Libri > Il Labirinto - The Maze Runner
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Autore: Stillintoyou    30/04/2015    4 recensioni
[Il Labirinto/The Maze Runner][Il Labirinto/The Maze Runner]Passò un sacco di tempo prima che quel dannato rumore smettesse di darmi il tormento.
‹‹ E ora? ›› pensai, poi alzai lo sguardo quando sentii che qualcosa, sopra di lei, si stava muovendo.
Della luce entrò all'interno di quella sottospecie di stanza, o cella, o quello che era.
Socchiusi gli occhi per l'improvviso impatto con la luce esterna, e qualcuno balzò a pochi centimetri da me.
‹‹ cosa c'è nella scatola? Un fagiolino nuovo, vero? ›› disse qualcuno dall'esterno.
Mi sentivo come se fossi imbavagliata, squadrando il ragazzo che si era inginocchiato per guardarmi in faccia.
‹‹ Oh caspio... ›› inclinò la testa, assumendo un espressione stranita. Si mise in piedi
‹‹ Newt? ››
‹‹ Non ci crederete mai... ›› alzò il volto, rivolgendosi alle persone che si erano raggruppati attorno all'uscita di quella... scatola, a quanto pare la chiamavano così.
‹‹ A cosa non crederemo mai? ››
‹‹ È.... una ragazza ›› il ragazzo abbassò nuovamente lo sguardo su di me ‹‹ Ci hanno mandato una ragazza. ››
Genere: Avventura, Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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«Lei è la signorina Elizabeth?», chiese la ragazza davanti a me, una ragazza giovane, dalla pelle scura e i capelli ricci racchiusi in una coda di cavallo.
Abbassai lo sguardo sul cartellino puntato con una spilla al mio camice bianco.
Avevo un nuovo nome. Una nuova identità e da quel momento in poi avrei dovuto chiamarmi così. Non mi piaceva la cosa, dovevo ammetterlo, ma quelle erano le regole per i soggetti importanti come noi.
Quelli speciali. Eravamo costretti a cambiare identità con il nome di qualcuno di importante. Non ero sicura di questo, non ne vedevo nemmeno la necessità, ma preferii non dire nulla. Avevo promesso di seguire le regole, per le persone che amavo, per il loro bene.
Ero davvero troppo buona, abituata a fare di tutto per gli altri senza nemmeno curarmi di come potevo starci io. Me lo dicevano tutti, e ingenuamente davo ragione a loro.
«Così dice questa targhetta», dissi, indicando il foglio plasticoso sul mio petto.
«Venga con me, mi segua», rispose in modo cordiale, facendomi cenno di seguirla.
Mi alzai, la seguii. Il corridoio che percorremmo era lungo e bianco.
La ragazza che mi faceva strada mi spiegava delle cose, una pappardella che sembrava essere studiata a memoria, che ormai conoscevo perché mi era già stato detto nel periodo di tempo che avevo già passato lì dentro.
Dopo circa dieci minuti di camminata, la ragazza mi fece entrare dentro una stanza bianca, piena di schermi piattissimi che riproducevano immagini di ragazzi seduti ad un lungo tavolo. Tutti ragazzi giovanissimi, concentrati a lavorare su formule, progetti e cose così.
Al centro della stanza c'era una scrivania con tre sedie, due delle quali erano occupate, una da un uomo anziano che stava dall'altra parte della cattedra, e l'altra, quella accanto ad una vuota, era occupata da un ragazzo biondo. Lo stesso ragazzo biondo che aveva svolto il test d'ingresso assieme a me.
«Si accomodi, signorina Elizabeth», disse l'uomo anziano indicando la sedia libera.
Rivolsi un sorriso imbarazzato al ragazzo, poi mi sedetti sulla sedia.
L'uomo congiunse le mani poco dopo essersi sfiorato la barba, si mise comodo sulla poltroncina e schioccò la lingua, sorridendo in modo molto, troppo forzato. «Bene, voi due avete svolto dei test d'ingresso a dir poco eccellenti. Volevo congratularmi di persona e nominarvi compagni. O meglio, rivali. O, perché no, sarete compagni-rivali. Lavorerete insieme. Entrambi avete grosse potenzialità di cui noi della C.A.T.T.I.V.O. abbiamo bisogno.» Si sporse in avanti, poggiò le braccia sulla scrivania e ci fissò. I suoi occhi grigi avevano una punta di folle ammirazione. «Abbiamo bisogno di piccoli geni come voi, qui. Voglio che vi spingiate al limite, che vi miglioriate a vicenda, che cerchiate in ogni modo di superarvi, sabotandovi l'un l'altro se è necessario!»
Ci guardammo con fare confuso, poi scattò qualcosa nel nostro sguardo. Qualcosa che fece venire l'adrenalina a mille ad entrambi. Una scintilla di sfida.

Da quel giorno in poi, le nostre giornate passarono all'insegna del miglioramento personale, eravamo due ottimi compagni di squadra e lo sapevano tutti.
I nostri test davano sempre risultati ottimi ed oltre la media. Per vedere se era il team o la persona stessa a dare dei risultati così alti, provarono più volte a metterci con partner diversi, ma il risultato non variava. Erano sempre altissimi e oltre le aspettative.
Si ottenevano ottimi risultati anche lavorando con Evangeline, la ragazza asiatica che lavorava nel mio stesso reparto, ma non era nulla in confronto al lavoro che svolgevo col mio compagno di squadra.
Passò un anno così, di miglioramenti e progetti, test vari di poco conto ma superati tutti in modo ottimo, come al solito. I vari complimenti per essere tra le poche “squadre” a lavorare in quel modo.
Vari passaggi di livello che piano piano ci facevano entrare sempre di più nelle grazie delle persone dei piani alti, di quelli veramente importanti.
«Hai trovato risposta al quesito numero venti?», domandò il mio compagno di squadra, “il biondino”, mentre stavamo fermi davanti al pc ed osservavamo delle reazioni ad alcune variabili a cui era stato sottoposto il Gruppo B.
Dietro di noi c'erano Aris e Rachel, uno davanti all'altra. Si esercitavano con la loro telepatia.
Noi eravamo lì solo per fare loro da sostituti, ma trovavo la cosa molto noiosa.
Lo schermo davanti a noi mostrava le variazioni celebrali dei Soggetti che subivano le Variabili, l'unica cosa interessante era vedere come i Soggetti reagivano in caso di estremo rischio, ma provavo una pena infinita per loro.
La Variabile, stavolta, era quella della prima (e unica) pioggia in quel posto. O meglio, tempesta.
I fulmini cadevano sul terreno in modo programmato da noi, colpivano tutto ciò che si trovava nel tragitto con effetti a dir poco devastanti.
Scoppi, fuoco e fiamme, nemmeno la pioggia che cadeva riusciva a spegnere quelle fiamme alte che divoravano tutto il lavoro svolto dai Soggetti analizzati.
«Quale quesito venti di quale dei mille test che abbiamo svolto?», domandai, restando concentrata sul grafico.
Il ragazzo accanto a me ridacchiò, poi spostò lo sguardo dal grafico e lo rivolse a me. «Quello sul progetto D2.»
«“Per cosa sta D2?”»
