Crossover
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Autore: Registe    17/05/2015    4 recensioni
Terza storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
"L’esercito del Grande Satana colpì in modo violento l’Impero Galattico. Non vi furono preavvisi, minacce o dialoghi alla ricerca di una condizione di pace. I demoni riversarono i loro poteri in maniera indiscriminata, non facendo differenza tra soldati e civili, guidati solo da un ancestrale istinto di distruzione. Soltanto la previdente politica bellica dell’Imperatore Palpatine riuscì ad impedire un massacro in larga scala.
-“Cronistoria dell’Impero Galattico, dalla fondazione ai nostri giorni” di Tahiro Gantu, sesta edizione.-"
[dal primo capitolo].
E mentre nella Galassia divampa la guerra, qualcun altro dovra' fare i conti con il passato e affrontare i propri demoni interiori...
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anime/Manga, Film, Libri, Telefilm, Videogiochi
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 24 - L'ultima speranza del genere umano





Zexion




Amare è qualcosa di meraviglioso. È tutto ciò che riesce a farmi sentire viva.
Questo mio padre non riesce a capirlo: l’amore per mia madre si è addormentato nel cuore, quasi come una bara di cristallo nel roseto di Rivendell. Gli piace lasciarlo così, contemplandolo quando i bardi accorrono al suo cospetto per narrare le vicende di Beren e Lúthien. Gli piace sapere che potranno trascorrere migliaia di vite degli uomini, ma la sua più grande gioia ed il suo più grande dolore saranno incisi nel tempo, immortali.
Io non lo so. È da quando lui è comparso nella mia vita che non lo so.
Aragorn ama con la vita negli occhi. Riesce ad amare con una spada in pugno, con una pipa in mano, con un boccale di birra o ricoperto di fango. Il domani lo stuzzica, ma l’oggi …
Lui dice che questo è l’amore alla maniera degli umani. Incostante, pazzo e cieco, che non vuole sentire la parola perché. È un sentimento stupido in grado di farti fare le cose più impensabili, persino affrontare un drago a mani nude. Gli umani amano tutto, perché tutto può essere oggetto d’amore.
L’amore degli uomini è come il fuoco di Moria. Quello di noi immortali è come i ghiacci del Carahdras.
Dai diari di Arwen figlia di Elrond, regina della Terra II.




Non c’erano sogni in quel luogo senza forma. Zexion allungò la mano nel buio, quasi come ad acchiappare qualcosa, a stringere una qualsivoglia forma che gli permettesse di non scivolare verso il basso. Cercò di pensare e di respirare più forte, ma dalle labbra gli sembrava che uscisse solo un suono inarticolato, i toni della propria voce risucchiati e freddi. Cercò di ricordare come fosse finito in quella situazione, ma davanti alla sua mente balenò solo una luce dorata ed il grande occhio nero del Puzzle Millenario, e questi iniziarono a pulsargli nelle tempie fino a quando si arrese e distolse la mente da quel pensiero doloroso.
Qualcosa gli sfiorò i capelli.
Un movimento leggero come una carezza, ma quando si voltò si ritrovò ancora una volta nel buio. Estese i propri sensi al massimo, ma nessun odore riempiva quel vuoto; tastò intorno a sé alla ricerca di quella presenza, e si ritrovò ad accarezzare soltanto il silenzio. Eppure la presenza era lì, intorno a lui. Lo guardava, di questo ne era cosciente, ma si trovava oltre la nebbia sottile che avvolgeva quel mondo; Zexion chiuse gli occhi cercando di individuarne l’origine, eppure proprio quando stava per abbandonare la percezione qualcosa lo colpì al braccio, sottile come un ago. Sollevò un arto contro quel nemico invisibile almeno per farsi scudo, ma il punto dove era stato ferito iniziò ad emanare calore. Molto calore. La sensazione di bruciore gli arrivò fino alla spalla, mentre la mano ed il braccio sembravano svanire, inghiottiti dalla nebbia che adesso si era avvicinata a lui aderendo ad ogni minuscolo pezzo di pelle. Quando provò a lanciare un grido si accorse che il dolore era arrivato fino alla gola e si era trasformato in suono.
