione, silenziosa ma vigile.
«Allora… era, se non sbaglio, il millenovecentosettantadue». Lester mandò giù il primo sorso di whiskey, sempre col mignolo che puntava in alto. C’era una parola tatuata su ogni lato, in una lingua che Sam non conosceva. «In quell’anno era in corso una piccola faida tra la nostra banda a la famiglia La Russa. Wile ed io fummo coinvolti in una sparatoria in cui rimase uccisa anche la moglie del loro boss. Lei non c’entrava niente, si trovava lì per sbaglio».
Il bicchierino era di nuovo vuoto, Sam lo fece tornare pieno immediatamente.
«Di chi era il proiettile che la uccise?», chiese JD.
Lester alzò lo sguardo nella sua direzione. Le sue iridi erano liquide e avevano lo stesso colore del whiskey. Forse perché ne beveva troppo, pensò Sam.
«Non lo so. Non l’abbiamo mai scoperto». Lester bevve un altro po’. «Nel dubbio i La Russa pensarono fosse più semplice fare fuori entrambi. Ma era gente che ragionava alla vecchia maniera, occhio per occhio, dente per dente, perciò doveva schiattare anche Gina, la moglie di Wile. Grazie a Dio non mi è mai venuto in mente di sposarmi!». La risata di Lester era pastosa e sapeva di alcol fermentato. «La polizia però era su di giri, così per non correre rischi decisero di…», mimò le virgolette, «appaltare l’opera a qualcun altro».
«Killer Joe», disse Sam.
Lester annuì.
«Ironia della sorte, era un poliziotto che arrotondava facendo il sicario nel tempo libero. La sua specialità era far passare i suoi omicidi per banali incidenti. E si faceva pagare sempre a lavoro concluso. Quei pochi che avevano tentato di fregarlo avevano fatto una brutta fine. Una volta usò una coscia di pollo per…». Lester chiuse gli occhi e storse la bocca in una smorfia. «Lasciamo stare, non ho voglia di vomitarvi in faccia. In ogni caso, con le voci che cominciarono a girare su di lui, a nessuno venne mai più in mente di fotterlo».
L’auto di Darla aveva preso fuoco e JD per poco non era rimasto schiacciato da un armadio, pensò Sam. Viste dall’esterno sarebbero sembrate delle morti accidentali. Il modus operandi coincideva.
«Chi vi ha fatto la soffiata?», chiese JD.
«Avevamo una talpa. Sapevamo luogo, giorno e ora. Lo abbiamo aspettato nel negozio di tatuaggi e lo abbiamo colto di sorpresa».
Sam pendeva dalla sua bocca.
«Lo avete ucciso?».
Lester posò il bicchierino sul tavolo e lo guardò.
«Per sapere che fine ha fatto il cadavere, mi devi garantire un’altra bottiglia di Jack».
Per fortuna Dean non c’era, altrimenti avrebbe mandato tutto a puttane dando a Lester dello scroccone. Sam si limitò a versargli altro whiskey.
«Affare fatto».
«Bravo, ragazzo». Questa volta vuotò il bicchiere in un sorso solo. «Lo abbiamo ucciso, sì. Cos’altro potevamo fare? Quel bastardo ci avrebbe dato la caccia fino in capo al mondo, aveva fama di prendere molto seriamente il suo mestiere. Poi Wile si è occupato del cadavere».
Sam strinse la presa sulla bottiglia. Era morto nel negozio: un altro tassello che andava al suo posto.
«Che ne ha fatto?».
«Non lo so, dico sul serio. Non me lo ha mai detto. “Fidati di me, nessuno lo troverà”. Era un uomo di poche parole, Wile. Se decideva di tenersi qualcosa per sé, non c’era verso di farlo cantare».
«Confermo», dissero Halona e JD contemporaneamente.