Annuì. Allora sorrisi con fare quasi compiaciuto del fatto che me l'avesse chiesto. «Ebbene, a quella domanda avevo risposto. Avevo detto che stava per Dolenti di tipo 2. Quando sono arrivata qui i miei genitori mi avevano lasciata nell'Archivio Generale della C.A.T.T.I.V.O., mi avevano detto di leggere qualcosa, c'era una scrivania sulla quale avevano lasciato dei fogli con scritto “progetto D”. Parlavano dei Dolenti. Fare il collegamento è stato piuttosto semplice.»
Scrollò le spalle, tornando a guardare lo schermo. «Io ho risposto la stessa cosa, ma in modo differente. Ho scritto qualcosa come “è lo stadio avanzato dei Dolenti”. Anche io ero stato portato nell'Archivio Generale, ho fatto una ricerca veloce e ho studiato un pochino di cose, così da essere pronto per un eventuale test. Tutto pur di evitare di finire nel gruppo A», disse sospirando. «Il mio desiderio a quanto pare alla fine si è esaudito, sono piuttosto felice della cosa.»
«Già... che poi, non sembra così male.» Inclinai la testa, osservando lo schermo davanti a me. «Sembra di stare in un paradiso terrestre... senza questo gran problema del virus...» Chiusi gli occhi, sospirando. «Niente, hai ragione, fa schifo. Vorrei seriamente fare qualcosa per loro.»
«Una cosa è certa: stanno comunque molto meglio di noi. Questo è vero. Ma non voglio comunque trovarmi lì dentro, rinchiuso come un topo da laboratorio costretto a cercare il modo di sopravvivere ogni giorno.»
«Cosa cambia da quello che siamo qui, mh?» Mi voltai di nuovo verso di lui. Volevo una risposta a quella domanda, ma anche se me l'avessero data, sarei rimasta comunque della mia idea.
Non c'era nessuna differenza. O meglio, nulla di troppo differente tra ciò che eravamo noi Soggetti interni della C.A.T.T.I.V.O. e loro, Soggetti esterni.
«Cambia che noi possiamo guadagnarci una sorta di libertà maggiore della loro...», azzardò, poi scosse la testa e fece le spallucce.
«E la nostra libertà quale sarebbe?»
Allora si zittì. Non rispose. Non aveva risposte, ovviamente, ad una domanda del genere. D'altronde cosa si poteva rispondere a qualcosa di simile?
«Non lo so», disse infine, in seguito ad un sospiro. «Forse la nostra libertà si limita alla scelta di sopravvivere all'esterno di Prove simili. O forse a quella di poter ancora sognare in un mondo migliore. Quella di poter sopravvivere senza troppe difficoltà...», azzardò, chiudendo gli occhi.
«Non abbiamo nessuna libertà, la nostra è solo una fantasia. Ci hanno portato via tutta. Innocenza, infanzia, adolescenza... tutto.» Mi massaggiai le tempie, sospirando in modo frustrato.
Non mi piaceva vedere quelle cose in quello schermo, erano scene brutte, di quelle in grado di lasciarti sulle spine per un giorno intero. Come un film dalla quale non riesci a distogliere lo sguardo anche se sei terrorizzato. La cosa più brutta era che quello non era un film, quella era la realtà dei fatti e le persone dietro quello specchio erano reali.
Decisi di girarmi, di fare qualche passo in avanti per allontanarmi dallo schermo. Ero uno dei loro soggetti migliori anche per via della mia freddezza di fronte a test simili, ma in quel momento, forse per via di quel discorso, metabolizzai ancora di più quello che succedeva lì dentro. Era un luogo di tortura solo per trovare un bene maggiore, ed io contribuivo a quel massacro di innocenti.
Basta pensare che quello era un test che non doveva dare vittime, ed invece stavano morendo delle persone.
«Sempre meglio che essere rinchiusi in quelle quattro mura senza avere una via d'uscita. Come cavie da laboratorio.»
«Ma non ci arrivi?» Digrignai i denti, spostandomi nervosamente i capelli dal volto e girandomi di scatto verso di lui. «Anche noi siamo cavie da laboratorio! Siamo qui tutti i giorni a studiare ed elaborare formule, a guardare ciò che fanno gli altri, a correggerli, a creare progetti che poi vengono elaborati da quelli più grandi!»
«Elizabeth...» Mi girai sentendomi chiamare.
Il ragazzo moro, uno di quei quattro che tutti definivano speciali, era proprio dietro di me. Poggiò la mano sulla mia spalla e mi guardò con lo sguardo di chi capiva perfettamente ciò che stavo provando. Quasi compassionevole, e trovai la cosa strana visto che lui era il primo a sostenere il progetto del Gruppo A e del Gruppo B. Era stato lui stesso a lanciarlo, dicendo che ci sarebbero stati grandi risultati e c'erano grandi aspettative.
E quella era solo la prima fase di tutto il lavoro che c'era dietro. Il peggio doveva ancora cominciare.
«Vi ho disturbati durante l'esercitazione? Perdonatemi...», mormorai, ma non provavo veramente imbarazzo come volevo dare a credere. Ero talmente disgustata da quel discorso che non riuscivo a provare nessun altro tipo di emozione.
Era come se in un paio di secondi avessi realizzato di aver perso ogni singola cosa per una causa che non mi apparteneva. Non del tutto almeno.
«Non preoccuparti», disse il ragazzo, sorridendo nel tentativo di rassicurarmi. «Devi essere stanca, non è vero? Vuoi riposarti un po'?», domandò infine.
Non ero stanca, ero semplicemente stufa di tutto quello. Ero stressata, continuamente sotto pressione. Forse stavo scaricando tutto quanto in quel momento, dato che ero stata per tutta la settimana a lavorare sulle scale celebrali del Gruppo B. Una cosa così complicata che mi aveva richiesto il lavoro di un intera notte.
A me quel lavoro sul gruppo B, mentre il mio compagno era impegnato a prendere appunti davanti allo schermo.
Tutto il tempo ad osservare grafici e numeri che rilevavano le pulsazioni accelerate, quanto stress provavano, come, perché, dovevamo incastrare tutto questo in un grafico perfettamente elaborato e tirare fuori quanta pressione avevano provato nel giro di un mese, assieme a mille altre cose. Ogni piccola “anomalia” o variazione doveva essere segnalata, segnata e rappresentata in una scala da uno a dieci.
Portai le mani sulle tempie e cominciai a massaggiarle, avevo un mal di testa bestiale dovuto molto probabilmente a tutto quel pensare. Sentivo come se mi stesse scivolando via dalle mani ogni cosa ed io non potessi farci nulla se non guardarlo cadere nel vuoto più totale.
«Elizabeth?», chiese il ragazzo davanti a me. Lo guardai negli occhi. Era preoccupato, ed era una cosa che succedeva raramente... o almeno, non era solito a dimostrarlo. «Sul serio, penso che tu abbia bisogno di una pausa, anche se magari di un giorno. Ci penserà il tuo partner a tenere sott'occhio il gruppo B, tu riposati un po'. Hai l'aria seriamente stanca, c'è il rischio che questo comprometta il tuo lavoro.» Cercò di essere il più cordiale possibile nel dirlo, ma qualcosa dentro di me mi diceva che era tutto quanto falso. Finto perbenismo, anche se aveva tutta l'aria di essere sincero.
«Va bene...», sospirai, guardando la ragazza che nel frattempo si era affiancata a lui. Quella sua pelle pallida le dava l'aria di essere una bambolina di porcellana.
