Disclaimer:
I personaggi di Lady
Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di
Ryoko Ikeda.
II
- 14 Luglio 1788
E'
finito il tempo. Si spengono a una a una le stelle e la notte si fa man
mano
meno buia, come un pesante sipario che si alzi sul palco del teatro con
indolente lentezza, quasi opponendo resistenza alla messa in scena
dell'ultimo
atto di una tragedia che per definizione non potrà avere il
lieto fine che
taluni auspicherebbero.
Si
passa le mani sul viso ad asciugare le
lacrime, vestigia della notte tribolata, una veloce occhiata alla sua
figura
riflessa nello specchio sopra la toeletta cambia il dubbio in certezza:
lui non
impiegherà che uno sguardo per capire che qualunque cosa lei
si aspettasse da
quel ballo, il risultato si è rivelato molto lontano dalle
aspettative.
Sente
le gambe vacillare. Nel tentativo di darsi un contegno, cerca il
sostegno della
poltrona sulla quale si lascia cadere mollemente, il capo reclinato
all'indietro e gli occhi chiusi, in attesa. Non deve rimanere in
ascolto a
lungo prima di sentire l'inconfondibile scalpiccio degli zoccoli del
cavallo
che risalgono al passo lo spiazzo di ghiaia antistante le stalle. Le
sembra un
ritmo stanco, quasi che per osmosi la povera cavalcatura avesse
assorbito lo
stato d'animo del suo cavaliere.
Poi
sono i suoi passi incerti negli stivali
di cuoio, quasi strascicati, quelli che sente lungo lo scalone di marmo
che
porta dritto davanti alla camera di lei, all'imbocco del corridoio che
prosegue
a sinistra verso l'ala del palazzo adibita agli alloggi della
servitù. Benché
dia le spalle all'ingresso, non le è difficile cogliere la
sua presenza oltre
la porta, lasciata volutamente socchiusa, non appena il rumore del suo
incedere
scomposto cessa di colpo. Allora lo chiama.
«Andrè...»
Si
era sforzata di usare un tono normale, ma
la voce era uscita strozzata assumendo un suono a metà fra
la supplica e
l'imposizione.
Lui
indugia perplesso. Istanti interminabili, amplificati dal silenzio
assoluto del
palazzo assopito. L'urgenza nella voce di lei nel pronunciare il suo
nome lo ha
messo in uno stato di allerta. Poi la curiosità ha la meglio.
«Vieni
Andrè, entra pure, devo parlarti».
Il
tono è quasi carezzevole ora e lui fiuta
sempre più il pericolo. Troppo tardi. Si dirige a passi
insicuri verso l'ampia
finestra, guidato dalla luce fioca delle poche candele e dal flebile
chiarore
che comincia a filtrare dall'esterno. La percepisce sprofondata nella
poltrona,
di spalle, i capelli scomposti che ricadono oltre lo schienale. La
oltrepassa
senza voltarsi fino ad arrivare al grande camino, solo allora solleva
lo
sguardo a cercare quello di lei. E lo trova.
Rimangono
a fissarsi per attimi
interminabili, in una conversazione che racconta tutto
all’uno della serata
dell’altro, nel linguaggio muto che condividono da sempre,
finché è lui a
rompere il silenzio dopo averle rivolto un cenno impercettibile a voler
significare di aver compreso tutto quello che c'era da comprendere.
«La
tua serata non è andata come speravi».
Nonostante
lei se lo aspettasse e l’avesse
previsto, riesce sempre a sorprenderla quella sua capacità
di leggerle dentro.
«Non
è di questo che volevo parlarti».
E’
la conferma che il pericolo è reale e lui
si sente stretto all’angolo. Deve assolutamente trovare il
modo di andarsene da
lì al più presto.
«Oscar…
sono molto stanco oltre che molto ubriaco, ne parleremo domani. Io vado
a
dormire»
Un
tentativo disperato di svincolarsi, ma lei
non mollerà la presa. Lui lo sa, conosce bene la sua
caparbietà e sa che quando
si mette in testa qualcosa niente e nessuno riuscirebbe a distoglierla
dal suo
obiettivo, qualsiasi esso sia.
E
stasera il suo obiettivo è ucciderlo. Oramai gli
è chiaro, come gli è chiaro
che niente e nessuno verrà a salvarlo. Il dubbio si era
insinuato già prima di
entrare ma poi….poi l’aveva guardata e quello che
aveva percepito non era ciò
che si era aspettato di trovare. Aveva visto negli occhi di lei ancora
gonfi di
pianto, tutto il dolore del rifiuto dell’altro, ma
c’era di più, c’era una
sorta di risolutezza ma anche di paura, un sentimento che si faceva
fatica ad
associare ad Oscar. Eppure c’era, era lì, quasi
palpabile, reso ancora più
evidente dal suo tentativo di nasconderlo dietro a un atteggiamento di
ostentata sicurezza che non le aveva fatto ancora distogliere lo
sguardo da
quello di lui.
