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Autore: Koaluch    16/05/2015    0 recensioni
Tutti potevano ammirare il lato luminoso della Luna, proprio come tutti potevano vedere in Ale la persona brillante che era. Pochissimi esseri umani però erano riusciti a vedere il lato oscuro della Luna, quello nascosto alla Terra.
Così come questo meraviglioso satellite eclissa il suo lato buio, Ale, il nostro protagonista, cela nel suo animo un segreto che lo macchia nel profondo, obbligandolo a nascondere quella parte di sé che l'ha cambiato drasticamente da quando aveva tredici anni.
Il nostro protagonista si ritroverà ad odiarsi, o meglio, odiare ciò che si cela in lui, poiché se stesso è ciò che mette davvero in pericolo la persona che ama.
Ma perché è diventato così? Perché non può avvicinarsi a lei, che subito entra in campo l'istinto di farle del male?
Nessuno sa come e perché quel giorno il fato ha deciso di cambiare la sua vita per sempre.
 
"Perché quella ragazza magnifica non sarebbe mai potuta essere sua. Nemmeno se Ivan non fosse mai esistito. Nemmeno se quell'episodio al mare non fosse accaduto. Nemmeno se lei lo avesse voluto."
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il sole di mezzogiorno batteva forte sulle chiome degli alberi che proteggevano il terreno dal caldo arido. In quel piccolo bosco il fresco garantito dalle ombre della vegetazione era come un balsamo per chi ci si riparava, e un venticello fresco penetrava appena attraverso le foglie per rendere l’aria meno umida.
Un dingo si stava abbeverando in una piccola pozza d’acqua, non più larga di due metri. Era ignaro della sua imminente morte, proprio come lo sono tutte le prede l’istante prima della caccia.
Cercando di trattenere il respiro, il suo cacciatore stava provando a fare il meno rumore possibile. Se la bestia gli fosse scappata avrebbe potuto inseguirla, ma era meglio avvicinarsi più che poteva.
L’unico suono fra quegli alberi e cespugli, era il canto degli uccelli, che accompagnava i suoi passi leggeri, mimetizzandolo tra i fruscii del vento.
Un passo, poi un altro. Alla fine il rumore di un bastoncino che si piegava segnò la fine del suo silenzio, e il dingo che era la sua preda si accorse del pericolo, iniziando a correre all’impazzata. Ale poteva sentire il suo odore anche a distanza di centinaia di metri, ma si mise ad inseguirlo con un ruggito potente. Aveva fame e voleva carne sotto in denti.
La corsa sfrenata si concluse molto presto. Il dingo era veloce, ma non poteva fare nulla contro le gambe di Ale che si muovevano come un razzo, raggiungendolo in mezzo secondo e permettendogli di acciuffarlo per spezzargli l’osso del collo. Non era in vena di portarla per le lunghe, quindi affondò i denti affilatissimi nel ventre dell’animale, aiutandosi con le mani per  finire il suo pasto freddo. Si pulì velocemente il viso e le mani sporche di sangue in un piccolo torrente lì vicino, senza badare alla camicia ormai imbrattata di sangue e terra.
Era passato un giorno da quando se ne era andato. Aveva corso fino ad uscire dalla città, per non fermarsi nemmeno in quel momento. Verso sera aveva trovato quella piccola foresta, dove aveva trovato un giaciglio sotto un albero e finalmente era crollato. Al suo risveglio i denti gli pungevano la lingua, ricordandogli quanto avesse fame.
Ora finalmente era sazio e non sapendo bene cosa fare rimase ad aggirarsi nel limitare della foresta. Non poteva stare fermo, era irrequieto e agitato. I ricordi del giorno precedente sembravano appartenere ad una vita lontana, provenienti dalla sua vera identità, che in quel momento se ne stava rintanata in un angolo della mente. Il Mostro era soddisfatto: finalmente poteva stare fuori a piede libero senza che Ale glielo impedisse, comandando lui il loro corpo. L’unica cosa che Ale desiderava in quel momento era andare via da Perth, prendere l’aereo e sparire, mimetizzandosi con cittadini di altre città che non avrebbe mai conosciuto, per evitare di metterli in pericolo. Voleva nascondersi in mezzo alla gente per poi dimenticarsi perfino chi era stato. Voleva, ma non riusciva a riprendere il controllo del suo corpo, tanta era la paura del dolore che lo avrebbe assalito.
