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Autore: WingsBrain    28/04/2015    0 recensioni
Emarginata tra le mura ristrette di una clinica psichiatrica sperduta, Abby Moore è una ragazza che sostiene di non essere affetta da alcun tipo di patologia psichica in particolare. Non parla con nessuno. Nessuno può capire cosa significhi sentirsi come se si stesse vivendo costantemente in un sogno, anzi, un incubo. -
"Chissà perché molte parole legate alle malattie mentali cominciano per ‘psico’. Psicologia, psichiatria, psicopatico.."
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sleeping Brain

5.
WHEN I'AM ALONE I FEEL SO MUCH BETTER



 

Trassi un sospiro di sollievo e mentre mi accarezzavo la superficie della testa per darmi una leggera aggiustatina, mi meravigliai del fatto che, magnanimi, mi avessero concesso il privilegio di non assolvere alla mia seduta pomeridiana.
Rotolai di pancia sul letto ed evitai di badare a Beth che finora non aveva spiccicato una sola parola. Grazie a Dio.
Sotto alle coperte udii un rumore ovattato proveniente dalla porta che si apriva. E fu l'unico suono che intralciò l'immacolato silenzio della nostra stanza, quando un'infermiera vi allungò un passo di ingresso.
“Andiamo Beth, il dottor Martin ti aspetta.” L'aiutò a sollevarsi di peso offrendole l'appoggio di entrambe le mani per il sostegno.
“Ciao Abby, ci vediamo più tardi.” tentò di salutarmi Beth, sperando che io le concedessi una mia qualche reazione.
Quel pomeriggio, mi aveva nuovamente rivolto parole inutili e non solo, si era anche prodigata nell'intento di riuscire a farmi aprir bocca. Si era incollata in quella testolina caparbia l'idea assurda che magari un giorno, con più confidenza, e più fiducia, mi sarei aperta a lei.
Inutile dire in quali azioni si risolse la mia risposta. Insisteva, e per me era come parlare (metaforicamente) ad una botte forata.
E prima di coricarmi definitivamente, mi ero anche concessa il lusso di lanciarle un cuscino in piena faccia senza però farmi mancare il centro.
La sua voce persistente era calata fino a perdere del tutto il tono esaltato iniziale. “Okay” aveva mormorato come una bambina che non ha voglia di prestare ascolto ai propri genitori.
Ma io non ero sua madre. E lei non era la mia psichiatra. Dunque quella conversazione era sprovvista delle basi solide necessarie, affinchè si reggesse da sola in piedi.
“Ciao.” si sprecò di salutarmi aspra, l'infermiera del cazzo.
Alla cieca sollevai una mano in aria per salutare Beth, non quella stronza di infermiera di merda. E sperai vivamente che non ignorasse ma che afferrasse al volo l'intenzione che avevo avuto di dire ciao in esclusiva alla mia compagna di stanza.
Okay, forse sto esaltando troppo Beth, mi calmo.
Suonò la campanella degli hobby pomeridiani, e allora sloggiai fuori dalla tana. 
In me era presente un elemento differente che caratterizzava questa volta, da tutte le altre. Mi ero permessa di passarmi un tocco di matita nera sugli occhi, e mi ero anche pettinata e sbrogliata i nodi con ardore.
Appena ebbi terminato di prepararmi e fui pronta, mi introdussi in corridoio trattenendomi a chiudere l'anta della porta. Camminai lentamente fra le persone. Arrivai nell'aula di musica e guardai obliquamente le altre ragazze. Alcune di loro si stavano esercitando in un'orrenda coreografia di danza. La musica classica era praticamente impossibile da far piacere. A me perlomeno. Era fottutamente fastidiosa.
Non mi ero mai classificata come una persona tipica da Beethoven o Mozart, ma preferivo di gran lunga le melodie disordinate e chiassose. Le mie influenze erano improntate soprattutto dal genere rock.
Nella mia modesta opinione musicale, il rock presiedeva il trono al primo posto. 
Quel casino ritmato e armonico di strumenti pesanti paradossalmente filtrava al mio cervello un nuovo tipo di ordine.
Ritrovavo una parte della mia stabilità e della mia sicurezza. Nel rock non era necessario dimostrarsi eccellenti a suonare uno strumento, e non peccare nemmeno di uno stupido errore. O sottostare perfettamente alle regole, oppure agghindarsi come un albero di Natale soltanto per piacere agli altri. No, potevi essere uno che tirava avanti appena, ma venire lo stesso amato per la tua unicità da milioni di persone.
E poi, non ero sicuramente schiava della moda, quindi mi piaceva ascoltare musica diversa, o perchè no, anche migliore.
“Tu,” specificò con l'uso dell'indice la donna bionda che indossava un body ridicolosamente rosa. “sei in ritardo.”
No, ma io non ero lì per sgambettare i suoi passi di merda, volevo solo distrarmi un po’ e magari strimpellare malamente una vecchia chitarra.
Così, sforzando un sorriso imbarazzato le feci cenno di no con un'espressione di rincrescimento chiaramente falsa. Non mi andava proprio il balletto.
“Suvvia, non essere timida. Sei così carina, e quelle due stecche di gambe dovranno pur servirti a qualcosa.” persistette sottolineando tratti del mio aspetto che io invece non consideravo mai. Insomma, conservavo praticamente quella vestaglia incorporata addosso da secoli.
La mia, fu la medesima risposta di qualche secondo prima.
La donna fece come se non le avessi detto niente (beh, in teoria non le avevo detto niente, ma fatto sta che glielo avessi comunque mimato a gesti, e se lei era tanto stupida da non capire, non era colpa mia). “Andiamo, sbrigati che non abbiamo altro tempo da perdere. Dobbiamo completare la coreografia prima della fine dell'ora, vieni!” e questa volta me lo urlò praticamente contro.
Puttana.
Respinsi l'affermazione e la guardai con ferocia, infuriata. Non avrei potuto alzarle le mani addosso, non ero maleducata. E comunque si sarebbero messi poi tutti contro di me, per giunta dandomi della violenta e non andava bene. Tutto ciò non andava bene per niente perchè non mi conveniva affatto attirare l'attenzione, per nessun motivo al mondo.
Soffocando diligentemente l'irritazione concitata con dei pugni contratti, surclassai la sua acuta testardaggine. Sottintesi un definitivo ‘no’ e svogliatamente mi voltai e mi diressi su per le scale fino al piano degli strumenti. 
Era incredibile quanto spazio occupasse l'aula della musica, trattandosi pur sempre di un ospedale.
“Ohhh! Fa’ come credi!” mi sentii brontolare alle spalle.
Superai il ripiano con la batteria, e arrivai dritta alle chitarre. Dio, quanto mi sarebbe piaciuto imparare a suonare uno strumento del genere. Agitare magari le dita delicatamente o anche con maggior impeto perchè no, pizzicando le corde. Udire la musica che producevano i miei piccoli e deboli gesti, e godere di tutto ciò.
Ma contrariamente a come poteva sembrare, ero a conoscenza a malapena del significato di “accordare una chitarra”. Sapevo solo e più o meno che senza questa procedura, il risultato era un suono diverso ma peggiore.
Senza curarmi del fatto che la prima chitarra che presi fosse o meno accordata, me la disposi sulle gambe (probabilmente era errata anche la mia postura) e cominciai a strimpellare seguendo unicamente lo spartito dentro alla mia testa.

