Armida aveva
realizzato il suo sogno: era partita, era a Vancouver adesso, ed aveva
il lavoro
che desiderava da una vita.
Sei
felice Armida? Le chiedevano
E lei
rispondeva che sì, era felice. Presa dai ritmi frenetici del
lavoro e dalle
tante nuove conoscenze, non aveva motivo per pensare altrimenti.
Ma la vita
cominciò ad adattarsi alla nuova routine e i pensieri si
impadronirono
costantemente di quei pochi momenti liberi che poteva concedersi.
Pensava alla
sua famiglia, ai suoi amici, al suo cane Thor, alla sua casa, alla sua
città,
alla sua collezione di fumetti dimenticata su una mensola nella
confusione
della partenza, alle foto che invece aveva fortunatamente ricordato di
portare
con se.
Armida amava
fare foto, vedere come qualcosa di sfuggente ed effimero come un
semplice
istante di vita
potesse rimanere
impresso per sempre sulla carta lucida. Se avesse potuto avrebbe
fotografato ogni
singolo attimo: voleva poter sempre ricordare il volto di una persona
che non
vedeva da tanto, un momento importante o anche solo le piccole cose di
ogni
giorno. Così scattava sempre un infinità di foto
alle persone cui voleva bene,
per poter imprimere ogni momento passato con loro.
Aprendo gli
scatoloni che si era portata dietro, cominciò ad estrarle
una ad una e ogni
volta si perdeva ad ammirarle, ad osservare minuziosamente ogni
più piccolo
dettaglio, poi le riponeva con cura su di una mensola o sulla cornice
del
caminetto, sfoggiandole come fossero i suoi più importanti
trofei.
Sulla prima
che aveva trovato c’erano i suoi fratelli. Avevano litigato
tanto, ma erano
rimasti molto legati e cinque giorni dopo il trasloco se li era
ritrovati davanti casa ed erano
rimasti con lei per qualche mese. Fu doloroso
separarsi, tanto che inizialmentei tre cercarono di dissuaderla
dall’accettare il
lavoro. Alla fine però si rassegnarono all’idea di
lasciarla andare.
Altre foto,
altri volti. Amici, parenti, conoscenti e un intero set di foto fatte
al suo
cucciolo Thor, un enorme alano che pesava molto più di lei.
Ne aveva
trovate molte con i compagni di studi, fra loro anche Emile, un ragazzo
francese che un estate aveva pagato per tutti i suoi amici una vacanza
nella sua
terra natale, facendo innamorare Armida di Parigi e anche di
sè. Era durata
poco fra loro.
Era stato un
periodo magnifico quello, come non le capitava da tempo e si era
divertita, si
era divertita tanto. In una foto c’era anche Claudio, il
ragazzo che lavorava
con lei alla tavola calda quando nessuno dei due aveva abbastanza soldi
per
pagarsi gli studi e che la aiutava nelle materie noiose.
Continuò fino a quando le due grosse scatole non furono vuote. Fra tutti quei volti però ve ne era uno che non compariva mai, se non in una vecchia foto del liceo: Giuliano.
Armida non
era mai riuscita a dare un nome al loro rapporto. Era iniziato tutto al
terzo
anno di liceo, all’inizio lei non gli dava corda ma poi poco
a poco erano
diventati buoni amici e si cercavano ogni giorno. Più avanti
erano arrivati ad
essere stretti confidenti: si raccontavano ogni dubbio, ogni paura,
ogni
segreto. Si consolavano a vicenda per i propri drammi e, quando tutto
andava
bene, amavano prendersi in giro l’un l’altro, tanto
che molte volte la gente si
chiedeva se stessero litigando davvero o fosse solo uno scherzo.
Purtroppo poi,
come fu prevedibile, per Giuliano si trasformò in
qualcos’altro e, se
all’inizio lei si convinse che non era così,
arrivò un momento in cui era
inutile continuare a fingere. Le loro strade si separarono e Armida
ebbe un
tuffo al cuore. Qualcosa dentro lei si incrinò
quando si rese conto che non potevano più avere
quello che c’era stato
prima. Quando si erano rivisti, avevano stipulato un tacito accordo per
provare
a recuperare qualche briciola di quello che avevano perduto. Non fu
facile, e
sapevano bene che non sarebbe mai più stato lo stesso. Si
erano spezzati il
cuore a vicenda quella fatidica sera di agosto.
