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Autore: Fannie Fiffi    15/05/2015    7 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Is It Any Wonder?






 
Mentre la Città degli Angeli era ancora per metà addormentata, nonostante il sole fosse alto nel cielo e l’asfalto già bruciasse, un paio di décolleté dalla suola rossa battevano contro il pavimento dell’Ark Corporation ad un ritmo controllato, incalzante, preciso e definito.

Era come il ticchettio perfetto di un orologio svizzero, o l’andare e il tornare di un metronomo posato su un pianoforte silenzioso, ancora vergine del tocco del suo pianista.

I tacchi costosi e lucidi contro il riflesso dei vetri limpidi procedevano con sicurezza, con premeditata analisi, come se quello fosse l’unico suono possibile per una camminata del genere.

Due minuti dopo, il tempo di attraversare la grande vetrata che costituiva il muro ad ovest del quinto piano della società, la porta di un ufficio si aprì, le scarpe picchiettanti vi entrarono, si spostarono per permettere di richiudere l’uscio, e un uomo attaccò il telefono senza nemmeno scusarsi dell’interruzione.

Le Louboutin continuarono il loro percorso fermo e risoluto per qualche altro passo, lo spazio sufficiente a raggiungere la scrivania d’ebano, e il rumore di un fascicolo che si posava sul legno fu l’unico suono percepibile nella stanza.

« Sei la migliore assistente che potessi mai sperare di avere. » La voce sicura e profonda dell’uomo non lasciava intendere alcun dubbio. « Grazie, Lexa. »

Salendo dalle décolleté su per due gambe toniche ed estremamente lunghe, fino ad arrivare ad uno chignon elegante e raccolto, Lexa Heda aveva fatto la sua entrata in scena nel migliore dei modi, come le dive degli anni Cinquanta che sua madre le faceva ammirare da piccola, quando ancora pensava di avere un futuro decente.

Certo, niente a che vedere con i ricci indomabili e il pesante ombretto nero che sfoderava di notte, dove non c’era bisogno di dire di essere una Grounder perché qualcuno non lo capisse da solo.

« Di niente, signor Kane. »

Il tono controllato e modulato non fu che l’ennesimo segno dell’impeccabile autocontrollo che si riservava durante l’orario lavorativo, quando era solamente la segretaria di un uomo d’affari e non il referente di qualsiasi azione illecita ed economica si compiesse di lì a quattro chilometri dal centro città.

Lexa si era presa Los Angeles, e questo non poteva di certo essere paragonato allo sforzo di dover indossare un tailleur Chanel blu navy per otto ore al giorno.

Guardandosi attorno per un secondo o due, giusto per assicurarsi che l’ufficio del suo capo fosse un luogo adatto per parlare, la giovane si sfiorò il collo delicato con indice e medio.

« C’è una cosa che devi sapere, Marcus. » Era precisa, pragmatica, dritta al fulcro della questione, e, dal solo modo in cui gli si rivolse e abbandonò la formalità lavorativa, l’uomo capì che doveva trattarsi di qualcosa del tutto estranea al loro lavoro all’Ark.

Qualcosa per cui aveva aspettato per molto tempo.

Con un gesto quasi meccanico della mano sinistra, il più anziano lasciò che la sua assistente procedesse.

« Ieri notte Clarke Griffin ha comprato una Glock diciannove a calciolo estensibile dal mio secondo, Anya. »

Non c’era particolare intonazione nella voce pacata e controllata di Lexa, che ormai era solita parlare di armi da fuoco come se si trattasse di carte di ghiaccioli da collezionare.

Marcus Kane abbassò lo sguardo.






 
*



 
 
 
Clarke aveva trascorso tutto il pomeriggio a cercare di trovare un nascondiglio adatto per la pistola.

Il fatto che ora si trovasse seduta sul suo letto a fissare il vuoto, con la borsa contenente l’oggetto incriminato stretta in grembo, era un chiaro segnale che non ci fosse riuscita.

E il problema non era certo che non avesse alcun posto in cui nasconderla. Il problema era che non ne avesse bisogno.

Poteva lasciarla lì, sulla scrivania su cui aveva passato nottate piegata sui libri, e nessuno se ne sarebbe mai accorto.

Perché nessuno entrava più nella sua stanza. Nemmeno Wells.

Perché tutti gli altri si erano fatti una vita, si erano impegnati, erano andati avanti. Sua madre, che si era rialzata più forte di prima. Che si era ricostruita una casa e un matrimonio a mani nude, ripiegandosi le maniche, sbuffando e lottando.

