II
Nove
mesi dopo quel matrimonio indimenticabile, anche se non nel senso positivo della parola, Branwen stringeva tra le braccia una
piccola bambina strillante, che reclamava insistentemente di essere nutrita. A
vederla appena nata, non era tutta questa bellezza, ma la madre in cuor suo era
convinta che sarebbe diventata una vera meraviglia. Il padre, appena sentiti
gli strilli acuti di un neonato provenire dalla camera della moglie, si
precipitò da lei con il cuore in gola. Era ansioso e spaventato allo stesso
tempo, non aveva mai avuto altri figli e aveva paura che qualcosa potesse
andare storto. Non era preoccupato tanto per la madre, ma per il figlio. Il
figlio. Doveva essere un maschio. Assolutamente un maschio. Si era sposato
per questo e per nessun altro motivo: poteva avere nel suo
letto tutte le donne che desiderava anche prima del matrimonio, non
aveva bisogno dell’amore e dell’affetto di nessuna moglie, ma necessitava di un
erede legittimo. E doveva essere un maschio, per accollarsi, una
volta cresciuto, parte dei doveri del padre. Balor, infatti, era stanco,
tremendamente stanco del suo lavoro; ogni volta sempre la stessa cosa, era da
tutta l’eternità che andava avanti così e ora da solo non ce la faceva più. Gli
umani erano continuamente destinati a morire a causa della loro natura fragile e
doveva esserci per forza qualcuno che ne prendesse
l’anima e la trasportasse nella loro destinazione finale. Sarebbe stato più
semplice e meno faticoso se il dio della morte avesse avuto un aiutante.
Entrato
nella stanza, vide la bella moglie rossa in viso e con ciocche di capelli
sudati che le ricadevano scomposti sulla fronte bagnata. Sapeva essere stupenda
anche in quel momento. Stringeva tra le braccia una creatura minuscola, che
Balor difficilmente immaginava come il futuro aiutante del dio della morte.
Branwen stava cullando dolcemente la creatura e gli occhi le brillavano per la
felicità; anche il suo consorte era felice, si avvicinò a lei e accarezzò la
piccola sulla testolina, dalla quale spuntavano un paio di ciuffi bianco
candidi.
-mi
piacerebbe chiamarla Badb- la voce della dea era bassa
e più dolce e soave del solito, mentre guardava incantata la sua bambina. Non
notò lo sguardo di disappunto del marito.
-la?
Mi state dicendo che è una bambina?- nella voce di Balor si poteva
leggere una pesante nota di rabbia e collera. Dov’era
il suo erede? Cosa se ne faceva lui di una femmina?
-sì,
caro, è una bellissima bambina. Non siete felice?- gli
occhi di Branwen si erano spostati dalla figlia al marito ed ora avevano
cambiato completamente espressione, adesso erano furenti per le parole del dio.
Rispose alla rabbia del marito con un tono di accusa
che lasciava spazio a ben poche repliche. Il marito non rispose, ma
semplicemente uscì dalla camera con il volto più scuro e ombroso di sempre,
terribilmente deluso dalla nascita di quella bambina.
Quella
stessa scena si ripeté per altre due volte. A distanza di una decina di mesi
dalla prima, chiamata poi Badb, nacque Macha, la secondogenita. Per concludere il trio, dopo circa un anno di distanza da Macha,
arrivò anche Nemain. Erano tre bellissime bambine, ma Balor odiava tutto
questo. Provò e riprovò ma la moglie non rimase più incinta. Dovette così
accontentarsi di tre figlie femmine e non smise mai di rinfacciarlo alla povera
Branwen, che al contrario di lui era al settimo cielo
e non batteva ciglio davanti alle accuse del suo infelice sposo. Tutti i
servitori degli dei erano a conoscenza della
frustrazione del dio della morte, anche se egli si confidava solo con il timido
Tonke.
-cosa
posso fare? Volevo un maschio che potesse
alleviare il mio peso, non tre femminucce! Non mi servivano altre tre dee
dell’amore sull’isola!- gli stava salendo la rabbia
che aveva cercato di reprimere fino a quel momento e il povero Tonke cominciava ad aver paura dei suoi sbalzi d’umore.