Con il Mostro che lo controllava, i suoi sensi gli permettevano di captare ogni rumore, perciò si accorse subito dell’insolito scalpiccio che sembrava quello di passi, che lo infastidì nel primo pomeriggio. Non erano i passi leggeri di un’animale furtivo, ma sembravano proprio quelli rumorosi di una persona che non fa attenzione a muoversi silenziosamente. Una persona sola in quel posto, però cosa ci faceva? Non era proprio il luogo ideale dove andare a farsi una passeggiata.
Con un sorriso sadico sul volto, Ale si nascose, muovendosi furtivamente verso la direzione del rumore. Chiunque fosse stato, si sarebbe pentito di trovarsi lì. Il fruscio si faceva sempre più vicino, fino a diventare il calpestio di due scarpe che battevano il suolo tranquillamente, ignare.
Il ragazzo rimase nascosto dietro un cespuglio finché non si ritrovò davanti una figura. Non vedeva bene attraverso le piante, quindi non riuscì a distinguere se fosse un uomo o una donna. Poco male, non avrebbe fatto comunque differenza.
Con una mossa fulminea, uscì dal cespuglio urlando e buttando la figura a terra. In quel momento lo vide in faccia: viso segnato da piccole rughe, ormai non più giovane come un tempo, testa perfettamente tonda, con i capelli brizzolati quasi del tutto rasati, occhi talmente scuri che parevano neri, fisico muscoloso e asciutto. Avrebbe riconosciuto quell’uomo ovunque, anche se ora il suo viso era rovinato da una cicatrice lunga e rosea che gli finiva poco sotto l’occhio sinistro. Era lo stesso uomo che aveva visto nella fotografia a casa sua. Lui non aveva mai visto suo padre di persona, eppure ora lo riconobbe come se lo vedesse tutti i giorni. Aveva visto e rivisto le sue foto non avrebbe mai potuto confonderlo con qualcun’ altro. Cosa ci fecav lì? Cosa voleva da lui?
“Tu!” urlò con la sua voce distorta dall’ira. Mise i denti in bella vista, pronto ad attaccare.
L’uomo contro ogni previsione sorrise. “Ti trovo bene, figliolo. Ma non mi sembra che tuo fratello ti abbia educato a dovere. Ti sembra questo il trattamento da riservare a tuo padre?”
La sua voce era bassa e profonda, ma non aveva una minima traccia della paura che Ale si era aspettato di trovarvi. Questo lo fece infuriare ancora di più.
“Non lo nominare!” ordinò, riferendosi a Dario. Perché quell’uomo non stava scappando a gambe levate?
“E perché non dovrei? Siete entrambi figli miei e un padre deve essere imparziale...” sembrava volerlo prendere in giro, un’espressione divertita gli attraversava gli occhi scuri e un ghigno malcelato gli rivolgeva gli angoli delle labbra all’insù.
“Stai zitto o ti uccido” urlò Ale, i denti a pochi centimetri dal collo di lui.
Una risata aleggiò nell’aria, fredda come l’aria d’inverno. “Non mi farai del male. Io ti ho creato!”
Ale rimase interdetto. Davvero pensava che non lo avrebbe ucciso solo perché lo aveva messo al mondo? Che illuso. Gli avrebbe presto dimostrato il contrario. Avvicinò i denti alla sua gola, con l’intenzione di perforargli la carotide. Già immaginava il sangue che sgorgava, soddisfacendo il suo bisogno di uccidere, lasciando quell’uomo privo di vita a terra.
Il padre di Ale mosse velocemente un braccio, tirando fuori dalla tasca una semplice scatoletta di piombo priva di decorazioni, dalla quale estrasse un piccolo oggetto. Sembrava una specie di pietra bianca, dalle venature rosa e viola. Era piccola e dalla forma indefinita, con vari angoli appuntiti che si coloravano di arcobaleno alla luce del sole.