Il suo fratellastro, che non poteva certo trascorrere tutta la sua vita a trovare un modo di farla aprire, di farla parlare, di farsi dire cosa fosse quella disperazione che le vedeva bruciare sul fondo degli occhi senza riposo né interruzione.

E il suo migliore amico, che aveva pensato di aiutarla nell’unico modo in cui conoscesse: acconsentendo a quella richiesta. Accompagnandola a comprare una pistola. Tentando in qualsiasi modo di farla riprendere, senza accorgersi di complicare ulteriormente le cose.

Perché ora se ne rendeva conto, ora riusciva a vederlo. Non era così che Clarke avrebbe voluto che andassero le cose.

Non era con la riverenza e l’assoluta concessione che avrebbe superato la confusione e il caos che le vorticavano nel petto e le smantellavano i pensieri.

Ferma, lì, seduta in quella stanza priva di ricordi, priva di foto in cui sorrideva o era ancora un batuffolo avvolto in copertine ricamate a mano, Clarke aveva capito che tutto quello di cui aveva bisogno era perdere l’equilibrio. Fare un salto troppo lungo. Trovare qualcosa che la smuovesse da quell’impasse in cui era precipitata quasi senza nemmeno prenderne consapevolezza.

Dopo aver trascorso l’intero pomeriggio con una pistola posata in grembo – dopo averla impugnata, stretta, puntata allo specchio – lei, che fino a quindici anni era stata terrorizzata da una partita a paintball, aveva capito di aver attraversato un confine da cui non sarebbe mai più potuta tornare indietro.

Si era spinta oltre; oltre tutto quello che chiunque, perfino lei stessa, si sarebbe aspettato da lei. Oltre il lutto, il dolore, oltre qualsiasi cosa fosse stata a demolirla dall’interno.

Più oltre di quanto fosse lecito, o perfino accettabile.

E ora se ne stava lì, a mettere in discussione qualunque scelta l’avesse condotta in quel punto, pronta a prendere decisioni che era quasi sicura si sarebbe poi rivelate quelle sbagliate.

Come un Atlante moderno, lei continuava a reggere un mondo pieno e pesante che non poteva portarle altro che sconfitta. Perché sapeva, in fondo, che la sua lotta era finita prima di iniziare.

Perché ora che quella prospettiva che aveva tanto anelato si era realizzata, la giovane Griffin non si sentiva così forte e impavida com’era stato giorni prima.

Non si sentiva abbastanza coraggiosa da fare davvero qualsiasi cosa pur di scoprire la verità.

Ed era spaventata. Ed era sola. Ed era colpa sua.
 
 





 
*





 
« Ripetimi un’altra volta il suo nome. »

« Atom. »

« Chi diavolo è che si chiama così? »

« Beh, evidentemente lui. »

Bellamy e Raven se ne stavano seduti ad uno dei tavolini esterni del The 100, due tazzine vuote di caffè davanti a loro e una sigaretta che, com’era diventata velocemente loro abitudine, si passavano un tiro dopo l’altro.

« E quest’Atom, questo grande amico meraviglioso, dov’è esattamente? » Domandò la mora, scivolando di poco con la schiena sulla sedia.

« È tornato per qualche giorno a Portland, dai suoi genitori. In effetti, dovrei proprio chiamarlo. Con tutta questa follia al Distretto non ho ancora avuto modo di vederlo. »

Bellamy era stato effettivamente troppo impegnato perfino per accorgersi che il frigo di casa sua era ormai ridotto alla carenza più assoluta, praticamente spoglio di qualsiasi materiale commestibile, e durante quell’ultima settimana e mezzo non aveva avuto occasione di sentire di nuovo il suo migliore amico.

L’ultima volta che lo aveva visto, l’altro si era raccomandato con lui di non stancarsi troppo e di non addormentarsi sulla scrivania del suo ufficio, e il maggiore dei Blake gli aveva intimato giocosamente di comportarsi bene, mentre andava a far visita al “capo” Ward.

« Dev’essere bello, » disse Raven, osservando il tramonto da dietro gli occhiali da sole scuri, « avere dei genitori da cui tornare. »

« Credo sia… catartico. Ritrovare un punto fisso che non è mai cambiato. »

« Pensi mai a quando toccherà a noi? » Gli passò la sigaretta, e si accarezzò distrattamente la coda, gesto che era solita fare ogni qualvolta avesse un pensiero importante per la mente.