«Vuoi che ti accompagni da qualche parte, mentre ti riposi? Vorrei prendere anche io una pausa di qualche minuto, non di più.» Si girò a guardare il ragazzo, mentre si poggiava alla sua spalla. «Dici che posso farlo?»
«Di nascosto», rispose lui. «Sai bene che non possiamo prendere pause. Sei la prima a dirlo.»
«Beh, sì, lo so. Ma potrei fare un salto agli archivi generali e vedere se, frugando bene tra gli scaffali, trovo qualcosa che ci possa aiutare nel diventare più bravi più velocemente così da accelerare anche i risultati del test. Avanti, Tom, lasciami andare, prometto che poi ci eserciteremo fino a tarda notte.»
Thomas. Era quello il nome assegnato al ragazzo inventore del Gruppo A e del Gruppo B. Thomas, come Thomas Edison, mentre invece la ragazza si chiamava Teresa. Teresa Agnes, come Madre Teresa di Calcutta.
Il ragazzo, Thomas, schioccò la lingua, ridacchiando. «Bella scusa questa. Okay, okay, fa’ pure», disse infine, guardandosi attorno e sperando evidentemente di non essere sentito da Aris e Rachel, che però, invece, l'avevano sentito benissimo ma mostrarono noncuranza.
Dovevano assolutamente terminare quell'esercitazione, non potevano permettersi nemmeno un secondo libero visto che ormai, tempo non ne avevano affatto.

«Beh, cosa ci facciamo qui?», domandò Teresa. Adoravo il modo sicuro con cui si muoveva tra gli scaffali dell'archivio. «Sai che non potremo nemmeno entrare in questo posto, vero? Se ci beccano qui siamo fritte!», disse, ma sapevo che in verità non le interessava di quello che poteva succedere. D'altronde lei era esonerata da qualsiasi tipo di punizione. Il massimo che potevano infliggerle era stare lontana da Thomas un paio di orette, nemmeno, perché avrebbe trovato il modo di vederlo e di sentirlo. Sapevamo tutti che loro erano indispensabili per la buona riuscita del progetto, dato che erano i creatori principali di tutto.
«Odio questo posto», mormorò, prendendo una cartella da uno scaffale metallico. C'era il suo nome scritto sopra
«Perché?», domandai, prendendo un grosso respiro nel tentativo di sentire l'odore della libertà. Tentativo vano, perché ero troppo piccola l'ultima volta che avevo sentito quell'odore... se mai l'avevo sentito davvero.
«Vedi questa?», chiese, indicando la cartella. «Qui c'è scritto tutto su di me. Quando sono nata, il nome dei miei genitori... come li ho persi... poi, da quando mi hanno trovata fino ad ora. Troppi ricordi tutti rinchiusi in un ridicolo fascicolo. Oltretutto qui ci sono i miei progressi fino ad ora. Viene costantemente aggiornato.» Sospirò, aprendo la cartella e prendendone la prima pagina. «Teresa Agnes, quindici anni, immune, intelligenza sorprendente, prestazioni mentali ottime, ottime reazioni ai test, ottimi risultati e perfetto adattamento alle varie situazioni.»
«Beh, una cartella davvero ottima, no? Un buon profilo.»
«Sì, è innegabilmente ottima», rise amaramente, sistemando tutto velocemente. «Ma vorrei sapere a cosa serve veramente tutto questo schema che si sono fatti. Solo per vedere i miei miglioramenti o peggioramenti, o una semplice scheda in caso di perdita del Soggetto, così da crearne uno come me in futuro? O magari tengono sott'occhio il mio profilo per vedere se servirò ad uno scopo ben preciso per chissà quale Variabile più avanti?» Scosse le spalle. «Beh... spero che almeno si tratti di una buona causa. Mi fido e non mi fido della C.A.T.T.I.V.O.»
Chiusi gli occhi. Quella sensazione di fidarsi e non fidarsi era una cosa comune a tutti lì dentro.
Non avevo mai riflettuto davvero sulla storia delle cartelle che ci assegnavano.
Che tutti avessimo un secondo compito legato a delle eventuali Variabili studiate da qualcun altro?
Non volevo pensarci, quell'opzione mi spaventava a morte. Non volevo finire in mezzo ad una delle loro Variabili, erano tutte perfettamente studiate e schematizzate. Lo sapevo bene, perché io ero una delle persone addette a controllare che gli schermi fossero giusti, a calcolare le probabilità di riuscita e cose così...
Nessuno dei progetti che mi si presentava avanti era delicato, semplice o poco doloroso. Tutti crudeli. Troppo crudeli. Ma sopratutto, erano tutti dolorosi, sia a livello fisico che mentale. D'altronde era a quello che miravano: osservare e studiare le reazioni celebrali.
Tutto per il bene più grande. Alla fine noi non eravamo altro che semplici pedoni in un enorme scacchiera.
«Ci pensi? Siamo noi la mente dietro quella follia. Persino io e Thomas sappiamo che questa è una cosa estrema. Odiavamo quello che facciamo, ma abbiamo fiducia nella riuscita e nei buoni risultati che possiamo ottenere. Abbiamo grossi progetti e grosse aspettative... tutto pur di sconfiggere quel nemico comune che tutti abbiamo... vogliamo solo vendetta per tutto quello che questa ci ha levato.»
«Nemico comune?», domandai, corrugando la fronte. «Parli del virus?»
Lei annuì, e allora il suo sguardo si fece più glaciale. «Sì. L'Eruzione. Se ci pensi bene, la C.A.T.T.I.V.O è praticamente la nostra famiglia, cerca solo di trovare una cura per questo male che non ha ancora una fine», disse con un tono che era un misto tra ammirazione e devozione.
Pensai che Teresa avesse le idee confuse sulla C.A.T.T.I.V.O., pensieri contrastanti dovuti forse alla sua giovane età.
D'altronde lei era lì sin da bambina, io no. Avevo avuto la fortuna di vivere in un ambiente tutto sommato tranquillo, in una delle zone sicure con la mia famiglia. Anzi, in una di quelle che erano state delle zone sicure... finché quel dannato virus non aveva devastato anche quel posto, di cui ormai avevo solo un vago ricordo.
Il virus si era espanso a macchia d'olio nella città, nel giro di una settimana era tutto sparito lì intorno.
Era una delle poche zone del mondo dove si potevano ancora vedere gli alberi in fiore e qualche traccia di erba, ma sparì tutto. Il giardino di casa mia, dove giocavo assieme a mio cugino e mia cugina, era sparito in pochi giorni, lasciando spazio solo a terra arida, come se in verità non ci fosse mai stato nulla di tutta quella meraviglia.
Era tristissimo pensare a come tutto fosse cambiato in poco tempo, come il nostro mondo fosse stato messo in ginocchio da una malattia dalla quale solo poche persone potevano fuggire.
E alcune di quelle persone che potevano “fuggire”, erano proprio nella C.A.T.T.I.V.O..
Forse, per Teresa, quella era praticamente la sua famiglia, ma io la mia l'avevo, e sapevo che mi amavano alla follia.
Mio padre e mia madre tutti costretti a lavorare per il bene più grande, ed io non potevo mai vederli. Era la cosa più dolorosa a cui potessero sottopormi. Certo, nulla in confronto alle Variabili, ma era comunque doloroso.
La cosa più brutta era stata essere portata via dai miei cugini con una velocità assurda, divisi improvvisamente da quattro persone.
Ricordavo bene lo sguardo di mia cugina, che era praticamente una sorella per me, il suo “Andrà tutto bene, te lo prometto” e quel “Ciao” appena sussurrato.