Non appena la vide, ad Ale si scatenò un mal di testa tremendo, come se qualcosa gli avesse colpito il capo con forza. Il suo stomaco si ribellò, e così si dovette allontanare dall’uomo per evitare di riggettargli addosso il suo pranzo. Sudava e tremava come un bambino, e a forza di vomitare gli mancava il respiro. La testa martellava come un tamburo e lo stomaco si sforzava anche se ormai era vuoto. Non riusciva nemmeno a parlare. Non capiva più nulla, sembrava che il mondo gli stesse girando intorno ad una velocità inaudita, facendolo vorticare dolorosamente.
L’uomo davanti a lui ripose la pietra nella scatola sorridendo, e fu come se sopra ad Ale fosse calato un velo benefico. Smise di sudare e si interruppero anche i conati. Al mal di testa ci vollero due minuti per passare, ma presto il mondo si fermò, e lui si sentì di nuovo fresco come prima. L’unica differenza era che ora ragionava meglio, si sentiva più stabile e non vedeva più il mondo attraverso un velo di cattiveria: era di nuovo in sè. Le sensazioni erano le sue, la confusione, il disappunto e dolore erano i suoi, non più del Mostro.
Si guardò il corpo sbalordito: macchie di sangue gli ricoprivano i vestiti, la sua camicia era lacerata in più punti e i suoi jeans erano macchiati di fango. Le sue mani, nonostante avesse provato a lavarle, conservavano sotto le unghie ancora qualche traccia del sangue dell’animale che aveva ucciso, e ora stavano tremando sotto il suo sguardo, al pensiero di ciò che aveva fatto. Gli venne di nuovo un conato di vomito, questa volta del tutto motivato, ma ormai non aveva più nulla in corpo, fortunatamente.
“Non mi è parso normale che tu non abbia mai visto un’ametista, ma a ripensarci, non è una pietra tanto comune. Sai, ti sembrerà strano, ma la repulsione che l’elghasiem prova nei confronti di questa pietra, l’ho scoperta per caso.
“Non so se lo sai, ma sono sempre stato appassionato di pietre, e un giorno ho visto per caso come l’hex reagisse alla presenza di quell’ametista, e sono rimasto affascinato. Sembrava quasi ritirarsi, si agitava come se venisse smossa, ma in realtà nessuno la stava toccando. Interessante, non è vero?”
Ale, che si sentiva ancora male, rimase a guardarlo con gli occhi spalancati. Erano di nuovo azzurro cielo e gli donavano uno sguardo puro e innocente completamente inadatto a ciò che era successo poco prima.
Ancora frastornato per essere tornato in sè all’improvviso, non riusciva a cogliere il significato di quelle parole. Sentiva suo padre parlare a vanvera, senza una vera e propria logica, ma non provò nemmeno a sforzarsi di capire.
“Allora?” insistette suo padre, vedendo che non rispondeva.
“Cosa ci fai qui?” chiese, decidendo di rinunciare a chiedere spiegazioni per ciò che aveva detto. Sapere cosa ci faceva in città gli interessava molto di più. Suo padre sembrò contrariato al cambio di argomento, ma non provò a portare nuovamente l’attenzione di Ale su ciò che aveva appena detto.
“E tu cosa ci fai? Stai scappando?” chiese prontamente quell’uomo. Ale iniziava a perdere la pazienza.
“Rispondi” disse Ale, avvicinandosi all’uomo per sembrare più minaccioso.
“Si dà il caso, signorino, che non sei nella posizione di minacciarmi.”
Ale strinse i denti e rimase in silenzio. Suo padre aveva ragione. Non riusciva ancora a capire cosa aveva fatto poco prima per farlo stare così male, ma era sicuro che fosse stato lui. Quell’uomo era troppo spavaldo per non avere qualche asso nella manica.
“Sei fuggitivo” disse iniziando a girargli intorno, “il che significa che non sai dove andare.”