« Quando avremo una tale responsabilità? »

« Beh, » Bellamy spense la cicca e appoggiò i gomiti al tavolino, « l’ho avuta da quando ho compiuto diciotto anni. Certo, sarà diverso, ma credo che sarò pronto. Credo che… Credo che ce la farò. »

« Sarai un papà fantastico. » La giovane Reyes non poteva certo definirsi una ragazza dolce, a suo agio nell’esprimere i propri sentimenti o ad esternare affetto, ma lui non ebbe difficoltà a riconoscere completa sincerità nelle sue parole.

« Un incredibile nerd, » aggiunse, provocando una risata in entrambi, « ma sempre fantastico. »

Il maggiore dei Blake non disse nient’altro, limitandosi ad annuire con un sorriso, e per un po’ tutti e due rimasero in silenzio, osservando le persone che passeggiavano davanti a loro e le famiglie che giravano in bicicletta.

« Sono felice che tu sia rimasta. »

Lei gli scompigliò i ricci. « Anch’io, Blake. »
 





 
*

 





Alla fine, avendo trascorso ore a riflettere attentamente su quale potesse essere la scelta migliore, Clarke decise che il nascondiglio perfetto fossero le doghe del suo materasso.

Semplice, certo, ma anche estremamente banale.

Ora, dopo aver richiuso la cerniera dello zaino contenente l’arma e averlo incastrato sotto al letto, tirò un sospiro profondo, gettando uno sguardo fuori dalla finestra. Aveva passato praticamente tutto il pomeriggio nella sua camera da letto, senza uscire nemmeno per mangiare qualcosa, e gli effetti della fame iniziarono finalmente a presentarsi.

Con un’ultima occhiata attorno alla stanza, decise di potersi assentare per qualche istante.

Non sapeva chi fosse a casa – era abituata, ormai, ad aggirarsi per la casa come un fantasma, incurante di chiunque potesse essere presente – ma, se il rumore del notiziario al piano di sotto poteva essere un indicatore, immaginò di non essere sola.

E appurò con certezza quell’ipotesi quando, qualche attimo dopo, svoltò l’angolo delle scale e incontrò Thelonious, un bicchiere di vino rosso e una bistecca al sangue davanti a sé.

« Clarke! » La salutò, spostando immediatamente l’attenzione su di lei. « Non ero sicuro che fossi a casa. Volevo chiederti se avessi fame, ma non volevo dist- »

« Va tutto bene. » Lo rassicurò la bionda, sedendosi dal lato opposto del bancone della cucina e poggiando i gomiti sulla superficie. « Ero occupata, non ti ho sentito rientrare. E sì, effettivamente ho una certa fame. »

Il più anziano lanciò uno sguardo al proprio piatto, poi alla giovane e poi di nuovo al proprio piatto.

« Ti direi di favorire, ma… » Lasciò cadere la frase a metà, ben consapevole del fatto che Clarke non fosse esattamente un’amante della carne. Tutt’altro, anzi.

Lei accennò un sorriso. « Va tutto bene. Vedrò cos’altro abbiamo. » Lo rassicurò, alzandosi nuovamente e dirigendosi verso il frigorifero.

Trascorrere del tempo con Thelonious non le era mai dispiaciuto, soprattutto perché lo conosceva da quando era nata, e lui era presente in ognuno dei suoi ricordi. Anche quelli peggiori.

Ma era un brav’uomo, lo era sempre stato, era stato capace di riportare il sorriso sul volto di sua madre, e per questo Clarke non era mai riuscita a disprezzarlo del tutto. Non poteva di certo biasimarlo per essersi innamorato di lei.

Quando tornò, qualche attimo dopo, con un piatto di insalata, condimenti vari e dei cracker integrali al seguito, l’uomo le lanciò uno sguardo sbigottito.

« Dio, non riuscirei mai a mangiare quella roba. »

La giovane Griffin accennò una risata con naturalezza, come non era stata in grado di fare per molto tempo, e si riaccomodò al suo posto.

« Sai, credo abbia molto a che vedere con i casi di colesterolo che io ed Abby abbiamo visto. L’ ospedale ne è letteralmente pieno. »

Jaha alzò le mani, colpevole, ma non esitò a prendere l’ennesimo boccone.

« Hai ragione, hai ragione. Tua madre ne parla costantemente. Ma dobbiamo pur avere le nostre soddisfazioni, no? »

Le fece l’occhiolino, e la giovane si limitò a sorridere lievemente.