-non
lo so, mio signore, se proprio non ci sono più speranze che nasca un figlio
maschio, potreste sempre ricorrere ad un’amante e
riconoscere il figlio bastardo, non sarebbe la prima volta che accade
sull’isola
-no,
non potrei mai! Lo saprebbero tutti che non è mio
figlio legittimo! Non sarebbe rispettato! Ho bisogno di un erede legittimo!
-allora
non lo so proprio… non credo che potreste educare le vostre figlie al vostro
lavoro, non è proprio un mestiere che conviene a una
donna- una risatina nervosa proveniva dalle labbra del servo. Un’idea iniziava
a farsi strada nella mente del dio. Infondo erano pur
sempre delle piccole dee, perché non potevano diventare tre dee della morte,
invece che tre dee dell’amore? Senza nemmeno rispondere al
servitore, che rimase lì impalato senza nemmeno avere il tempo di fare un
inchino al dio che usciva dalla sala, corse dalla moglie che giocava con le
bambine. Branwen stava tenendo in braccio la più piccola, Nemain, mentre
Olimpia nutriva Macha e Badb, già più grandicella, giocava con l’orlo ricamato
della veste della madre, sul letto, vicino a lei. La dea e la sua serva
girarono di scatto la testa verso la porta che si apriva violentemente e Olimpia,
quando riconobbe la figura che stava entrando nella stanza, prontamente fece un
inchino con la testa; la piccola Nemain si spaventò, a causa del rumore della
porta, e iniziò a piangere e a urlare a squarciagola
tra le braccia della madre. Branwen si accigliò per la maleducazione del marito
e se la prese con lui.
-non
potreste entrare con un po’ più di grazia e delicatezza, almeno nella camera
delle bambine?- aveva smesso di essere gentile con lui
da dopo la nascita della seconda bambina.
-entro
come mi pare e piace, cara moglie, e adesso fate smettere questo rumore
insopportabile!
-vi
ci dovreste essere ormai abituato a questo rumore insopportabile dopo tre
figlie- il tono di Branwen era calmo e pacato, ma si
poteva udire una venatura di cipiglio e risentimento verso il freddo marito.
-già
tre figlie! Tre figlie femmine. Non siete stata nemmeno capace di darmi un
maschio, ma adesso ho io la soluzione
-di cosa state parlando? Non vi lascerò toccare le mie
bambine!
-fino
a prova contraria sono anche le mie bambine! Quindi vedete di cambiare
linguaggio e di iniziare a usare la parola nostre
-e da dove viene fuori tutto questo vostro interesse per
loro?
-saranno
le mie eredi. Diventeranno il mio braccio destro. Appena
avranno compiuto tutte cinque anni, le educherò io, come più mi aggrada. Mi
avete capito?- la dea sgranò gli occhi, ma si
ricompose immediatamente.
-sì,
ma non ho intenzione di ascoltarvi. Non me le porterete via e non ne farete dee
di morte e di disperazione come voi! Non lo permetterò!- la
voce della dea adesso era forte e acuta, disperata quasi. Sapeva
benissimo che le sue erano solo vuote minacce, Balor avrebbe fatto comunque quello che voleva e nessuno lo avrebbe mai fermato.
Anche lo stesso dio ne era consapevole, tanto che non
le rispose nemmeno, come se non l’avesse nemmeno sentita, e uscì dalla porta,
con la stessa violenza con cui era entrato e questa volta tutte e tre le
bambine iniziarono a piangere. Olimpia era sconvolta quanto Branwen, non
riusciva a credere che un padre potesse fare una cosa del genere alle figlie e
alla moglie. La povera Branwen invece era completamente distrutta da quella
decisione, presa così all’improvviso, e iniziò a piangere silenziosamente; le
lacrime perlacee le rigavano delicatamente il viso, rendendola, se possibile, ancora
più bella, nonostante la sua palpabile sofferenza, e scesero lente sulla nuca
della piccola Nemain che piangeva. L’unica cosa che ancora la consolava era il fatto che mancasse ancora tempo al quinto compleanno
di tutte e tre le figlie e nel frattempo Balor avrebbe anche potuto cambiare
idea o lei gli avrebbe dato il tanto desiderato figlio maschio.
Grazie a _sefiri_ per aver commentato il primo capitolo! Spero che
anche questo ti sia piaciuto! Grazie anche a chi ha solo letto, anche se un commentino lo potreste anche lasciare, tanto che cosa vi
costa??? Bye^^