In un modo o
nell’altro riuscirono a restaurare una parte del loro legame.
Non si vedevano
mai con costanza, a volte capitava che stessero insieme ogni giorno,
altre
volte non si sentivano per settimane intere, ma a loro andava bene
così. Quando
si vedevano parlavano e parlavano, solo che stavolta soppesavano bene
ogni
parola e un lieve timore sembrava aleggiare sulle loro conversazioni,
per paura
che anche una sola distrazione avrebbe potuto soffiare via quel sottile
equilibrio.
Ma la crudele
ironia del destino volle che stavolta fosse il cuore di Armida ad
esigere qualcosa
di più. La ragazza andò nel panico. Non voleva
ferirlo di nuovo e non voleva
ferire se stessa. Così, dopo mesi passati a struggersi fu il
tempo a decidere
senza che nessuno dei due se ne rendesse conto: gli anni del liceo
erano finiti.
Come sempre
succede, furono inutili le promesse di non perdersi di vista. Si
scambiavano
messaggi una o due volte l’anno, ma Armida non era ancora
riuscita a sopire
tutte le sensazioni che provava e così ogni volta che
scorgeva il suo viso tra
la gente, cercava di ignorarlo e cambiava strada. Tre anni dopo, Armida
aveva
già le valigie pronte per Vancouver. Giuliano non
l’accompagnò all’aereoporto
ma lei non se ne dispiacque; sapeva che non l’avrebbe fatto e
sapeva anche che
forse, agli occhi del ragazzo, le emozioni contrastanti che la
divoravano da dentro
erano fin troppo trasparenti, ma ormai aveva deciso e non avrebbe
cambiato idea.
Si erano
scambiati poche parole in quell’ultima serata, trascorsa a
sorseggiare birra
ghiacciata sulla spiaggia.
-
Non
abbiamo nessuna foto insieme. –
disse rompendo il pesante silenzio che si era creato.
-
Abbiamo
quella vecchia foto di
classe. – le aveva risposto lui fissando il mare.
Armida
scosse la testa: non aveva smesso di pensarci un attimo.
-
Ho
centinaia di foto con ognuno dei
miei amici... solo conte non ne ho nessuna. –
-
Ma
noi non siamo amici. – disse lui.
- Cosa siamo allora? –
Non ebbe mai una risposta a
quella domanda.
-
Ti
voglio bene. Non c’è bisogno di
fotografie, lo sai meglio di me. Cosa credi, che
dimenticherò tutti i tormenti
che mi hai fatto passare solo perché non ho una foto?
– Le sembrò di vedere
un mezzo sorriso
sul suo volto mentre lo diceva.
Armida
accennò una risata a sua volta,
quelle parole l’avevano un po’ rincuorata, anche se
non sapeva bene come
interpretarle.
-
Ti
voglio bene anche io. – disse
prima di alzarsi per tornare a casa.
Avrebbe
voluto aspettare ancora un po’, parlare ancora con lui,
abbracciarlo e dirgli che le dispiaceva e che non sapeva come avrebbe
fatto
senza averlo più accanto, ma non ci riuscì.
Giuliano era l’unico che la
conoscesse meglio di tutti, forse anche meglio di se stessa. Non
c’era persona
di cui si fidasse di più; mai a nessuno aveva voluto bene
quanto ne voleva a
lui e forse mai più ci sarebbe riuscita...
Le sarebbe
piaciuto poter cambiare le cose, ma non aveva avuto il coraggio allora
né lo avrebbe avuto mai.
Avrebbe per sempre portato con sè questo rimorso. Quando le lacrime premettero
per scendere dai
suoi occhi non si sforzo nemmeno di trattenerle. E una voce nella sua
testa
continuava a sussurarle crudelmente:
Sei felice Armida?
Beh, era tanto che non pubblicavo...
Anche questa è una vecchia storia rimasta nascosta per anni!
Non sono molto convinta quindi recensite per favore, ho bisogno di
consigli! :D