Mio cugino, che era più piccolo di me, venne sottoposto solo al test per vedere se fosse immune o meno, poi venne spedito chissà dove, in preda a grida contrariate. Era terrorizzato, mi si stringeva il cuore al solo ricordo... e anche io ero terrorizzata per lui.
In quel posto, dove era praticamente un miracolo instaurare rapporti umani, Teresa, tutto sommato, per me era una sorella.
Ciò che non ho detto prima è che, nonostante Thomas e Teresa non avessero chissà quanto tempo libero a disposizione, quando l'avevano si prendevano qualche momento per rilassarsi. Allora si mostravano come dei normali ragazzi di 15 anni, interessati a tutto meno che al lavoro... anche se, purtroppo, il lavoro della C.A.T.T.I.V.O. ormai non li rendeva più tanto normali. Non per dei ragazzi geni come loro, come noi.
Teresa ed io spesso chiacchieravamo, la sentivo quasi come una sorella lì dentro, l'unica che si era avvicinata sin da subito a me, cercando di darmi un piccolo appoggio in un posto dove mi ritrovavo ad essere sola, circondata da persone che per me non rappresentavano nulla e nessuno.
Invece chiacchieravo un po' meno con Thomas, probabilmente perché avevamo un modo differente di vedere le cose. Che poi non era così tanto differente, entrambi odiavamo quel posto ma eravamo costretti a lavorare tutti per una causa comune.
«Guarda Eli, qui c'è la tua cartella!», disse Teresa, richiamando improvvisamente la mia attenzione. Odiavo quella sensazione di quando ti chiamano mentre sei sovrappensiero: ti sembra di cadere improvvisamente nel vuoto, anche se hai i piedi piantati a terra. Era seriamente fastidioso.
Feci per avvicinarmi, ma mi fermai. Entrambe sollevammo la testa, ci guardammo con gli occhi sgranati. Qualcuno era entrato nell'archivio.
«Oh cavolo!», sibilò lei, poi guardammo verso la grossa scrivania metallica non troppo distante da noi.
I passi di chiunque fosse entrato nell'archivio si fecero sempre più vicini a noi, riuscimmo ad intravvedere una luce a led farsi strada lungo il pavimento bluastro e liscio del corridoio.
Corremmo velocemente in quella direzione e ci nascondemmo sotto la scrivania, tappandoci la bocca per evitare che potessero fuoriuscire suoni.
Gli occhi di Teresa sembravano riflettere la debole luce che proveniva dal vecchio lampadario attaccato al muro dietro la scrivania. I suoi occhi luccicavano. Fu in quel momento che mi resi conto che forse il suo passato la tormentava ancora, ma decisi di non chiederle nulla. Non volevo risvegliare i demoni del suo passato.
«Aspetta... dove hai messo la mia cartella?», domandai sottovoce, notando che non aveva nulla in mano. Scrollò le spalle, facendo cenno con la testa verso il punto dov'eravamo prima... o almeno, così sembrava. Non ero molto sicura del punto che aveva indicato.
«L'ho messa a posto», rispose, sempre sottovoce.
Dovemmo aspettare diversi minuti prima di renderci conto del tutto che ormai non c'era più nessuno, ma uscimmo fuori solo dopo aver sentito la porta della stanza chiudersi.
Mi stiracchiai, guardandomi attorno per l'ennesima volta. La mia attenzione fu catturata da una richiesta.
«Ehi, Eli, posso leggere la tua cartella?», domandò Teresa tornando velocemente al punto di prima. Acchiappò la cartella ancor prima che potessi risponderle, cominciando quasi subito a sfogliarla.
Beh, tanto la mia risposta sarebbe stata sì. Non avevo nulla di che da nascondere, e poi la maggior parte delle cose lei le sapeva, o comunque le immaginava. Non avevo grossi segreti, non era mia abitudine averli.
L'unico con cui avevo qualche segreto, all'interno di quel posto, era il mio compagno di lavoro.
Con lui dovevo averli o avrebbe usato i miei punti deboli a mio svantaggio. Non potevo permetterlo, dovevo rendere orgogliosa di me la mia famiglia... dovevo vendicarli.
Teresa cominciò a leggere tutto a voce alta, con un tono quasi ironico. Erano cose di me che già conoscevo. Stato celebrale, carattere, dati personali, età.
Nulla di nuovo. Anche dopo i test le cose non erano affatto cambiate. Nemmeno di una virgola.
Guardai la scrivania. Era ancora piena di fogli e cartelle, proprio come la prima volta che avevo messo piede lì dentro.
«E questi?», domandai, prendendo un fascicolo a caso. Quello con la grossa D2.
“Per cosa sta D2?” era quella la domanda che c'era in quel dannato test.
«Quelli?» Teresa rimise a posto la mia cartella e si avvicinò. «Quelli sono i fascicoli di uno dei ragazzi che attualmente sta nel progetto del gruppo A, seguito da me e Thomas. Caspita, quel ragazzo era davvero un genio, ma non ha mai completato del tutto il progetto. O meglio, era stato interrotto perché le sue idee erano davvero dannatamente geniali.» Alzò lo sguardo verso i miei occhi. «Anche troppo. Il progetto lo chiamò D2. Sai per cosa sta?»
«Dolenti di tipo due, giusto? D sta per Dolenti, no? L'avevo letto su un foglio abbandonato su questa scrivania, la prima volta che mi avevano lasciata qui nell'archivio generale.» ››
«Esatto. D sta per Dolenti. I Dolenti sono stati inventati dallo stesso ragazzo che creò i D2.»
Corrugai la fronte. «Sul serio? Credevo che i Dolenti fossero stati creati in seguito al lavoro attento di scienziati e cose così.»
Lei scosse la testa e rise di gusto, come se le avessi raccontato la più bella barzelletta del mondo e non ridesse da settimane. «No Eli, esseri del genere possono essere creati solo da persone che provano un odio puro verso qualcosa del genere. Non te ne sei accorta? I Dolenti sono creature veramente crudeli e spietate. La parola “Dolente”, richiama proprio il dolore che possono causare, solo il nome ti fa pensare a quello. E poi tutte quelle braccia con strumenti da tortura. Quando ha creato quel progetto sicuramente ce l'aveva a morte col mondo intero, se poi aveva un passato come il nostro, se non peggiore, ne aveva tutte le ragioni, ti pare?»
Aprì il fascicolo, guardando attentamente il foglio che aveva davanti ed indicando alcuni passaggi. «Guarda qui quanta perfezione c'è in questo progetto. Tutto lavorato nei minimi particolari. Misure, spessore, varie impostazioni, forza, peso e tanto altro. Un macchina perfetta e spietata.
Poi, evidentemente non abbastanza soddisfatto, cominciò a lavorare di nascosto al progetto D2. Non doveva essere altro che uno stadio avanzato dei Dolenti, solo più forte, crudele, grande e grosso. Almeno credo. La C.A.T.T.I.V.O. vedeva in lui un grosso potenziale, ma decise comunque di metterlo alla prova nel progetto del Gruppo A, per testare fin dove la sua genialità e la sua intelligenza potessero arrivare in situazioni di stress e pressione. Perlomeno questa era la scusa. Ma c'è da dire che effettivamente da degli ottimi risultati. Va veramente forte per avere solo sedici anni.»