I due continuarono a cenare in silenzio ancora per un po’, limitandosi a sorseggiare qualche goccio di vino e a seguire il notiziario, finché il suo patrigno non parlò di nuovo.

« Spero davvero che tu stia bene, Clarke. Sai, dopo tutto quello che è accaduto. »

Quando la sua figliastra alzò lo sguardo verso di lui, Thelonious le sorrise, cercando di rassicurarla.

Lei avrebbe voluto avere la forza di ricambiare. Di dire che certo, assolutamente, andava tutto bene. Che aveva già superato il fatto di essere stata rapita, di aver creduto di morire, di aver pensato che la fine fosse davvero giunta a prenderla.

E ora c’era una pattuglia costantemente appostata fuori da casa sua, e i suoi parenti, sua madre, il suo fratellastro avevano giurato di proteggerla sempre, ma lei non poteva parlare veramente.

Non poteva dire che non ci fosse notte in cui non si svegliasse sudata, appestata dall’odore della paura che ancora pesava su ogni suo passo.

« Certo. » Sussurrò. « Sto bene, grazie. Va tutto molto meglio. »

Va tutto proprio come non dovrebbe andare e io non so cosa fare per aggiustare le cose.

« Spero davvero che tu sappia che io, tua madre e Wells siamo qui per te. Per ogni cosa di cui avrai bisogno, noi ci saremo. Siamo una famiglia, no? »

La giovane rimase a fissarsi le mani intrecciate fra di loro ancora per qualche istante, tentando di sopprimere il carico che quella parola creava al centro del suo petto, come un macigno pronto a soffocarla, a impedirle di respirare fino a svenire.

« Credo che andrò a letto. Sono stanchissima. »

Clarke non era pronta. Non era pronta a lasciarsi quel passato alle spalle come non lo era stata per tutti quegli anni, come non lo sarebbe stata finché non avrebbe scoperto chi e cosa glielo avesse portato via.

« Certo… » Rispose Jaha, portando lo sguardo al televisore e lasciando alla giovane lo spazio di cui sapeva avesse bisogno.

« Buonanotte, Clarke. »

« Buonanotte, Thel. »

E così si alzò, quasi lanciò il piatto nel lavandino della cucina e sparì dietro l’angolo della stanza, su per le scale.

Aveva intenzione di rimanere tutta la sera a casa, rischiando di incappare in sua madre? Rischiando di sentirsi la pistola troppo vicina e non riuscire a dormirci sopra, o accanto?

Conosceva la risposta.

Ma sapeva anche che la scorta che il Dipartimento di Los Angeles le aveva piazzato fuori dalla porta ventiquattro ore su ventiquattro non si sarebbe di certo allontanata, né tantomeno l’avrebbe lasciata allontanare.

Fu per quel motivo, per quel senso di claustrofobia e costrizione, che la bionda si infilò scarpe da tennis e giacca di pelle e spalancò le finestre.
 
 




 
*





 
« Io dico che dobbiamo risolvere questa situazione. »

« So quello che faccio, non c’è nulla da risolvere. Non ci creerà problemi. »

« E se dovesse farlo? Chi se ne occuperà, eh? Tu? »

« Non avrò bisogno di occuparmene. »

Indra e Anya, rispettivamente alla sinistra e alla destra di Lexa, continuarono a scambiarsi sguardi carichi di tensione e sfida finché il Comandante – com’erano soliti chiamarla i Grounders – non sollevò la mano a mo’ di ammonimento.

« Basta. » Dichiarò, la voce bassa e profonda e capace di asservire a sé il più fedele dei soldati. Quando lei prendeva parola, tutti gli altri tacevano.
Era così che funzionava, e così che avrebbe funzionato ancora per molto tempo.

« Clarke Griffin non è un problema, Indra. »

A tal commento, espresso mentre l’automobile svoltava a sinistra, verso una strada sterrata, Anya sollevò lo sguardo vittoriosa, quasi pronta ad acclamare il proprio buon senso.

Lexa, però, non gliene diede tempo: « Ma la situazione è delicata, » spostò lo sguardo fuori dal finestrino, con quel tono che oscillava sempre fra l’eternamente annoiato e il potenzialmente distruttivo, « e voglio tenerla sotto controllo. Me ne occuperò io da vicino, e Marcus mi guarderà le spalle. »

« Quanto da vicino? » Scandì lentamente Indra, dubbiosa.

