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Autore: Aleena    16/05/2015    1 recensioni
Nel regno di Lolth, ogni ottantotto anni i figli bastardi di Che'el Phish, la
Città Rossa, devono correre nell'arena. Non c'è possibilità di salvezza per i maschi, solo
una rapida morte.
Rakartha pensa che il suo sangue di femmina la salverà, ma la crudele divinità dei Drow,
Lolth, ha in serbo per lei una sorpresa che le cambierà la vita.
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Storia vincitrice dell'Oscar per il "Miglior Trucco e Acconciatura" agli Oscar EFPiani 2016
[1a classificata al contest "Sangue, Slash e Fantasy" indetto da Ynis sul forum di efp
2a classificata al contest "Of Monsters and Masters" indetto da La sposa di Ade sul forum di efp]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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CAPITOLO III
GIOCO D'AZZARDO



 
  Ottantotto anni erano passati sempre più veloci, come se il tempo stesso non vedesse l’ora di far correre Rakarth.
A volte, chiuso nella sua stanza, lo jaluk si immaginava il tempo come una jalill con la frusta in mano, bramosa del suo sangue. Spesso aveva le sembianze di una delle jalill conosciute nella casa, altre ancora somigliava a Rakartha in una maniera impressionante. Sapeva perché: una parte di lei lo voleva morto, e non poteva biasimarla – ma se Rakarth perdeva, perdevano entrambi.
Poi, una mattina, le guardie non avevano aperto la porta della sua prigione. Rakarth era rimasto immobile, pronto a tutto: spesso i carcerieri sceglievano un lotto di prigionieri per sfogare la loro frustrazione. Bhe, se così doveva essere, lei non sarebbe stata a guardare.
Avrebbero sperimentato sulla loro pelle cosa voleva dire sfidarla.
Il silenzio era scivolato sulla roccia calda per un tempo interminabile prima che le voci cominciassero a essere percepibili.
Rumori discordanti, echi di accenti sconosciuti e lingue barbare che ridevano, discutevano e litigavano. Rakarth drizzò le orecchie a punta e chiuse gli occhi, cercando di distinguere fra quei suoni parole che gli fossero familiari. Non le trovò che in brevi accenni, pezzi di frasi irridenti rivolte alle guardie, ordini. Ordini! C’erano tante, troppe note maschili in quelle voci. Che stava succedendo?
Sporse il volto affilato oltre le sbarre e, con la coda dell’occhio, vide di non essere stato l’unico a farlo. E, mentre osservava le figure emergere dalla semioscurità del corridoio – preceduti dalla luce vivida delle torce al led – Rakarth si rese conto che tutti quelli che erano rimasti rinchiusi erano i Corridori di quel Tangin Thata. Poi la luce si alzò, troppo vicina, e i suoi occhi si riempirono di fuoco e lacrime. Con un ringhio si tirò indietro, accecata.
Per lunghi minuti Rakarth fu conscia solamente del proprio dolore, interamente assorbita da una tortura che non aveva mai sperimentato – poi le ombre si fecero più sottili e, a ogni battito di ciglia, qualcosa emergeva dal bianco luminoso stampato sulla retina, finché tutto tornò normale.
Allora lo vide.
C’era un maschio in piedi davanti alla porta, intento a osservarla. Teneva la testa alta e gli occhi puntati nei suoi, nella maniera di chi cerca botte… ma non sembrava volerlo sfidare. Lo osservava piuttosto con una curiosità appena nascosta.
Come si guarderebbe una bestia esotica pensò Rakarth. Come io guardo lui si disse, di sfuggita, accorgendosi che era vero solo quando il pensiero ebbe avuto il tempo di decantare.
Il volto dell’altro era morbido e affilato come quello degli Ilythiiri, e anche le orecchie avevano un accenno dell’aguzza eleganza tipica della sua razza, ma quelle erano le uniche cose che li accomunavano. Era alto, tanto alto: Rakarth dubitava di riuscire ad arrivargli alle spalle in punta di piedi. La pelle del maschio era pallida e rosea, una sfumatura innaturale anche confrontata con la sua; aveva gli occhi grigi come l’argento e i capelli neri, lunghi fin quasi al petto. Indossava una maglia di tessuto nero che metteva in mostra ogni piega del suo corpo esile sotto una giacca di pelle dello stesso colore, dall’aria vissuta. In mano teneva un contenitore cilindrico in vetro lavorato a rilievi d’argento, dentro il quale si agitava un liquido luminescente d’un blu argentato. Il maschio lo lanciava distrattamente in aria, riafferrandolo senza neanche guardarlo.