«Sedici anni? Ha la mia età ed è riuscito a creare quei cosi?»
«Beh, sì, avete la stessa età, ma a dire il vero quando ha creato “quei cosi” aveva quattordici o quindici anni ed era ancora qui. Tipo... lui è stato spostato nel test del Gruppo A l'anno scorso. Praticamente è andato via lui e poco tempo dopo sei arrivata tu. Sono sicura che saresti in grado di creare esseri del genere anche tu. Anzi...» Mi porse il fascicolo, scuotendolo per farmi cenno di prenderlo, cosa che feci qualche istante dopo. «Perché non studi il progetto e lo continui? Scommetto che farai un lavoro con i fiocchi!»
«Io lavorare al progetto D2...? Uhm...» Ci pensai su un pochino di tempo. Poteva essere una buona occasione per riversare il mio odio su qualcosa di veramente produttivo finalmente. Potevo prendere esempio da quel ragazzo e lavorare su qualcosa in grado di distruggere al posto mio ciò che odiavo... qualcosa di perfettamente letale per qualsiasi forma di vita, persino per sé stessa.
Strinsi il fascicolo tra le mani, nel mio sguardo si accese una scintilla particolare. Quella della vendetta. Avevo tra le mani l'occasione di essere... libera. In senso figurato, ovviamente, ma finalmente potevo lasciare che la mia mente vagasse senza dover essere legata a cose che non mi avrebbero portata da nessuna parte.
«Okay, ci sto.»
«Vorrai dire “ci stiamo”, semmai!»
Mi voltai, trovando il mio “compagno di squadra” poggiato tranquillamente ad uno scaffale impolverato.
«Da quanto tempo sei qui?», domandai con un'aria sicuramente poco felice di vederlo. Sentii ogni tratto di libertà fuggire via. Non volevo lavorare con lui anche a quello. Ma sopratutto, non volevo che questo diventasse un altro affare della C.A.T.T.I.V.O..
Per una volta volevo tenere una cosa per me, senza doverlo condividere con qualcun altro.
«Poco fa sono entrato, vi stavo cercando, ma non ho visto nessuno. In ogni caso sospettavo che foste qui e che temevate di essere scoperte, così ho fatto finta di uscire», disse, prendendomi il fascicolo dalle mani. «E così vuoi continuare il progetto D2?», domandò allora con un tono divertito.
Sospirai ed annuii, notando che Teresa aveva sollevato un sopracciglio come per dire “ma chi si crede di essere questo biondino?”
«Bene, quindi possiamo aprire una sfida a chi crea il mostro più potente, no?», domandò di nuovo.
Lo sguardo contrariato di Teresa rispecchiava perfettamente il mio. Non era per niente contenta della proposta, e come avevo detto prima, volevo che fosse una cosa solo mia, che non cadesse anche quello nelle mani della C.A.T.T.I.V.O..
Guardai Teresa come per chiederle un parere, ma aveva uno sguardo assorto nei suoi pensieri... probabilmente riguardante proprio questa storia.
Arricciai il naso. A pensarci bene... dovevo coinvolgerlo per forza.
O meglio, mi conveniva. Magari se mi avessero vista impegnata in quello avrebbero dato maggiori punti alla nostra “squadra”, ci avrebbero concesso un po' più di libertà... e con quella scusa avrei potuto scaricare parecchia della mia frustrazione. Esattamente come faceva il ragazzo che aveva cominciato il progetto.
«Okay», mormorai. Sapevo che lui avrebbe capito a cosa pensavo, ma sapevo anche che non poteva farci nulla. Da sola non avrei avuto il tempo di fare nulla, anche se avessi voluto provarci. In ogni caso era davvero un'ottima occasione per far vedere quanto valevo.
«Bene.» Mi rivolse un ampio sorriso, spostando poi lo sguardo su Teresa che, però, non sembrava entusiasta e non lo nascondeva.
«Spero che tu sappia a cosa stai andando incontro», disse lei con un tono freddo. «Se lavorate in coppia a questo progetto dovrete avvertire i superiori, almeno vi lasceranno fare in pace, ma pretenderanno in massimo da voi.»
«Io voglio dare il massimo a questa cosa», dissi, guardando Teresa negli occhi.
Probabilmente lei voleva solo cercare di sviare l'interesse del mio compagno, ma al contrario, lui sembrava essere più determinato che mai. Così concordò con me in modo silenzioso, limitandosi ad annuire.
Lei sospirò, rivolgendomi uno sguardo quasi compassionevole.

«Non hai idea di dove ti sei cacciata», sussurrò Teresa, esattamente accanto a me mentre Thomas controllava il fascicolo del progetto D2.
«Perché?»
«Perché la determinazione in un posto come questo porta solo guai, Eli.» Guardò Thomas con la coda dell'occhio, come se volesse accusarlo silenziosamente di qualcosa. «Sicuramente ora tutti si aspetteranno il meglio da voi. Poi, se vedranno in voi qualcosa di veramente buono, vi metteranno alla prova in modi impensabili. Ti basta pensare al ragazzo che ha creato questi progetti. Spedito nel Gruppo A, usato come un topo da laboratorio e la sua unica colpa è quella di essere stato così dannatamente geniale. Eli, i superiori ti tengono già d'occhio, non vorrei che questo comportasse uno spostamento nell'altro test.»
Thomas fece strisciare il fascicolo davanti a noi, aprendolo in una pagina precisa dove aveva appena scritto la data di quel giorno, segnando la fine del precedente progetto e da dove avrei continuato io.
«Accolgo questo progetto con molto entusiasmo», disse Thomas e incrociò le dita, poggiando i gomiti sul tavolo e guardandomi negli occhi con un sorrisetto a dir poco... bastardo.
Pensai che di fronte ad un sorrisetto del genere avrei dovuto rabbrividire, invece lo trovai quasi affascinante... forse perché lo vedevo come un sorrisetto di sfida, ed ero pronta ad accoglierla (consapevole che poco dopo probabilmente me ne sarei pentita).
«Ma ho una proposta allettante.» Schioccò la lingua sul palato. «Come ha detto quel biondino da strapazzo del tuo compagno di lavoro, prenderemo questa cosa come una sfida. Lavorerete assieme, come al vostro solito, sullo stesso progetto, ma dovrete dare il massimo separatamente. Mi spiego meglio: voi, sulla base di questo progetto iniziale, creerete una bozza di progetto tutto vostro. Il migliore sarà valutato come progetto finale, e da quello si deciderà chi dei due condurrà la reale progettazione e creazione dei D2.»
«Beh, mi sembra un ottima idea.» Mi ero aspettata di peggio.
Thomas sollevò un sopracciglio, mantenendo quel maledetto sorrisetto sulle labbra, che però aumentò in modo quasi spaventoso. «Non ho finito.» Sollevò l'indice per puntualizzare meglio il concetto di ciò che voleva dire. «C'è ancora un ultima cosa. Non so quanto questa potrà piacerti, però. Ma penso che renderà le cose ancora più divertenti e, chissà, magari potrebbe darci qualche risultato per le solite Variabili.»
Deglutii, guardando Teresa che, all'improvviso, si rivelò particolarmente interessata alle parole di Thomas. «Sarebbe?», domandai. Sentii il cuore cominciare a battere in modo veramente veloce, quasi volesse fuggire dal petto.
«Quello che non soddisferà le aspettative su questo progetto, e non si dimostrerà in grado di seguirlo, finirà nel test dei Gruppi A e B.»