Maledizione! Questo è un gran bel problema, pensò Sam. Se non trovavano il cadavere, come avrebbero mandato Killer Joe all’altro mondo? Perché ormai non c’era dubbio che il fantasma fosse suo. Voleva portare a termine il lavoro per il quale era stato ingaggiato. L’unico interrogativo rimasto era come mai Killer Joe avesse cominciato ad attaccare proprio ora, dopo trent’anni. Forse qualcosa lo aveva svegliato.
Il mozzicone di sigaretta mandava segnali di fumo dal posacenere. La bottiglia di Jack-Daniel’s era vuota per tre quarti. JD faceva rotolare l’anellino tra lo zippo e il pacchetto di sigarette. Sam aprì la bocca per dire qualcosa, ma Halona lo precedette.
«Che cazzo sta succedendo?».
Si voltarono verso il resto dei tavoli. Una folla piuttosto consistente di persone si stava accalcando verso l’uscita. Persone impazienti di uscire. Sam si tuffò in mare con uno strano presentimento, seguito a ruota da Halona e JD, lasciando Lester al suo tavolo e al suo Jack-Daniel’s. Non appena riemersero fuori dal locale, Sam ebbe modo di constatare che il suo presentimento ci aveva preso in pieno: un muro di gente tatuata accerchiava due uomini che se le davano di santa ragione, intanto Darla osservava la scena seduta a gambe accavallate sul cofano dell’Impala.
Dean aveva afferrato un energumeno rapato a zero per la nuca e gli stava sbattendo ripetutamente la testa contro il manubrio di una motocicletta. Il tizio, però, riuscì a liberarsi con una gomitata alla cieca. Mentre Dean riprendeva fiato piegato in due, quello si asciugò il sangue sulla fronte col braccio e si preparò a caricare.
Sam gli saltò addosso sulla schiena. L’uomo cominciò a scalciare come un cavallo al rodeo, ma lui gli aveva passato un braccio intorno al collo e stringeva più che poteva. Nel frattempo Dean si teneva la spalla, appoggiato alla fiancata dell’Impala, e rideva come un deficiente.
«Vai così, Sammy! Fai vedere a questa gente come si cavalca uno stallone!».
Lo stallone lo disarcionò quasi subito schiacciandolo contro la parete e Sam cadde a terra senza nemmeno rendersene conto. L’uomo gli si parò di fronte con aria minacciosa, le spalle enormi che si abbassavano e sollevavano velocemente per il fiatone, una maschera di sangue e sudore sul volto. Aveva già alzato il pugno per colpirlo, quando qualcuno lo fece voltare e lo mandò al tappeto con una ginocchiata dritta nei coglioni.
«Sapete quali sono le mie regole. Niente risse nel mio club. Né dentro, né fuori».
Halona fissava in cagnesco l’uomo che si contorceva sull’asfalto come un verme sull’amo, poi porse la mano a Sam e lo aiutò ad alzarsi. Gli arrivava sotto la spalla, era tutta ossa e capelli grigi, eppure sembrava un gigante.
«Grazie», disse Sam.
Forse fu il riflesso di un lampione, ma per un attimo gli parve che Halona avesse ammiccato al suo indirizzo. Forse lo aveva fatto sul serio, perché gli diede una pacca sulla spalla.
«Bella cavalcata!».
JD e Darla, invece, stavano valutando l’entità dei danni di Dean.
«Te lo avevo detto o no che questa gente attacca briga per niente? Mi avevi promesso che avresti fatto il bravo!».
Dean sfoderò la migliore faccia da schiaffi del suo repertorio.
«Che vuoi farci? È più forte di me».



Dean riempì il secchiello del ghiaccio, col muso lungo. Maledetto fantasma, pensò. Se non fosse stato per lui, a quest’ora i cubetti di ghiaccio mi servirebbero soltanto per i giochetti erotici con Darla. Invece quel fottuto bastardo aveva messo in moto un effetto domino in piena regola. Così Darla aveva deciso di passare il resto della notte a casa di JD (“Per non lasciarlo solo, poverino”, aveva detto, “Tanto il fantasma non può uscire dal negozio, giusto?”) e Dean si era visto costretto a tornare al motel prima del previsto. Con una spalla dolorante e la faccia ammaccata, per giunta.