Continuò a chiedersi come fosse possibile che quell’uomo parlasse così normalmente con lui. Nemmeno un minuto prima lo aveva visto posseduto dal Mostro e gli aveva riso in faccia. Aveva sicuramente fatto qualcosa per farlo star male in quel modo. Non poteva essere una coincidenza. L’unica cosa che gli veniva in mente era la piccola pietra che aveva tirato fuori dalla tasca, ma non gli sembrava possibile che fosse colpa di quella. Era solo una pietra.
Il padre di Ale sembrò spazientito nel non sentire una risposta. “Allora?”
Il ragazzo scosse la testa, senza sapere bene cosa rispondere. Dire di sì avrebbe significato ammettere che fosse scappato e lui non aveva voglia di condividere le informazioni sulla sua vita con quel tizio. D’altra parte però, se suo padre era lì in quel momento, e nella grotta l’altro giorno, significava che lo seguiva. C’erano troppe coincidenze per giustificare le sue apparizioni improvvise. Non voleva tuttavia chiedergli conferma. Erano successe troppe cose, e non era sicuro di poter sopportare altro.
“Sì, non ho intenzione di tornare a casa” disse infine, dopo altro silenzio, provando dolore nel pronunciare la parola casa. Aveva deciso di dirglielo, ma in caso avesse chiesto spiegazioni, non avrebbe parlato. Erano informazioni troppo intime.
Il padre gli posò una mano sulla spalla, ma Ale si ritrasse immediatamente, senza nemmeno farlo di proposito. L’uomo non sembrò sorpreso, nè offeso. Disse solamente: “Vieni con me, avanti. Padre e figlio, come avrebbe sempre dovuto essere. Ce ne andremo da qui.”
Ale strinse gli occhi in due fessure, osservando l’uomo sospettoso. Non si fidava di lui, lo aveva abbandonato quando era piccolo ed ora aveva intenzione di ricominciare una vita? La sua vita era insieme ai fratelli, pensò con dolore, ma non poteva tornare. Doveva stare lontano da Luna, e lui sapeva che se l’avesse rivista anche solo una volta non avrebbe resistito. Il suo profumo, i suoi abbracci, i suoi sorrisi fantastici, nulla gli apparteneva, nè gli era mai appartenuto, perché lei era sua sorella, e non poteva esserne innamorato. Mai.
“D’accordo” disse con dolore, prendendo finalmente quella decisione. Gli occhi gli bruciavano come mai era successo prima. La consapevolezza di perdere Luna era il dolore più grande che avesse mai provato, ma ora aveva deciso. Da quel momento in poi non avrebbe fatto che allontanarcisi. Non poteva fare altrimenti.
“Sono davvero felice, figlio mio! Vieni, andiamocene da qua.”
Il padre sembrava commosso, ma Ale sapeva che fingeva. Non poteva volerlo davvero, dopo tutti quegli anni. C’era qualcosa che non andava e non si lasciò fregare dal suo atteggiamento di padre pentito. Non aveva scelta,però se non quella di seguirlo. Dove altro avrebbe potuto andare? Non poteva di certo restare in quel boschetto.
Suo padre iniziò a camminare con passo svelto, muovendosi abilmente tra gli alberi e non sbagliando mai direzione. Non si voltò mai a controllare se suo figlio lo stesse seguendo, sapeva che non aveva scelta. Ale seguì quell’uomo fino ad un fuoristrada rosso sbiadito che stava èarcheggiato su uno spazio sabbioso non lontano dalla stradina che conduceva alla città. Si accomodò sul sedile del passeggero, non preoccupandosi di non sporcare i sedili con i suoi vestiti. Non gli importava niente di quell’uomo, stava con lui solo perché non aveva scelta, si ripeté per l’ennesima volta.
“Vincent..” iniziò Ale, chiamandolo con il nome che conosceva di lui.
“Utilizza Bill, se proprio non vuoi chiamarmi papà” gli suggerì con un’espressione divertita. Ale non lo avrebbe mai chiamato papà. Lui non aveva un padre. Suo padre era stato Dario, e ora non aveva nemmeno più lui.