Il buio lasciò il posto a tre luci fioche. Erano sopra di lui, e si muovevano in modo quasi impercettibile nell’aria; il buio si ritrasse lasciando che quei tre punti rossi ed arancio assorbissero la nebbia e la trasformassero in un unico alone tremulo. Strinse gli occhi e le vide, piccole candele appese a dei contenitori di bronzo uniti al soffitto. La luce di una si rifletteva nel metallo delle altre riempiendo il mondo di quel colore indefinito. Il profumo era quello del muschio di Kalm.
Ma non c’era solo quell’odore.
L’uomo accanto a lui era in silenzio, a capo chino. La tunica nera gli cadeva sulle spalle e lungo i gomiti in modo innaturale, come se fosse troppo larga per colui che la doveva indossare; le mani erano nascoste dalle maniche, ma anche sotto la stoffa scura le nocche si alzavano e si abbassavano, si abbassavano e si alzavano con quel fare nervoso che gli anni non erano riusciti a cancellare. Erano riusciti solo a rendere più profondo il suo sguardo e più curve le spalle che erano sempre rimaste dritte anche quando si chinava sulle provette o durante la lettura nelle ore più profonde della notte. Respirò i suoi pensieri, ma non era preparato a quel vortice. Gli odori esplosero, serrandogli la gola come qualcosa di affamato che cercasse in ogni modo di scendere più in basso e stringergli i polmoni.
Cercò di ritrarsi, ma il suo corpo disobbedì a quell’ordine e rimase fermo. “Cosa mi hai fatto?” ringhiò, impartendo di nuovo alle gambe di scendere da quello che aveva tutta l’aria di essere un tavolo operatorio improvvisato. Ma gli arti gli sembravano gonfi, come se tutto il sangue del corpo fosse confluito lì sotto.
“Nulla”.
“Bugiardo”.
L’altro lo fissò con il quel solito sguardo di chi deteneva la Verità Incarnata, quello che gli destinava tutte le volte che cercava di spiegargli delle cose che a lui sembravano tanto elementari. “Perché non lo scopri da te?”
Già. A lui quel potere era sempre sembrato facile, entusiasmante. Era sempre stato una luce accesa nel suo buio scientifico, quella curiosità intorno a cui la falena della sua mente svolazzava alla ricerca di un perché, una chiave che permettesse di avvicinarsi e fare suo il Grande Mistero che nessuno dei suoi libri riusciva a spiegare. Anche quando si piegava a metà per il dolore che gli causava l’odore dell’odio di Saïx nei suoi confronti lui lo osservava dall’alto, la preoccupazione sempre accompagnata da quella voglia insaziabile di saperne di più. Nel tempo aveva semplicemente smesso di averne paura e l’aveva accettata come una realtà inevitabile, ma gli anni trascorsi all’Impero gli avevano quasi fatto dimenticare la sensazione di quegli occhi verdi su di lui, in attesa di una risposta.
Ma la risposta era complicata. Forse non c’era nemmeno. L’odore alla vaniglia era cambiato.
Era stanco, inquieto. Si appoggiava sulle sue labbra cercando di entrare e di mescolare il sapore amaro di quell’incontro al profumo dolce che lo circondava; impregnava tutta l’aria di quel minuscolo laboratorio come se vi vivesse da tanto tempo e gli scivolava addosso come a cercare un qualcosa di sepolto nelle pieghe della memoria. L’odore parlava alla sua mente, ma era diventato un vortice. Per un attimo Zexion sobbalzò sul lettino, indeciso su quale filo tirare nel groviglio di quella mente intricata dove la paura, il rimorso ma anche l’orgoglio si stavano rincorrendo senza sosta. Qualunque filo sarebbe andato bene, ed allo stesso tempo sarebbe stato irrimediabilmente sbagliato. L’unica cosa su cui sembrava sincero era proprio quell’affermazione di non avergli fatto alcun male. Ancora.
“Riprenderai le forze in tre ore, anche meno. Non ho idea di come ti abbiano ridotto in questo stato, m sei stato fortunato a non aver riportato danni cerebrali”.
“Risparmiami queste spiegazioni da quattro soldi e dimmi che sta succedendo. Cosa diamine mi stai facendo?”
L’altro si limitò ad aprire una enorme sacca accanto a lui ed a inserirci dentro quante più cose poteva. Zexion gli vide prendere un volume cosparso di rune demoniache e farlo sparire nelle pieghe, poi fu il turno di una dozzina di ampolle piene di un liquido che aveva tutto l’odore di essere un sonnifero ed alcuni oggetti luminosi che furono inghiottiti dal bagaglio prima che potesse capire cosa fossero. “Se rimandassimo le domande ad una volta usciti? Mi dispiace farti notare che il Ryumajin sarà qui tra meno di un’ora, e quando scoprirà che il suo prezioso nano da giardino –disse, indicando un minuscolo demone svenuto a terra- è stato messo fuori uso da degli umani … beh, non sono esattamente desideroso di trovarmi davanti a lui, capisci?”