Per un attimo mi sembrò che il tempo rallentasse per darmi la possibilità di metabolizzare bene la cosa. Lo fissai negli occhi.
Era dannatamente divertito e serio, la cosa sembrava mandarlo particolarmente in estasi. «Allora, ci stai?», chiese infine.
«Non mi piace molto l'idea di essere spostata in un altro test, se perdo questo confronto», ammisi, anche se in cuor mio sentivo di potercela fare a superare quella sfida. D'altronde sapevo che se mi fossi messa d'impegno sarei riuscita a tirar giù qualcosa di decente, quindi... ero abbastanza sicura di me.
Thomas rise in modo così rumoroso che pensai che l'eco della sua risata si fosse sentito fino ai piani alti. «Sono sicuro che tra te e il tuo compagno non sarai tu a perdere. Spero per lui che non sia qui perché sta già lavorando a questo progetto. Onestamente, ho molte aspettative su di te. Come un po' tutti qui dentro, se no probabilmente saresti già nel test del Gruppo B a lavorare dentro quelle quattro mura, e non qui assieme a noi. A parte il creatore dei Dolenti e qualche altro Soggetto, nessuno di così... uhm... straordinariamente intelligente è stato mandato in uno di quei due test.
Ma d'altronde, si sa, il creatore dei Dolenti è stato mandato lì non solo per vedere fin dove si sarebbe spinta la sua intelligenza, ma anche perché si sospettava una rivolta contro la C.A.T.T.I.V.O.. Non è stato molto sveglio nel nascondere il suo odio... doveva essere davvero allo stremo. Schioccò la lingua e scosse la testa.
Rabbrividii, capendo che dovevo evitare di dare a vedere che il mio desiderio era lo stesso, anche se probabilmente non sarei mai riuscita a vendicarmi di quel posto. E anche se fossi riuscita a farlo, dove sarei andata dopo? Non avevo un posto dove andare... non c'era un posto dove fuggire o nascondersi, tutto ormai era stato spazzato via da quel virus.
Era vero, la C.A.T.T.I.V.O. ormai era la nostra unica casa, l'unico posto dove il virus non era apparentemente ancora riuscito ad entrare, ma questo non rendeva quel posto più sopportabile.
Anzi, lo rendeva ancora di più un carcere.
Sospirai, annuendo con fare distratto sebbene non mi fosse stata posta nessuna domanda. «Okay, va bene.»
«Eli, tanto tu non finirai mai in mezzo a quel test, sta’ tranquilla», disse Thomas, cercando di rassicurarmi. Non era quello a preoccuparmi, o meglio, anche, ma ciò che più mi preoccupava era il fatto di non poter uscire da quel posto. Non avrei mai rivisto riabbracciato la mia famiglia. Quello era un pensiero che ogni volta che si palesava nella mia mente mi distruggeva come poche cose riuscivano a farlo.
Tra noi tre, forse l'unica che si preoccupava che potessi finire nel test dei Gruppi A e B era Teresa. Sia perché aveva ancora un briciolo di coscienza, sia perché era come una sorella per me, era piacevole in un certo senso che ci preoccupassimo l'una dell'altra in quel modo.
Thomas invece era piuttosto fiducioso, e questo mi dava un po' di forza.
Ma cosa ne sarebbe stato del mio compagno di lavoro?

Passai le ore dopo a studiare il progetto D2 in una stanza silenziosa sul lato destro del corridoio principale. Era talmente silenziosa che mi permetteva di sentire il battito del mio cuore aumentare man mano che leggevo i dettagli con la quale era stato progettato.
Ogni cosa era studiata in modo da creare dolori lancinanti ovunque quegli esseri avessero colpito. In determinati punti c'erano grosse cancellature di parti che poi, in seguito, Erano state modificate e migliorate. Erano proprio delle bozze di un progetto inconcluso.
Tenaglie allungabili sui lati della creatura, nascoste sotto la pelle viscida e corazzata, che scattano fuori a loro comando. Alle estremità delle tenaglie, punte dentate di metallo, in grado di rilasciare il veleno in seguito alla puntura, assieme al rilascio di spine metalliche.”
È davvero un progetto perfetto, sebbene questa sia una bozza», mormorai tra me e me, continuando a leggere anche le parti con quella cancellatura. I disegni, poi, erano tutto meno che rassicuranti. Quanti scheletri nell'armadio poteva nascondere una persona in grado di pensare esseri del genere?
Alzai la testa e poggiai i gomiti sul tavolo. La mia testa decise di prendersi una pausa da tutto quel casino mentale che si stava formando, mentre la mia fantasia prese il largo tra gli appunti di quella bozza che stavo leggendo.
C'erano mille modi in cui potevo migliorare quel progetto, avrei fatto di tutto pur di far vedere quanto valevo... ma il mio vero scopo sarebbe stato quello di vendicarmi di tutto ciò che stavo subendo.
In quel momento decisi ufficialmente che quel progetto sarebbe stato come una sorta di valvola di sfogo.
Lì dentro avrei dipinto le peggiori torture che potessero passarmi per la testa, dando sfogo all'odio più profondo che portavo dentro il mio cuore.
La C.A.T.T.I.V.O. d'altronde me ne faceva provare parecchio.
Avrei vendicato la mancanza dell'amore materno e paterno che la C.A.T.T.I.V.O., per la sua falsa speranza di trovare una cura tramite test su ragazzini immuni, mi aveva strappato via.
Per avermi costretta a crescere prima del tempo... per aver portato via i miei cugini e averli fatti sparire chissà dove.
Per Evangeline, che ancora soffriva per l'assenza di Jillian, che ormai non si vedeva da quando le avevano modificato il colore degli occhi e dei capelli tramite chissà quale esperimento andato male.
Per quel ragazzo che avevo visto sullo schermo di un computer, l'anno prima, al cui solo ricordo provavo ancora una morsa al petto.
Il suo sguardo carico di dolore ogni tanto mi ritornava alla mente, facendomi stare male. Molto male... in modo anche sbagliato, visto che nemmeno lo conoscevo.
Mi presi la testa tra le mani, massaggiandomi le tempie, poi mi poggiai al tavolo. Presi seriamente in considerazione l'idea di schiacciare un pisolino.
«Che fai, dormi?», sentii una vocina squittire accanto a me, poi una risatina. «Ce l'hai di vizio allora!»
«Eva, non dovresti studiare uno di quei test strambi che Janson ogni tanto ti rifila?», brontolai. Volevo ribellarmi per la mia necessità di sonno, ma tanto ad Eva la cosa non avrebbe fatto né caldo né freddo. Lei era così menefreghista che a volte l'idea che non fosse umana mi sfiorava la mente.
«Sì, ma l'ho finito in poco tempo. Ehi, io sono un piccolo genio, ricordi?», disse picchiettandosi la tempia e tirandosi su gli occhiali. «Sono andata a trovare Jill, è ancora chiusa nella sua camera. Fa quasi paura, fissa la parete con espressione vuota. I suoi occhi sono... spettacolari, a dire il vero, ma con quei capelli rosa sembra essere uscita dritta dritta da un anime giapponese!»
«Ci stavo pensando giusto adesso a Jill.» Mi tirai su dalla sedia, guardando la faccia di Eva.
Il suo sorriso era immenso, non mascherava per niente la felicità di aver rivisto la sua amica.