Il capo, con un fulmine brillante negli occhi verdi, accennò il riflesso di un ghigno compiaciuto. « Abbastanza da leggerle la verità negli occhi. »
 
 
 
 


 
*




 
Scavalcare un balconcino e raggiungere il piano terra non era stato facile, ma non era neppure nulla che Clarke non avesse già fatto.

Ricordava ancora le innumerevoli volte in cui lei e Monty si erano incontrati nel cuore della notte per fare una passeggiata silenziosa, per starsi vicini senza bisogno di dire alcunché, di intrattenere stupide conversazioni che non li avrebbero portati da nessuna parte.

Quello di cui aveva bisogno ora, però, era un drink. Bene, anche una decina.

Perciò, stando attenta ad evitare accuratamente la volante parcheggiata davanti al suo vialetto, la giovane Griffin si assicurò di passare per una strada secondaria e raggiungere il The 100 il più velocemente possibile.
 
 
 

Octavia era riuscita a trascinare Lincoln sulla pista da ballo solo con la promessa che il prossimo giro di cocktail sarebbe stato offerto da lei, e ora i due ondeggiavano al ritmo della musica sfrenata l’uno davanti all’altra, così vicini da essere impossibile per entrambi distinguere la fine di un corpo e l’inizio di un altro.

« Dovresti considerarti fortunata! » Le urlò lui all’orecchio, avvicinandosela con una mano alla base della sua schiena.

La minore dei Blake si lasciò andare ad una risata, reclinando indietro la testa e sfiorando con i lunghi capelli la mano di Lincoln, e rispose immediatamente dopo: « Solo perché ti ho fatto ballare? Ammetti che ti sta piacendo. »

L’altro, pur di non confessare la sconfitta e il fatto che sì, per la prima volta dopo così tanto tempo si stava davvero divertendo, preferì chiudere la questione piegando il volto e chinandosi a baciarla.

Poco più lontani da loro, seduti al bancone del bar, Raven e Bellamy si guardavano intorno senza scambiarsi alcuna parola, entrambi presi ad osservare le persone che parevano perdersi fra i suoni impetuosi della console.

Stavano sorseggiando entrambi una birra, niente di complicato o troppo forte, quando la mora si voltò verso di lui con uno sguardo che non lasciava presagire niente di buono.

« Stavo pensando… » Lasciò vagare la frase per qualche istante, scrutando attentamente il suo volto, « hai parlato con Clarke? »

Non le sfuggì il fatto che la sua espressione si incupì, e che improvvisamente appoggiò la birra al bancone, lontano da sé.

« Pensavo che non parlassimo di lei. »

« Penso che dovremmo. »

Il maggiore dei Blake le lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio, insospettito.

« Che c’è? So che vuoi farlo. » Si giustificò lei, innocentemente.

« Non so… » Bellamy si interruppe, cercando di trovare le parole giuste per esprimere come si sentisse. Forse, però, prima avrebbe dovuto capire come esattamente si sentisse. « Non lo so. »

« Vuoi sapere cosa penso? » Senza attendere che lui le rispondesse, Raven si voltò verso di lui, poggiando il gomito sinistro al bancone.

« Penso che tu sia rimasto deluso nel vederla lì, su quel ponte. Penso che avresti voluto essere con lei. Proteggerla. E che il fatto che tu non possa farlo ti fa impazzire. »

Il moro non si voltò verso di lei, ma chinò il capo. Alcuni ricci gli ricaddero davanti agli occhi, costringendolo a chiuderli per qualche attimo.

Si lasciò fluttuare lontano, in quel posto che non aveva voluto visitare durante quei giorni, quel posto dentro di sé che apparteneva a Clarke, a quello che avevano iniziato a costruire, a quello che aveva sentito quando l’aveva vista sana e salva in quel caffè e quando le aveva fatto visita in ospedale, e lei era stata così fredda e distante.

Quel posto che non aveva mura o confini, che a volte sembrava risucchiarlo in una dimensione in cui lui non era più niente di quello che era stato fino a quel momento.

Quel posto che gli faceva una dannata paura.

« Pensavo solo che fossimo una squadra. » Mormorò, riacchiappando la birra e prendendo un sorso. « Pensavo che potessimo parlare di tutto. Ci sono solo così tante cose che vorrei dirle, e chiederle. »

La giovane Reyes, che fino a quel momento era stata in silenzio e l’aveva ascoltato, gli posò una mano sul braccio, attirando la sua attenzione.