Tutta la sua attenzione pareva essere per Rakarth, che sollevò il mento, ben deciso a non perdere la sfida – un gesto che divertì l’altro. Con un’eleganza che tradiva modi ben più nobili di quelli che l’abbigliamento suggeriva, il maschio si chinò, appoggiando la testa e i gomiti alle sbarre della cella, mentre le braccia si avvolgevano al metallo.
«Mi hanno raccontato una storia curiosa su di te, sai?» disse il maschio nella lingua di Che’el Phish, l’accento esotico appena percepibile nella maniera in cui ammorbidiva le consonanti. Fece cenno a Rakarth di avvicinarsi, e lei l’ignorò.
«Ah, non ho dubbi. Posso indovinare?»
«Hanno detto che c’era un maschio, in queste segrete, che un tempo era stato una femmina. Una notizia a dir poco sconvolgente, non trovi?» C’era una nota tremenda nel suo alito, quando parlava: l’odore del sangue, vecchio e appena accennato, ma persistente - un’ospite gradito, come nell’arena.
«Incredibile.» Rakarth modulò la voce a una noia distratta. Staccandosi dalla parete di fondo, allargò le braccia e roteò le mani, indicando il corpo nudo dalla cinta in su, con vanità. «Soddisfatto?»
«Non molto. Mi spettavo uno di quegli esseri che mettono in mostra nei circhi.»
La risposta non piacque a Rakarth che, quasi senza rendersene conto, finì per trovarsi troppo vicina all’altro, furiosa. «Non ho idea di cosa siano.» Soffiò, stizzita.
«Lascia stare. Sei pronto?»
«A morire? Pensi che si possa essere pronti?»
«A correre, imbecille. A uccidere e tradire per guadagnarti la libertà.» Il tono dell’altro non le piaceva: la trattava come un bambino, come una stupida.
«Io sono uno jaluk, coglione d’un maschio! Io corro solo per morire. Che vuoi da me?»
«Offrirti questo.» Il visitatore non sembrava offeso, solo tremendamente divertito. Le allungò il cilindro con un gesto morbido, tenendo la mano tesa anche quando lei non accennò a toccarlo.
«Che veleno c’è lì dentro?» domandò Rakarth, alzando un sopracciglio. Aveva incrociato le braccia al petto, un gesto difensivo solo in parte. Non voleva cedere alla tentazione di esaminare quel che l’altro le offriva.
«Questi saranno i tuoi colori. Non ne avrai altri, credimi: mi sono assicurato che le scelte degli altri cadano su soggetti meno interessanti.» Con un cenno della testa indicò alle sue spalle. Rakarth distolse lo sguardo senza accorgersene e vide altri maschi e femmine dall’aspetto grottesco e gli abiti eleganti che camminavano fra le file di celle, osservano i Corridori. Ognuno di loro era seguito da un altro individuo – uno schiavo? – che trascinava piccole casse fluttuanti stracolme di cilindri pieni di identico liquido colorato. Ognuna di quelle creature infernali aveva il suo colore, brillante e luminescente.
Rakarth li fissò, cercando di nascondere la curiosità che era il suo vizio peggiore, ma l’altro dovette individuarla perché chiese: «Oh, non sai come funziona, vero?» ridendo come un bambino.
«Chi diavolo siete?»
«Come ti chiami?»
«Che cazzo di risposta è?» Rakarth era infastidita, e non si preoccupava di nasconderlo. Quello sguardo troppo divertito le faceva saltare i nervi come poche altre cose al mondo.
«Una risposta per una risposta. È equo, no?»
«Rakarth…» cominciò, fermandosi appena prima che la “a” finale gli sfuggisse dalle labbra.
«E…?»
«E basta. Ora dimmi chi siete!»
«Hai proprio il temperamento di una jalill, tu.» Rise l’altro. Con un dito fece cenno a Rakarth di avvicinarsi e abbassò la voce fino a un sussurro. «Vedi, Rakarth, la verità è che le femmine nobili sono delle bamboline viziate. Non possono essere colpite, danneggiate, maltrattate, punite… o almeno, non come una volta. Il risultato è che sono più deboli. Cinquecento anni fa nessuna di loro sarebbe sopravvissuta alla pubertà.» Rakarth fece una smorfia, sperando che il disprezzo fosse più evidente della soddisfazione. Oh, le parole del maschio erano senza dubbio vere, ma ammetterlo era una condanna a morte certa.
È stupido o molto protetto? Si chiese, ma non aprì bocca, lasciando che l’altro continuasse a parlare.
«Voi siete più forti, anche con l’allenamento troncato che avete ricevuto. E loro lo sanno. Così hanno avuto un’idea geniale.» Rise ancora, forte, un suono che ferì le orecchie sensibili di Rakarth. Si era avvicinato tanto senza accorgersene, abbastanza da sentire l’alito caldo dell’altro sulla tempia. «Questo liquido è indelebile e luminescente. Ve lo spalmeranno addosso prima della partenza e lo useranno per individuarvi nell’arena. Così…»