«È molto lontana da qui la sua stanza?», domandai. Sapevo che l'avevano spostata in una camera più sicura in modo da poterla tenere di più sotto controllo.
A quanto avevo sentito stavano studiando bene le sue reazioni celebrali e stavano dando buoni risultati, persino maggiori delle aspettative... sempre se c'erano aspettative su quella sorta di test che le avevano fatto.
Eva scosse la testa. «No, è qui vicino. Vieni con me!»
Ed era veramente dannatamente vicino. Il corridoio accanto, le scale che portavano al piano superiore, poi una svolta a sinistra, una a destra ed ecco la stanza.
C'era un enorme portone bianco con un vetro in alto che permetteva di vedere all'interno della stanza.
Jill era lì, seduta su un letto bianco, i suoi lunghi capelli rosa terminavano poco sopra il bacino. Erano legati nelle sue mille treccine afroamericane, tutti tirati indietro.
Eva bussò alla porta, non si sentii né un“Avanti” né un'altra singola parola. Solo una risatina da parte di Jill, che Eva tradusse come un “Avanti” ed entrò nella stanza.
«Eva, insomma, ti ho già detto che qui non potresti stare! Ti caccerai nei guai così facendo, lo sai vero?» Jill si girò verso di noi. I suoi occhi... erano davvero stupendi, però effettivamente sembrava un personaggio di un anime. «Oh, ciao Elizabeth!»
«Jill... hai recuperato la vista?»
«Quasi del tutto, finalmente.» Fece un respiro profondo, portandosi una treccina davanti agli occhi e fissandola. «Vorrei recuperare anche il colore dei miei capelli, se devo essere sincera... ma non si può avere tutto dalla vita, no?», sorrise amaramente.
Jill aveva una pelle color latte, quel rosa sui suoi capelli, per quanto le donasse, sicuramente non era ciò che voleva lei.
«Consolati, non stai male», disse Eva, cercando di consolare l'amica. L'unica cosa che ottenne fu un sorrisetto piuttosto falso, ma che cercò di sembrare il più possibile vero. «Odio quei bastardi», concluse, provocando una risatina da parte di Jill.
«Beh, ora sembrerò ufficialmente un cono gelato al fior di latte e fragola», cercò di ironizzare quest’ultima. «Ricordate quanto fosse buono il gelato?» Assunse un espressione quasi sognante, poi tornò subito seria, sospirando. «Ne vorrei davvero uno in questo momento. Beh... so cosa voglio per il mio ventesimo compleanno! Anche se dovrò aspettare ancora un anno, visto che ho compiuto da poco diciannove anni... beh, ne varrà la pena!», ridacchiò, poi scosse la testa e mi guardò con fare curioso.
Jill solitamente era una persona seria e di poche parole, di rado parlava così tanto in presenza di qualcuno che non fosse Eva... questo però non la rendeva una persona antipatica, anzi, tutto il contrario.
«Elizabeth, è vero che lavorerai al progetto D2?», domandò Jill. «Ho sentito Thomas parlarne con Janson.»
Annuii, allora il suo sguardo si congelò. Sospirò. «Ho visto di cosa si tratta quel coso... fai un buon lavoro, almeno, non voglio che tu finisca affidata ad un altro test e corra il rischio di diventare un fenomeno da baraccone come me. E tutto per un errore di passaggio.» Sospirò di nuovo, ma si riprese subito. Tornò seria e fredda, si mise in piedi e guardò oltre a noi.
Si sentii un colpo di tosse.
«Ah, ecco a cosa era dovuta tanta serietà. Ciao Janson, mio vecchio e adorato malandrino!», esordì tranquillamente Evangeline, concludendo la frase con un finto squittio.
A volte mi chiedevo se quella ragazza fosse normale o se le piacesse così tanto provocare.
Jillian schiocò la lingua e la guardò in modo così freddo che pensai che volesse farle esplodere la testa.
Janson non ebbe nemmeno il tempo di rispondere che Eva mi afferrò la mano e mi costrinse a seguirla. Cominciò a correre più veloce che poteva.
Andava a memoria, era incredibile il modo in cui si destreggiava tra i corridoi. Non sbagliò nemmeno di una virgola la strada, prendeva perfettamente le distanze da muro a muro senza colpirne uno nemmeno con i lacci delle scarpe.
Facevo fatica a reggere il suo passo. Avevo il fiatone, lei un respiro perfettamente regolare. Sentivo dolore lungo i polpacci, lei sembrava stare da Dio.
«Eva!», dissi ansimando, allora lei si fermò, permettendomi di riprendere fiato.
«Sbrigati a riprenderti, tra poco arriveranno i gorilla!», disse, guardando dietro di me. «Sbrigati Elizabeth!» Sembrava essere seriamente preoccupata.
«Intendi le guardie, vero?»
«Aaah, gorilla, guardie, uomini grandi come armadi a quattro ante, chiamali come ti pare, basta che ti muovi!»
Sospirai e lei mi riprese la mano, ricominciando a correre.
Altra corsa che per me era completamente alla cieca, ma lei a quanto pareva sapeva benissimo dove andare.
Dopo non so quanto tempo, finalmente, ci fermammo. Ci accasciammo contro la parete e strisciammo verso il basso, sedendoci sul pavimento.
Respirammo profondamente. Sentivo il mio cuore battere all'impazzata, temevo profondamente di avere un infarto o qualcosa del genere.
«Okay, non farlo mai più!», dissi, guardandola.
Lei rise, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, osservò la porta alla fine del corridoio mentre si apriva.
George uscì, aveva i vestiti stropicciati ed incasinati. Si sistemò i capelli, poi passò a dritto, facendo finta di non vederci nemmeno. Più o meno. Mi rivolse un occhiataccia degna di nota.
«Quello è il fratello di Rachel?», chiese Eva, osservando in modo seriamente poco indiscreto il fondo schiena di George.
«Sì, quello è George, ed ha una passione segreta per le occhiatacce.»
«Ha un culo da paura» Assunse un espressione di apprezzamento, sollevando entrambe le sopracciglia. «Ed è davvero dannatamente bello. Dovresti farmelo conoscere!» Si girò a guardarmi, cercando di sembrare il più tenera possibile. Purtroppo per lei, qualsiasi faccia cercasse di assumere rimaneva buffa, così scossi la testa e scoppiai a ridere
«Non penso che andreste d'accordo, anche volendo. E poi io e lui non parliamo molto... anzi, non parliamo affatto. George è sempre per i fatti suoi e–»
Sentii la porta chiudersi di nuovo, ma non vidi uscire nessuno. Guardai Eva come per chiederle se avesse visto qualcosa, ma lei scosse le spalle.
«Magari è un po' di vento», azzardò.
«Vento?» Sollevai un sopracciglio. «È più facile vedere Janson che gioca a nascondino con Thomas piuttosto che del vento che fa sbattere le porte, qui dentro.»
«Okay, allora in quella stanza c'era George che se la spassava con qualcuno. Oh, santo cielo, beata chiunque fosse», disse con aria sognante. «Me lo mangerei tutto in tanti modi diversi!»
«Evangeline!»
«Che c'è? Sono sincera! Ma dico, l'hai visto? È un figo da paura!»
Risi ancora, poggiando la testa contro la parete. «Okay, prometto che te lo farò conoscere, prima o poi.»

E invece quella promessa non venne mai mantenuta.
Il giorno dopo Eva scomparve.
La cercai ovunque per tutta la base della C.A.T.T.I.V.O.