« Perché non lo fai, allora? » E, con un gesto del capo, indicò l’ingresso del locale.

Bellamy seguì il suo sguardo, confuso, e quello che vide lo lasciò ancora più sconcertato: Clarke, ferma sull’ingresso, i capelli raccolti su una spalla, lo sguardo perso e l’espressione stanca.

Ci vollero solo pochi secondi perché il maggiore dei Blake annuisse verso l’amica e scattasse in piedi, diretto con impeto verso la sua direzione.






 
*






 
« Lasciare una ragazza come te sola al bancone? Brutta mossa, amico. » Una voce sarcastica e profonda raggiunse Raven prima che lei potesse anche solo voltarsi nuovamente verso la sua birra.

Quando si rivolse verso il suono, la giovane rimase colpita dal sorrisetto arrogante che il barista le stava rivolgendo.

Lei, invece, si limitò a sollevare un sopracciglio.

« Pensi che non sappia godermi un drink da sola? » Replicò con lo stesso tono insolente, senza però concedergli la soddisfazione di vederla sorridere.

« Penso che staresti meglio se bevessi con me, invece. »

« Oh, sì? L’ultima volta che ho controllato tu eri quello che serviva, non che beveva. »

« Non si vede? » Domandò retoricamente lui, senza staccarsi quel ghigno dalle labbra, « Sono dannatamente bravo nel multitasking. »

« Ok, mister Modestia, perché allora non mi porti qualcosa di più forte? » Lo provocò Raven, stranamente a suo agio con un totale e perfetto sconosciuto.

« Wick, per te. E sì, in arrivo. » Wick, a quanto pareva era questo il suo nome, le fece l’occhiolino, poi si diresse verso la parte opposta del bancone.







 
*






Clarke vide Bellamy più o meno nello stesso momento in cui voltò lo sguardo verso il bancone del bar, ovvero la sua meta iniziale fin dal principio.

Non seppe descrivere ciò che provò, e nemmeno il modo in cui il respiro le mozzò in gola e i suoi occhi si fossero concentrati su nient’altro che sulla sua figura.

Pensò che era bellissimo. Arrabbiato e fiero come il primo giorno in cui l’aveva visto, e comunque bellissimo.

Quando le si avvicinò, abbastanza vicino da poterlo toccare, da crederlo reale, tutto si materializzò davanti ai suoi occhi. L’ultima volta che avevano parlato, quello che gli aveva detto, come l’aveva guardata prima di esaudire la sua richiesta ed uscire da quella stanza d’ospedale.

« Che diavolo ci fai qui? » Furono le prime parole che le rivolse, tentando con tutte le proprie forze di reprimere l’istinto che gli diceva di non fare altro che portarla via di lì e baciarla, metterla al sicuro, tenerla lontana da chiunque fosse il bastardo che potesse pensare di far del male a qualcuno come lei.

« L’idea era quella di ubriacarmi. » Rispose lei con altrettanta arroganza, nonostante stesse succedendo qualcosa di tremendamente pericoloso dentro di lei.

C’era qualcosa che le solcava le costole ogni volta che guardava il volto di Bellamy, i suoi occhi, quelle iridi nere che scavavano a fondo, troppo a fondo. Che scoprivano i suoi piani senza che lei potesse fare nulla per tenerlo fuori, per tenerlo all’oscuro.

E non andava bene che non lo vedesse da giorni, che fino a quel momento avesse represso con ogni atomo del proprio corpo il bisogno di rivederlo.

La verità era che Clarke aveva bisogno di tutto, di tutto quello che potesse mai immaginare di volere. Era fatta così e basta, perennemente alla ricerca di quanto non aveva né poteva avere.

In quel momento un ragazzo evidentemente non molto lucido camminò fra di loro, sbandando pericolosamente, e all’improvviso il rumore della pista da ballo fu troppo forte da sopportare. Tutto, attorno a loro, era troppo.

Senza pensarci una seconda volta, il maggiore dei Blake si sporse in avanti per afferrare la sua mano, e trascinò Clarke fuori dal locale, lontano dalla folla che si era raccolta all’esterno.

« Dovresti essere a casa, Clarke. » Sibilò lui, chiaramente furente. « Dovresti essere a casa, dove la dannata pattuglia che ti ho fatto assegnare può proteggerti. »

« Oh, quindi è stata una tua idea. » Sbuffò la bionda, incrociando le braccia al petto in un vano tentativo di apparire forte, spavalda.