“Abby Moore.” Reagii allungandomi sulla poltrona e salpando all'in piedi non appena sentii freddamente fare appello al mio nome.
Attraversai rapidamente il gruppo di pazienti schierato in una fila disordinata e accettai anche la pillola bianca di quella sera.
L'ora soggiorno era ormai agli sgoccioli praticamente e mancavano esattamente due minuti e tutti si sarebbero riversati all'interno della caffetteria per cenare.
La routine a volte era stancante, ma preferivo non smuovere le acque, o c'era il rischio serio di affogarci dentro.
Lentamente e con scrupolosa disinvoltura passeggiai lungo le mattonelle restanti che mi separavano dalla mia porta.
La cricca di Caroline risuonava così chiassosa anche da lontano.
Ancora pochi passi…
“Dove vai?!” saltò su, alle mie spalle, Beth. E chi se non altri?
Questa volta non mi sprecai nemmeno di voltarmi contro la sua disgustosa faccia da psicopatica maniaca del cazzo. 
Oh no. Per colpa sua e del suo squittio acuto continuo, venimmo improvvisamente riprese dagli occhi invadenti dell'Adest che indugiava cautamente sull'entrata alle docce. L'Adest svolgeva tutti i compiti riferiti alla nostra cura fisica: igiene, vestizione..
Maledizione, mi stava guardando. Ora mi stava facendo cenno con la mano di raggiungerlo.
A mio malgrado, dovetti eseguire. Anzi, dovemmo. Beth mi stava fastidiosamente alle calcagna.
Un già consapevole tuffo al cuore mi percorse quando lo intravidi aprire bocca.
“Dove stai andando?”
Deglutii amaro. Perchè ce l'avevano tutti con me? Non ero mica l'unica che tergiversava ancora per i corridoi!
Cominciai di conseguenza a pormi come al solito sulla difensiva e gli accostai uno sguardo provocatorio,  che con mia sorpresa, precedette Beth.
“Stavamo andando a mangiare! Prima però ho chiesto ad Abby di trattenersi insieme a me perchè volevo passare in camera e mettermi addosso qualcosa di più pesante. Fa freddo, non trovi?” farneticò gesticolando. LEI mi aveva cacciata in quella spiacevole situazione. Ma fortuna che il suo buonsenso non fosse andato del tutto perduto. 
“Capisco benissimo Beth. Tu puoi stare tranquilla,” quel singolare così specifico non mi era per nulla chiaro. Mi accigliai, eppure nessuno parve accorgersene. Era come se tutto d'un tratto io fossi diventata magicamente invisibile. Magari. “Ma se il primario decide di farsi un giro e vi vede ancora qui, se la prenderà con le infermiere che ci andranno di mezzo, come del resto ormai è abitudine, per colpa dei capricci di alcune ragazzine impertinenti che occupano la maggior parte del loro tempo a considerare esclusivamente loro stesse.” Frecciatina poco irriguardosa nei miei confronti, devo dire. Nonostante non avesse menzionato il mio nome, era praticamente evidente a chi si fosse rivolto.
Di fatto non avevo commesso nessun reato, quindi il primario poteva anche andare a farsi fottere altrove. Solo, era tipico di me, che non mi andasse giù il fatto di dover cenare insieme agli altri. Ed era chiaro ormai che anche lui l'avesse afferrato.
Beth si schiarì la gola. “Si scusaci, non si ripeterà.” Legò la sua mano alla mia- ew, che schifo- e ci incamminammo nuovamente.
Quella ragazza adoperava un modo di parlare altamente veloce e confuso, che allo stesso tempo era capace di diffondermi sulla pelle tutta l'ansia che conteneva.
Secondo il mio umile criterio, Beth doveva fare pace con se stessa e riacquistare il pieno autocontrollo di sé, se mai ne fosse stata dotata. Era eccessivamente agitata. La sua, sembrava una perenne corsa ad ostacoli.
Appena fummo in un'altra corsia sciolsi bruscamente la stretta di mano. Pensai per un momento di dover ringraziarla. Ma ehy, no. D'altronde era in debito con me e soprattutto me lo doveva.
“Dai Abby scusami ti prego! Non l'ho fatto apposta. Non sapevo che stessi evitando la cena.” cominciò a lagnare, fastidiosamente per i gusti solenni delle mie orecchie. 
Con una pacca impacciata sulla spalla sperai perlomeno di farla ammutolire. 
Dai miei occhi si liberò un'esortazione a rassicurarla. Evidentemente ci riuscii, perchè per il resto del tragitto, regnò un melodioso silenzio.