Rientrato nella stanza, si bloccò sulla soglia, abbassò lo sguardo e inarcò un sopracciglio: si trovava proprio al centro di una trappola del diavolo. La vernice rossa con cui era stato disegnato il pentacolo puzzava ancora di fresco.
«Potevi anche dirmelo che aspettavi delle visite, mi sarei messo in ghingheri!».
Sam era chino sulla finestra e non lo degnò di uno sguardo. Stava spargendo del sale lungo tutto il davanzale. Dean si chiuse la porta alle spalle, roteando gli occhi. Mentre Sam trasformava la stanza in una panic room a prova di demone, lui prese un asciugamano dal bagno e ci versò sopra un pugno di cubetti di ghiaccio. Poi si tolse la camicia, si sedette sul letto e applicò l’impacco improvvisato sulla spalla contusa.
«Sammy, non dovevi fare ricerche su Killer Joe?».
«L’ho fatto», rispose lui. «Ma non ho trovato nulla che possa aiutarci a capire dove è stato sepolto il corpo».
Adesso stava tracciando una linea di sale sotto la porta d’ingresso.
«Non ti sembra di esagerare?», chiese Dean.
Sam chiuse il contenitore del sale e lo poggiò sul comodino.
«Più rimaniamo fermi in un posto, più aumentano le possibilità che qualche demone ci trovi. Senza quei tatuaggi siamo indifesi».
Dean sospirò.
«Okay, capisco che tu sia scosso. Avere dentro di te Meg per tutto quel tempo non deve essere stata un’esperienza piacevole, ma…».
Sam sbatté il pugno sul tavolo.
«No, Dean, tu non sei mai stato posseduto da un demone. Non sai cosa si prova in una situazione simile, non sai come ci si sente a non avere il controllo del tuo corpo, a guardare la tua mano che pugnala a morte qualcuno e non poter far nulla per impedirlo. Non dire che capisci, perché tu in questo caso non capisci proprio un cazzo».
Dean scosse la testa.
«Siamo cacciatori, Sammy. Queste cose possono succedere, fa parte del rischio del nostro mestiere. Te ne sei accorto solo adesso? Andiamo, non raccontarmi cazzate!».
«Non è questo, Dean. Non è il rischio di essere posseduti che mi preoccupa. Voglio quel tatuaggio perché così tu non avrai più scuse. La prossima volta che darò di matto, sarai sicuro che qui dentro…», e si picchiettò la tempia, «…ci sarò soltanto io. E allora, forse, troverai il coraggio di fare quello che nostro padre ti ha chiesto di fare».
L’asciugamano cadde a terra spargendo cubetti di ghiaccio mezzi sciolti ovunque.
«Stammi bene a sentire, coglione. Nostro padre mi ha chiesto di prendermi cura di te ed è quello che sto facendo. Fine del discorso».
«Non ti ha chiesto soltanto questo».
«Fine. Del. Discorso».
Si guardarono dritto negli occhi in silenzio, ma fu Dean a distogliere lo sguardo per primo.
«Vado a dormire. Ti consiglio di fare lo stesso, domani si va a caccia di fantasmi».



«Lester?».
«Uhmph…».
«Cazzo, Lester. Alza il culo da quella sedia e vai a casa, siamo in chiusura qui».
Aprire una palpebra gli costò una fatica immensa, come sollevare un camion a mani nude. Nel suo campo visivo sfocato e tremolante comparve una Halona distesa orizzontalmente che lo guardava in cagnesco.
«Che ci fai lì sdraiata?», chiese.