“Bill. Dove stiamo andando?” chiese quando erano partiti.
“Andiamo a Belmont, per oggi. Hai bisogno di una ripulita.”
Ale si irrigidì. “Non ho intenzione di tornare in città” disse a voce un po’ più alta.
“Stai tranquillo, Alexandre. Nessuno ti vedrà. Non ci resteremo tanto.”
Ale si rilassò leggermente. Sembrava che il padre capisse il suo bisogno di andarsene. Sembrava sapere cosa fosse successo. Ormai era quasi sicuro che lo spiasse, ma in quel momento pensò che fosse meglio così. Lo conosceva a fondo e sapeva anche del suo segreto. Era meglio per lui.
Trascorsero il viaggio in silenzio, accompagnati da canzoni country che davano alla radio. Suo padre sembrava amarle e ogni tanto ne canticchiava una, ricordandogli con una fitta di malinconia suo fratello Marco. Si chiese più volte cosa stessero facendo i suoi fratelli, e ogni volta sentiva il bisogno di tornare da loro e riabbracciarli. Voleva chiedere scusa a Dario per essersela presa con lui. Voleva cancellare tutto ciò che era successo il giorno precedente con un abbraccio e qualche risata, ma questa volta non era possibile. Come avrebbe potuto vivere la sua vita, se Luna non faceva parte di essa?
Tra un pensiero e l’altro, non si era neanche accorto di essere entrato in città, ed ora si ritrovava ad ammirare il fiume Swan dal finestrino. Nonostante ci fosse abituato, ogni volta che lo vedeva rimaneva rapito. Andava a passeggiare davanti a quel fiume da quando era piccolo. Era un’abitudine che aveva acquisito tanto tempo prima e non aveva mai perso. Era rilassante, lo adorava, e ora invece avrebbe dovuto dire addio anche a lui.
La macchina si fermò presto, davanti una casetta anonima e senza recinzione, dai muri dipinti di bianco e il tetto di tegole rosse. Era identica a tutte le altre in quella via, quindi perfetta. L’anonimità era proprio ciò che serviva ad Ale in quel momento.
In silenzio come sempre varcarono la soglia, che dava immediatamente su un salotto poco accogliente. Non aveva niente di più che due divani, un televisore e un caminetto in disuso. Il pavimento era sporco e ogni tanto presentava qualche buco tra le tavole di legno e il muro. Sulla sinistra c’erano due camere da letto e di fronte un corridoio che svoltava verso destra, portando alla cucina. Non riuscì a vedere altro da lì, se non che l’intera casa era polverosa e malandata.
“Ti chiedo di scusarmi, ma era un po’ che non mettevo piede qui dentro.”
Ale fece spallucce. Non gli interessava di certo se la casa fosse pulita o no.
“Vieni, ti mostro dov’è il bagno. Ah puoi prendere questi” disse porgendogli una pila di vestiti sgualciti. Ale li esaminò mentre seguiva il padre verso la cucina. Erano vecchi, ma puliti. C’era un asciugamano rosso, un paio di jeans e una polo bianca che sembrava leggermente larga. Considerando che erano di suo padre, erano perfetti. Dalle foto che aveva visto, non era mai stato esile.
“Laggiù c’è il bagno” gli disse dandogli una pacca sulla spalla, per poi tornare indietro. Ale si girò verso di lui, infastidito. Non gli andava di essere toccato da quell’uomo, ma non fece in tempo a dirgli nulla che era già sparito oltre la cucina.
Il bagno si trovava in fondo a un corridoio che partiva dalla cucina, dirigendosi verso sinistra. A destra invece c’era una vecchia lavatrice che dubitava funzionasse. Di fronte a lui c’era una porta per raggiungere il giardino sul retro, al quale diede una sbirciatina. Un grande albero stava al centro di un prato ingiallito, a troneggiare l’intero spazio erboso. Le piante erano incolte e molto estese, e ricoprivano anche le mattonelle che portavano al cancelletto. Sicuramente, qualcuno non ci entrava da un po’. Dentro casa, tutt’intorno a lui, erano poggiate cianfrusaglie di ogni genere, a partire da detersivi vuote e spugne rinsecchite, fino ad arrivare a pezzi di ferro arruginiti e ormai inutilizzabili.