« Sì, esatto. E forse non è stata nemmeno sufficiente. »

« Non ce ne era bisogno. » Rispose lei fra i denti, stringendosi nelle braccia ancora più forte. Odiava questa situazione. Odiava non potergli dire niente, non poter stare insieme né parlare veramente, perché sapeva che lui era l’unico che l’avrebbe capita. Se avesse saputo, l’avrebbe appoggiata. E avrebbe voluto che lei combattesse.

Ma non sapeva, e non avrebbe mai potuto farlo. Lei non avrebbe potuto permetterlo.

« Vuoi sapere di cosa non c’era bisogno? » Alzò la voce lui, compiendo un passo avanti. Clarke trattenne il respiro.

« Non c’era bisogno di andare dai Grounders. Non c’era bisogno di vederti con Anya, né stare su quel ponte. » Confessò a denti stretti, incapace di tenere questo peso per sé.

Bellamy aveva riflettuto molto su quello che avrebbe dovuto fare: avrebbe dovuto inserirlo nel suo rapporto. Avrebbe dovuto presentarlo come una prova per il caso Griffin, come un ennesimo movente di chiunque fosse il suo rapitore.

Avrebbe dovuto fare molto di più di quello che aveva effettivamente fatto. Avrebbe dovuto usare la testa, e non lasciarsi trasportare dal battito frenetico del proprio cuore, più vivo e attivo di quanto fosse mai stato.

Non gli sfuggì il modo in cui gli occhi di Clarke si spalancarono, sorpresi e colti in flagrante, profondamente responsabili di una colpa più grande di loro, più grande di qualsiasi cosa lei avesse mai avuto il coraggio di fare.

L’espressione di stupore sul suo volto durò per una frazione di secondo, il tempo che la consapevolezza arrivasse a metterla sull’attenti, e immediatamente dopo la bionda sbatté le palpebre lentamente, due volte.

« Adesso mi segui? »

« È tutto quello che vuoi dirmi?  »

« Ti ho già detto di voler stare sola. »

« Ma lo sai chi è quella? » Il tono di Bellamy mutò in un attimo, ed alzò la voce, compiendo un passo avanti.

Non poteva credere che lei davvero non capisse la gravità della situazione in cui si era cacciata, o il pericolo che correva a frequentare un tale luogo.

« Hai almeno la più pallida idea di quanto sia grande il disastro in cui stai andando ad invischiarti? » Sibilò.

Clarke non lo aveva mai visto così arrabbiato: se non fosse stato per il muscolo della mascella che continuava a rimbalzargli contro la guancia, ci avrebbe sicuramente pensato lo sguardo che aveva negli occhi. Ardeva.

E niente di tutto quello aveva senso. Non aveva senso il fatto che lei fosse lì, in un club, quando là fuori i responsabili della morte di suo padre continuavano a camminare liberamente, come se non le avessero portato via la cosa più preziosa che avesse mai avuto.

Non aveva senso litigare proprio con Bellamy, che fino a quel momento era stato l’unico di cui si era potuta fidare, l’unico che avesse visto in lei più di quanto lei stessa fosse stata capace di vedere per molto, molto tempo.

Non aveva senso sentirsi questo peso gravare sulle spalle, al centro del petto, fra le ossa e nei pensieri.

Non aveva senso, eppure era tutto quello che le era rimasto.

E quindi: « Non metterti in mezzo alla mia strada, Bellamy. » Lo disse con tutto l’acciaio che potesse tirar fuori dalla sua voce.

Perché ormai l’aveva capito, non c’era modo di impedire che l’intera faccenda la distruggesse completamente. In quel modo, almeno, non avrebbe distrutto anche lui.

Lo osservò attentamente. Lo osservò sbarrare gli occhi, incredulo, e quasi impallidire. Le sembrò di vederlo arretrare di un passo, ma non avrebbe potuto esserne certa, dato come le apparisse sfocata la sua figura.

Il grande e grosso Bellamy Blake non disse niente. Clarke cercò con tutte le proprie forze di mantenere il contatto visivo, di apparirgli più sicura di quanto in realtà non si sentisse, di tenere la schiena dritta e il mento alto, ma non ci riuscì.

La giovane Griffin percepì la loro amicizia infrangersi dentro di sé, la fiducia spiccare il volo e disperdersi fra le nubi che erano diventate le loro vite, ma soprattutto quel calore dissiparsi lentamente ed inesorabilmente dal suo cuore.