Chiesi a Jillian se l'avesse vista.
Chiesi a Janson, ma rispose un semplice “Forse”.
Chiesi a chiunque, ma nessuno mi diede una risposta vera.
«Tutto okay?», chiese il biondino davanti a me, mentre finalmente, dopo un ora di silenzio, sollevava il volto da quel foglio bianco che aveva davanti.
L'avevano avvisato dei piani che Thomas aveva per noi, riguardo al progetto D2, e ci avevano dato una settimana di tempo per lavorarci. Una decisione presa però da Janson, visto che Thomas avrebbe voluto darci un po' più tempo.
«Mh-mh», risposi, sospirando.
«Vedrai che la tua amica sta bene, Eli, magari l'hanno spostata in un altra base. Sai bene che la C.A.T.T.I.V.O. ha diverse basi anche in zona!»
«Sì, ma lei apparteneva al nucleo centrale principale, come noi, lo sai bene.»
«Beh, ieri ha veramente fatto girare le scatole a Janson, sai bene anche tu che Evangeline lo provocava di continuo», ridacchiò, cercando di sdrammatizzare la cosa. Non ci riuscì.
Evangeline era stata praticamente la mia migliore amica lì dentro.
Per quanto passassi la maggior parte del mio tempo a lavorare ai vari progetti e ai test che mi proponeva la C.A.T.T.I.V.O., in qualche modo, ogni volta che potevo, mi ritagliavo un po' di tempo da passare con lei.
Tenevo a lei come tenevo al mio compagno di lavoro, che lì dentro, anche se era il mio rivale, era come il mio migliore amico. O almeno, io lo consideravo tale.
«E dai, fammelo un sorriso.» Corrucciò le labbra. «Uno e basta!» Continuò con questa solfa per un'ora buona, finché, stufa di sentirlo, non gli rivolsi il sorriso tanto atteso.
«Speriamo che stia bene sul serio», dissi infine, facendo sparire il mio sorriso falso pochi secondi dopo.
«Ma sì, vedrai, Evangeline è una ragazza forte e lo sai bene anche tu.»
«Penso che sarà offesa a morte con me», risi, tirando indietro i capelli con la mano. «Le avevo promesso di presentarle un ragazzo.»
«Ah sì? Chi?», sorrise, abbassando di nuovo lo sguardo sul foglio.
«Il fratello di Rachel, George.» Scrollai le spalle.
Lo vidi trasalire, sollevando lo sguardo lentamente. I suoi occhi color verde oliva all'improvviso si spensero, come se avessi detto una parola magica che aveva annullato ogni traccia di vitalità in lui.
«Perché?», domandò con un tono distaccato.
«Beh... ieri l'abbiamo visto uscire da una stanza e lei dice che lo trova carino, niente di che... perché me lo chiedi con questo tono?»
«Avete visto altro?»
«No... ma ora mi metti paura. Che c'è?»
«No, niente, così, semplice curiosità», mormorò, arrossendo leggermente.
«Da come l'hai detto pensavo che fossi geloso», risi, ed allora notai che arrossì ancora di più. Schiusi le labbra, indicandolo con la penna accanto a me. «Okay, cosa mi stai nascondendo?»
«Io? Niente, pensiamo ad iniziare questa benedetta bozza e chiudiamo qui questa discussione che sta prendendo una piega un po' strana», brontolò, prendendo velocemente il fascicolo col progetto D2.
Lo tirai via dalle sue mani, fissandolo negli occhi. «Dov'eri ieri sera?»
Corrugò la fronte. «Dormivo», rispose con un tono fermo e convinto.
«Ah sì? Dormivi?»
«Sì, dormivo.» I suoi occhi tremavano nel tentativo di reggere il mio sguardo. Conoscevo quel segnale, non riusciva a stare fermo. Le sue mani tremavano.
«Sii sincero con me», dissi infine, cercando di convincerlo. Volevo che si fidasse di me come io mi fidavo di lui... e, a detta sua, si fidava ciecamente.
Sospirò e si guardò attorno, mormorando qualcosa che non riuscii a capire nonostante fossimo a pochi centimetri di distanza.
Scossi la testa e lo guardai, sollevando un sopracciglio. Non ci fu bisogno di dirgli esplicitamente “non ho capito”.
Sospirò di nuovo, in modo più rumoroso. «Ero in quella stanza con George.»
«E...?»
«E niente... ti devo fare un disegnino dettagliato?»
«Beh, tutto questo mistero per dirmi che cosa?» Sollevai di nuovo un sopracciglio, incrociando le braccia. «Che sei gay? Wow, capirai il problema! Che facevate in quella stanza?»
Arrossì ancora di più... capii che forse potevo immaginarlo da sola. Allora abbassai lo sguardo e diedi un finto colpo di tosse, mormorando un “Okay, ho capito”.
Scoppiò a ridere e scosse la testa. «Ci guardavamo in faccia... secondo te?»
«Ho capito, ho capito.» Risi anche io, sollevando appena lo sguardo. «Da quanto state assieme?»
«Non stiamo assieme», mormorò. Il suo sguardo si spense. «Non so cosa siamo, onestamente. Sono solo scappatelle, nulla di che, poi non mi calcola più fino a quando non ci ritroviamo di nuovo... in quella situazione.»
Provai pena per lui. C'era una sola cosa che poteva andare bene in tutta quella situazione? Sembrava andargli tutto storto.
«È tutto okay?», domandai quando notai che tra di noi, da dieci minuti buoni, era calato il silenzio.
Si limitò ad annuire distrattamente, poi sollevò lo sguardo verso di me, rivolgendomi un sorrisetto. «Vado in camera mia a lavorare al progetto. Ci vediamo dopo.»
«Okay», mormorai, guardandolo allontanarsi.

Passò una settimana di tempo, ci ritrovammo faccia a faccia con i nostri progetti in mano ben avvolti a mo' di pergamena, stretti in un elastico rosso.
«Sei agitato?», chiesi per spezzare il silenzio. Lui scosse le spalle con noncuranza.
Eravamo fuori dalla stanza dei piani alti, da lì a pochi minuti avrebbero valutato i progetti e deciso chi avrebbe condotto i lavori sul progetto del D2 e chi, probabilmente da quel momento in poi, se non avesse soddisfatto le loro aspettative, sarebbe finito nel test dei Gruppi A e B.
Una ragazza aprì il portone che dava sul corridoio. Aveva un camice bianco che arrivava fino ai piedi.
Ci rivolse un sorriso (palesemente forzato) e indicò la cartellina che aveva tra le mani.
«Voi due siete Justin ed Elizabeth, vero? Prego, potete entrare.»



{L'angolo dell'autrice}
Salve pive!
Sono tornata (finalmente) con un nuovo capitolo!
Okay, okay, avete il diritto di mandare i dolenti, siete autorizzati, mi farò trovare sulla soglia della porta solo per voi, promesso!
Seriamente parlando, anche se sparisco e ci sono poco su EFP (capitemi, la scuola mi riempie di impegni durante tutta la settimana), giuro che non mordo nelle risposte alle recensioni, non vi ucciderò se vi lamentate o cose così. Al contrario, mi fanno piacere ^^
Chiedo venia per il capitolo, questo era solo un breve sguardo al passato. Serviva solo a far capire un po' di cose (o forse no?).
Cercherò di far uscire il prossimo capitolo il prima possibile, promesso!
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