Lei
aveva preferito offrire il fianco,
lasciare che lui vedesse il dolore e la delusione, e soprattutto
lasciargli
credere che fosse dovuto all’impossibilità di
essere ricambiata dallo Svedese.
Un’interpretazione ben lontana dalla realtà, ma a
quale altra conclusione
avrebbe mai potuto arrivare lui? Lui che non aveva idea
dell’altra verità,
quella che lei aveva scelto di tacergli e che invece tante volte
avrebbe voluto
urlargli, tanto faceva male tenersela dentro, come adesso.
«Perché
esci e torni ubriaco quasi tutte le sere, Andrè? »
Come
se lui potesse risponderle.
«E
come faresti a saperlo? Mi controlli? E tu? Perché sei
andata a quel ballo
Oscar? »
Le
rende pan per focaccia, sa che anche lei
non può rispondere. Semplicemente ci sono domande che non si
fanno, è sempre
stato così tra loro, e ora entrambi sono consapevoli di aver
contravvenuto ad
una regola non scritta che rischia di portarli su un terreno insidioso
ed
entrambi sanno che non è il caso di addentrarvisi.
Lei
si alza dalla poltrona e fa qualche passo fino a raggiungere la vetrata
dell’enorme finestra. Preferisce dargli le spalle, guardarlo
ora le toglierebbe
il coraggio di continuare.
«Volevo
informarti che lascerò la Guardia
Reale. Domani comunicherò la mia decisione alla Regina e
rimetterò a lei
l'assegnazione a un nuovo incarico»
«Come
vuoi tu Oscar. Come dicevo sono molto stanco, andrei a letto.
Buonanotte.»
«Aspetta,
non ho finito. Qualunque sarà
l'incarico che mi verrà assegnato, ho deciso di fare a meno
del tuo aiuto
Andrè. Voglio imparare a reggermi sulle mie gambe, bastare a
me stessa».
Gira
appena la testa verso di lui e resta in attesa di una replica che tarda
ad
arrivare. La stanza è pervasa da un silenzio assordante.
Dopo attimi
interminabili, è una risata sguaiata e nervosa quella che
rompe il silenzio.
«Dio
mio Oscar, la tua serata deve essere
andata davvero storta. Forse un abito non è l'arma di
seduzione che più ti si
addice, avresti dovuto invitarlo a battersi a duello con la spada
piuttosto.
Non avrebbe avuto scampo, credimi, del resto io ne so qualcosa,
no?».
Voleva
provocarla, ferirla come si era sentito ferito lui dalle sue parole, un
paio di
frasi concise che suonavano come una condanna. Aveva sputato la sua
risposta
tutto d'un fiato, a pugni serrati e ad occhi chiusi tentando di
addomesticare
la rabbia senza in realtà volerlo veramente.
Quando
riapre gli occhi se la ritrova
davanti, a un passo, gli occhi sgranati e increduli, solo allora
realizza la
portata di ciò che ha detto e capisce di aver oltrepassato
il limite. Da quando
era successo il fatto, tredici anni prima, non aveva mai neanche
accennato
all'accaduto, glielo aveva imposto lo sguardo di fuoco che lei gli
aveva
rivolto subito dopo. Doveva fingere che nulla fosse successo, aveva
compreso fin
troppo bene che in caso contrario lei l'avrebbe allontanato da
sé. Per restarle
accanto aveva finto per tutto quel tempo, assecondando la sua muta
richiesta,
soffocando i propri sentimenti ogni giorno. Per non perderla, per
averla
nell'unico modo possibile. E ora stava accadendo ugualmente. Nonostante
lui
avesse tenuto fede al "patto", lei lo voleva fuori dalla sua vita,
come una cosa che ha fatto il suo corso e che non serve più.
Perciò non aveva
più motivo di tacere, in fondo non era servito a nulla.
Allora glielo aveva
voluto ricordare cos'era successo, con quella frase vomitata addosso
con
rabbia, voleva farle sapere che lui non aveva mai dimenticato.
La
sua reazione è fulminea e lui sente la
guancia bruciare tanta è stata la violenza dello schiaffo.
E' un crescendo la
rabbia di lei che ora lo afferra per il collo della camicia e lo
strattona con
veemenza «Non avresti dovuto dirlo, non avresti dovuto!
Vattene!».
Poi,
come la risacca dell'onda che infrangendosi contro gli scogli perde
potenza
trasformandosi in innocua spuma, l'impeto si placa davanti alla
mancanza di
reazione di lui che ora pare altrove, immerso nella dimensione di un
ricordo
lontano e lei non può fare altro che raggiungerlo
laggiù, nel pomeriggio di un
giorno di primavera di tredici anni prima.