Il buio non si classificava esattamente come un qualcosa di cui andarne pazza. Al contrario, mi aveva da sempre destato il terrore. Non che fossi solita immaginare scene macabre come un uomo dal volto coperto con un mantello e cappuccio neri ed un'ascia impugnata nella mano che improvvisamente arrivava alle mie spalle e mi assaliva.
Vedete, voi sareste in grado di guidarvi senza problemi in uno spazio privo di alcuno sprazzo di luce? Ecco, io non credo si tratti di un'impresa resa così facile. 
Non era mica un caso se io non riuscissi a concentrarmi sul temere i mostri, quando esisteva ben altro di cui preoccuparsi in situazioni oscure. Temevo semplicemente un'oggettiva ed estrema tendenza naturale al disorientamento. L'innato terrore di ritrovarmi al buio e non sapere minimamente come muovermi non mi piaceva affatto, mi rendeva vulnerabile. Ma era sicuramente una cosa da me.
E odiavo che in quel fottuto ospedale spegnessero le luci così presto.
Scoprii in poco tempo che la strada si era quasi esaurita e che io non vedevo l'ora di buttarmi a capofitto nel mio invitante letto.
Qualcosa però piombò a rompere i miei piani.
Sentii delle mani afferrarmi per i fianchi pesantemente coperti in una presa salda, e allora mi saltò il cuore in gola. 
Fui strappata indietro violentemente e spinta contro un altro corpo.
Dalla mia bocca si liberò un incontrollato gemito di paura che si strozzò in mezzo alla gola a causa di quella mani che adesso mi premevano sulle mie labbra.
Forse la storia dell'uomo con l'ascia non era del tutto inventata.
Provai un crescente allarme che mi si radicò nel cervello sfociando in un istantaneo capogiro.
Quella presenza così estranea era tutt'altro che rassicurante. E il soggiorno dell'ospedale, a quell'ora di notte, tra i residui di sottili strisce di luce che illuminavano la stanza, riallacciava l'aspetto del set di una vecchia pellicola horror. 
Un istante, che a mio malgrado parve durare un'intera vita, ed una bocca delicata ma aspra che faceva pressione per parlare direttamente contro il mio orecchio. “Non ti permetterò di mandare all'aria il mio piano, ragazzina.” 
E non fui mai veramente in grado di realizzare con effettiva precisione, a cosa furono dovuti tutti quei brividi che mi percorsero deliberatamente la colonna vertebrale.




 


 
 
 
   
 
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