Mentre guardava altrove, si accorse di aver indurito se stessa e la sua maschera proprio in quell’istante, come un vento di aria ghiacciata spruzzato sulla sabbia del deserto, arido e spento e privo di luce.

Trascorsero alcuni secondi, freddi e silenziosi come la neve, mentre alcune persone ridevano e chiacchieravano a pochi metri da loro, e nessuno dei due fu realmente in grado di capire cosa stesse per succedere.

Lei non voleva guardarlo. Non voleva guardarlo e sentirsi tutte quelle bugie gravare nel petto, perché niente di quello aveva senso, o motivo d’essere, o ragione.

Quando, con la coda dell’occhio, lo intravide immobile, fu tentata di scrutarlo con più attenzione, come se non sapesse già cos’avrebbe trovato nel suo sguardo.

E l’avrebbe fatto, se lui non si fosse avvicinato così velocemente. Se non le avesse raccolto il volto fra le mani, delicato come con il vetro e cauto come con la porcellana, e l’avesse attirata a sé.

Se non l’avesse guardata per un istante solo e poi l’avesse baciata come non aveva mai fatto prima, con il naso contro il suo e il respiro mozzato e ogni terminazione nervosa a fuoco, ma immobile, e la pelle come un oceano in cui affondare.

E nemmeno se lei non si fosse aggrappata ai suoi polsi, quasi a perdere conoscenza contro di lui, contro la roccia del suo corpo e la morbidezza delle sue forme.

Ma tutto quello accadde, e lei lo lasciò accadere, perché non voleva fingere, non in quel momento, non con lui, e lo capiva ora che si abbandonava a lui, a quell’uomo che non aveva fatto altro che starle accanto dal primo giorno in cui l’aveva conosciuta.

E Clarke Griffin forse non avrebbe mai saputo cosa in realtà celasse il suo sguardo prima di quel gesto così terrificante e salvifico, ma riuscì a farsene una ragione.

Per qualche attimo, silenzioso e allo stesso tempo mai così pieno di parole, di spiegazioni, si fece una ragione di tutto quello che l’aveva portata lì, di ogni singolo evento nella sua vita che l’aveva trasformata in quella Clarke Griffin, la stessa che aveva incontrato Bellamy, la stessa che provava quelle cose così spaventose, e le sentiva crescere dentro di sé come un oscuro paio di ali.

La stessa, però, che si era procurata una pistola e aveva passato notti intere ad immaginare come sarebbe stato usarla. La stessa che ora era a caccia di quei bastardi, Atom primo fra tutti.

E così, prima che lui potesse convincerla del tutto a mandare qualsiasi cosa al diavolo, prima che potesse perdersi nel calore della sua bocca accogliente, lo lasciò andare con un gesto secco.

Clarke rinunciò a tutto quello ora che finalmente scopriva, e immediatamente incontrò le iridi scure che mai l’avevano tanto terrificata e abbagliata come allora.

Era ancora vicino, talmente vicino che sarebbe stato così semplice attirarlo nuovamente a sé, perdersi in lui e divorarlo fino a scomparire, fino a farsi risucchiare in un vortice buio e oscuro, lontano da tutto quello.

Lontano da chi erano e da chi dovevano essere, che non sembravano mai la stessa cosa.

Troppo vicino perché lei potesse rendersi pienamente conto del modo in cui la stesse guardando in quel momento, quando un bacio era sembrato l’unica soluzione possibile fra di loro.

Un ultimo bacio amaro come la fiele ma dolce come il nettare.

« Abbiamo sbagliato tutto. » Sussurrò, stringendo le labbra.

« Quella prima mattina e il giorno dopo, quando ti ho raccontato la mia storia e quando mi hai stretta per la prima volta. Abbiamo sbagliato quella notte in spiaggia, e al ballo di mia madre. In ospedale, e stanotte. »

Il maggiore dei Blake aggrottò le sopracciglia, chiaramente ed evidentemente confuso, e provò a parlare, ma lei lo interruppe subito dopo: « Abbiamo sbagliato tutto e ora non possiamo più tornare indietro. »

Gli diede le spalle prima che lui potesse realizzare cosa fosse appena successo, cos’avesse detto – una parte di sé doveva averlo già capito, se la stretta alla gola potesse fungere da indicazione – e camminò via, lontano, stringendosi le braccia al petto e chinando il capo.

Bellamy non la seguì.












 
  
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