Lester vide la mano di Halona allungarsi verso di lui e sparire oltre le sue spalle. Si sentì afferrare per la collottola e tirare su. Mentre la sua schiena e la sua testa tornavano in posizione eretta, Halona cominciò a ruotare di novanta gradi, fin quando non passò definitivamente dalla posizione orizzontale a quella verticale.
«Non ero io quella sdraiata, vecchio ubriacone, ma tu quello collassato sul mio tavolo».
Lester si guardò intorno, spaesato. C’era una chiazza di bava sul tavolo e parecchie bottiglie vuote. Il Coyote Club era deserto. L’unica cosa che gli venne in mente da dire fu: «Ah».
«Andiamo, Lester. Ti accompagno a casa».
Lui scosse la testa, ma si fermò subito, perché la stanza aveva cominciato a girare e l’alcool che aveva nello stomaco minacciava di risalirgli la gola.
«No, ce la faccio».
«Lester, non era un’offerta».
«D’accordo, d’accordo. Prima, però, posso andare al cesso?».
Halona sospirò.
«Sì, ma vedi di non morirci lì dentro, sono le quattro del mattino, vorrei andare a dormire».
Mentre Halona rassettava le ultime cianfrusaglie, Lester ondeggiò tra i tavoli attraverso la stanza. Muoversi senza inciampare in qualcosa gli causava qualche problema, dato che il pavimento era fatto di sabbie mobili sulle quali lui galleggiava a stento. Dopo quello che gli parve un secolo, riuscì a chiudersi la porta del cesso alle spalle e svuotare l’uccello centrando più o meno circa il buco dell’orinatoio.
Davanti allo specchio sopra il lavandino, si accorse di avere la patta aperta e se la richiuse ridacchiando. Gli venne voglia di una sigaretta, così prese lo zippo e il pacchetto di sigarette che quel JD aveva dimenticato al suo tavolo e se ne accese una. Diede un tiro, ripromettendosi di restituirglieli la prossima volta che lo avesse incontrato al Coyote Club.
L’acqua scorreva copiosa dal rubinetto. Quando lo aveva aperto? Prima che Lester riuscisse a sintonizzare il cervello con la mano e a chiuderlo, il lavandino si era riempito completamente e l’acqua era straripata sul pavimento, bagnandogli le scarpe.
La luce del neon sul soffitto fece bzzzz e traballò. Lester guardò su per un attimo, sbuffando fumo, e quando tornò con lo sguardo nello specchio, saltò indietro per lo spavento. Si voltò troppo velocemente e dovette aggrapparsi al lavandino per non finire gambe all’aria.
«T-tu…», balbettò a occhi sgranati. «Tu… dovresti essere morto».
La sigaretta cadde sul pavimento bagnato e si spense facendo sssbbb.







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Note autore:
Così come il terzo capitolo, anche le note sono un po più lunghette delle precedenti. Passiamo subito ai crediti:
- Questa storia è ambientata nel 2007, mentre Sons of Anarchy viene trasmesso negli USA a partire dal 2008. In teoria Dean non potrebbe fare la battuta su Gemma Teller-Morrow, ma ho deciso di prendermi questa libertà, perché molta gente mi ha fatto notare quanto l’ambientazione del Coyote Club ricordi quella di Sons of Anarchy, sebbene io sia venuta a conoscenza dell’esistenza di questo telefilm solamente dopo aver scritto Rovi & Rose e aver inventato i personaggi di Halona & Co.;
- Killer Joe Cooper si ispira parecchio (diciamo pure che è una citazione) al personaggio del film Killer Joe, con Matthew McConaughey nei panni del killer;
- Per chi ha letto la mia serie di storie originali e quindi ha avuto modo di conoscere da vicino il marito di Halona, ecco come immagino la sua voce;
- Se Halona vi ha incuriosito, QUI potete leggere una storia su di lei, suo marito e Wile, il nonno di JD.
Credo sia tutto. Mille grazie ancora a chi segue e a chi ha commentato!
A lunedì prossimo.
   
 
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