«Non dovranno nemmeno avvicinarsi.» Rakarth aveva l’amaro in bocca. L’idea in sé era ottima, senza dubbio, ma il significato! Quelle femmine li temevano! «E voi in tutto questo che c’entrate?» disse, per togliersi quel pensiero imbarazzante dalla testa.
«Noi siamo qui per scommettere. Tutta la Corsa è trasmessa in diretta e gli spettatori, sugli spalti, possono decidere su quale nome puntare. Esistono delle quotazione che… bhe, specchi per le allodole.» Il maschio arricciò il naso, inorridito. «Sono numeri a caso, basati sulle statistiche. Nessuna analisi è molto più di una presa per il culo, secondo la mia esperienza. I veri giocatori, quelli che amano puntare forte, non si limitano ai nomi o ai numeri: scelgono in base alle sensazioni, agli auspici e a ciò che l’occhio gli suggerisce. Per questo siamo qui. Ora, puoi prendere il mio colore e correre per me, o puoi lasciare che ti dipingano del giallo accesso che hanno gli schiavi che nessuno vuole. A te la scelta.»
Rakarth strinse le labbra, disgustato. O divento il suo svago o finisco nel mucchio degli anonimi. Non era una scelta difficile, per lei. Rapida, afferrò il cilindro e lo strinse con forza.
«Tu… sei un bugiardo. Mi hai scelta prima ancora di vedermi.»
«Mi sono informato. Ma non ti avrei dato il cilindro se tu non fossi stato… se non avessi visto anche lei.» il maschio allungò una mano e la passò lungo la mascella di Rakarth, accarezzando la curva del mento e poi su, fino alla bocca piena, che saggiò col pollice. Lei lo lasciò fare: le piaceva quel maschio, e che male c’era a giocare un po’ con lui?
«Tu hai un solo cilindro. Perché?»
«Preferisco ottenere una grande vittoria assoluta. Io non gioco per i soldi.» le disse, avvicinando il suo volto a quello dello jaluk.
«Che tipo di scommessa hai intenzione di fare?» sussurrò Rakarth sulle labbra dell’altro; questi allungò la lingua e la passò sulle sue, lentamente. Poi gli afferrò il collo e lo tirò a sé, stringendo la gola in una morsa dolorosa e innocua. Il maschio dischiuse le labbra e, mentre la lingua si faceva strada nella bocca di Rakarth, lei prese a muovere anche la propria.
Il sapore di sangue si fece più intenso, ma lo jaluk non vi badò: ad annebbiargli la mente c’era parte di quel desiderio che, dalla notte con Dresden, non aveva mai soddisfatto – ma più forte, amplificato dallo sconosciuto. Una mano di Rakarth si mosse verso il maschio, scivolando sul petto di lui per pochi centimetri prima che l’altro si allontanasse di scatto, sorridendo divertito.
«La mia scommessa è un mio problema. Tu devi solo sopravvivere.» disse, leccandosi le labbra rosse lentamente, in maniera volgare.
Rakarth sentì la vergogna invaderla: era stato lui a usare lei! Come aveva potuto permetterglielo?
«Sono un maschio, per la Dea! Un maschio. Lo vedi? Lo capisci oppure sei completamente stupido? Io devo morire, là dentro!» gridò a voce troppo alta, stringendo gli occhi. Se avesse potuto, avrebbe avvolto il collo dell’altro con le braccia fino a sentire il crack dell’osso che si frantumava.
«E io sono un giocatore del tipo peggiore: amo rischiare ma non mi piace perdere.»
«Allora scommetti su di me, vivo dopo la ventiquattresima ora. E spera di non essere anche un maledetto iettatore!» Gli gridò Rakarth, ma quello si era già allontanato. Gli voltò le spalle e agitò la mano nell’aria stantia della grotta, in un saluto irridente. «Testa di cazzo.» sussurro Rakarth.
Rimase a guardarlo allontanarsi, indifferente alle chiacchiere che si facevano intorno a lui. Aveva ancora il cilindro fra le mani e lo stringeva con la stessa enfasi con cui avrebbe stretto l’altro, ora.
Fino a ucciderlo.

 


 

 

Piccolo Spazio-Me: vorrei ringraziare innanzitutto chi è arrivato fin qui: ci tengo tanto a questa storia e mi fa piacere vedere che c'è qualcuno che la segue! Poi mi scuso: le mie giornate sono state più piene di quello che avrei creduto :S cercherò di non farvi aspettare molto il prossimo aggiornamento e farò in modo di affrettarmi a scrivere i capitoli mancanti :)
Al solito, fatemi sapere che ne pensate di questo nuovo capitolo mi raccomando ;) 

 
  
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