Si diresse verso il bagno, passando per quel corridoio disordinato. Su un tavolo erano adagiati vari tipi di vestiti impolverati e qualche busta vuota. Il pavimento sembrava dello stesso materiale delle mattonelle del giardino, il che gli fece pensare che quel corridoio fosse stato costruito in seguito, e prima fosse all’aperto.
Il bagno era forse la stanza più sporca di tutta la casa. Il pavimento di mattonelle gialle era ingrigito dalla polvere raccolta negli anni, e soprattutto negli angoli non si riusciva più a distinguere il colore. Licheni giallognoli prosperavano attaccati alle mattonelle della vasca-doccia, facendogli storcere il naso per la repulsione. Si obbligò a entrare lì dentro e lavarsi, solo perché ne aveva veramente bisogno e voleva sciacquare via il sangue che aveva versato quel giorno. Ogni volta che ci pensava gli veniva da vomitare, e qell’ambiente non aiutava di certo.
Dopo la doccia cercò di scacciare le formiche presenti sul lavandino, per poggiare i suoi vestiti. Ora che guardava meglio, riusciva a distinguere formiche ovunque. Erano per terra, sul lavandino, vicino lo specchio appannato e uscivano fuori dalla finestr, la quale non si chiudeva bene e lasciava aperto uno spiraglio.
Ale si rivestì il più velocemente possibile cercando di evitarle e uscì dal bagno con sollievo.
“Credo che dovremmo ordinare una pizza per stasera” disse suo padre non appena lo ebbe raggiunto.
Ale non si sentiva ancora benissimo con lo stomaco, e l’idea di mangiare non lo faceva entusiasmare, ma acconsentì comunque dicendogli che gli andava bene una pizza qualsiasi.
Suo padre insistette per parlare quella sera, ma non riuscì a farlo chiacchierare molto. Le sue intenzioni erano di scoprire i gusti di suo figlio, ciò che amava e ciò che odiava, ma Ale lo vedeva semplicemente come un conoscente che gli stava offrendo un tetto, non come un padre e comunque era dell’idea che ciò che voleva sapere, erano cose che avrebbe dovuto scoprire da solo, non chiedendole. Inoltre quell’uomo non gli stava per niente simpatico. In tutti quegli anni lo aveva odiato per essersene andato e averlo lasciato solo con sua madre. Solo quando anche la madre se ne andò riuscì a smettere di odiarlo, anche se comunque non provava sentimenti positivi per lui. Bill comunque non sembrò perdersi d’animo quando Ale se ne andò finalmente a dormire, gli disse che avrebbero continuato il giorno seguente, durante il loro viaggio.
Non riusciva ancora a capire questo improvviso interesse verso suo figlio, e soprattutto, questa casualità che quell’uomo ci fosse quando Ale ne aveva davvero bisogno. Non riusciva a scrollarsi da dosso una strana sensazione, che gli continuava a ripetere che non poteva essere semplicemente una coincidenza.
Distrutto, Ale si buttò sul letto e si addormentò, con le parole di suo padre che gli rimbombavano nella testa: “Domani mattina, la partenza.”


 

 

 

Spazio autrice.
Ebbene sì. Ho deciso di tornare a pubblicare qui, non so nemmeno il perché in realtà. Non mi piace però lasciare le cose a metà, quindi continuerò la storia, anche se non ricontrollerò i vecchi capitoli. Per la versione aggiornata consultate pure il mio Wattpad. Qui mi limiterò a terminarla. Questo  in realtà doveva essere il capitolo 19, ma in realtà non so il perché, qui risulta il 17 haha. Ok vi saluto a tutti, un bacione e un abbraccio, mi siete mancati popolo di efp :P 
   
 
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