“La tua adorata Scienza non ha ancora trovato un modo per fermare il Dio Drago?”
Non c’era molto con cui riempire il silenzio che ne seguì. Fu un attimo di respiro che gli consentì di isolare per un attimo se stesso da quel laboratorio e dalla persona che stava preparando la fuga. Si trovava in mezzo ai demoni, quello era poco ma sicuro: l’odore del Grande Satana impregnava anche la tenda più sottile, persino i balconi abbandonati, riempiendogli le narici di un sapore acre, pungente e furioso che fino a quell’istante aveva creduto soltanto essere un sottofondo privo di importanza. Sentì la forza dei guerrieri ed il potere di colui che possedeva il Puzzle del Millennio.
Poi sentì il Cavaliere del Drago.
Ritrasse la mente pur di non andare oltre. E quando tornò vide una mano dalle dita lunghe, coperta da un guanto nero, rivolta verso di lui. Una mano che emanava freddo soltanto a guardarla, anche se quel lieve abbassarsi della temperatura nella stanza non era altro che un segno che il cuore di ghiaccio dell’uomo davanti a lui era nella più profonda agitazione. “Andiamocene …”
“NON MI TOCCARE!”
Tirò indietro la schiena pur di allontanarsi da lui. Le spalle erano pesanti come le gambe, ma avrebbe dato qualunque cosa pur di non … “Non ti azzardare a toccarmi!”
“Non ce la farai ad alzarti da solo. Tu appoggiati a me, Camus porterà tutto il resto!”
Giusto, aveva dimenticato l’immancabile presenza di quel sacerdote da due soldi che da oltre quattro anni a quella parte non si staccava dalla tunica del suo padrone nemmeno sotto tortura. Lo sentiva, nascosto dietro uno scaffale come per evitare quella tempesta, e doveva solo ringraziare i suoi preziosi dèi di trovarsi abbastanza lontano da non ricevere uno sputo in piena faccia. Zexion non aveva mai incontrato nessun essere più patetico di lui. Ed anche se non sentiva più alcuna traccia del condizionamento non riusciva a trovare alcun piacere nel voltarsi verso quell’essere meschino e servile, così idiota da non rendersi conto di ciò che meritava davvero il suo padrone. “Non ti seguirò da nessuna p… “
“SMETTILA DI FARE IL BAMBINO E VIENI!”
Eccolo, era comparso. Lo scienziato spazientito aveva fatto ritorno con il suo solito urlo superiore. “Non abbiamo un minuto da perdere, né io né te. Io e Camus non possiamo certo combattere le guardie, quindi TU devi venire. Se ho fatto bene i calcoli queste stanze non sono troppo distanti dai nidi delle viverne, se con il tuo potere riuscissimo ad evitare i demoni potremmo prenderne una e cercare di andarcene, Camus dovrebbe saperlo fare”.
Giusto, il motivo non poteva che essere quello, in fondo …
“Mi sembrava strano che mi stessi aiutando in modo disinteressato … senza di me non riusciresti a portare in salvo la tua preziosissima pelle o sbaglio? Bene, mi stai fornendo un motivo ancora più convincente per non muovermi da qui!”
“Forse non hai ben chiaro che …”
“NO! SEI TU CHE NON HAI BEN CHIARO NIENTE! ASSOLUTAMENTE NIENTE! COSA CREDI DI SAPERE?” urlò. “COSA CREDI DI SAPERE DI ME?”
Non sapeva nulla, credeva che sarebbe bastato. Quell’uomo pensava che offrirgli una via di fuga fosse sufficiente per cancellare tutto quello che era successo. Gli anni di isolamento, di silenzio grigio trascorsi a Coruscant uscirono tra una parola e l’altra mentre cercò di mettersi seduto al meglio che poteva per poterlo guardare bene in quegli occhi che si nascondevano dietro i ciuffi biondi. Pensava che “metterlo al sicuro” fosse sufficiente.
Era stata quella la causa della loro frattura.
Lo scienziato era certo di sapere cosa fosse meglio per lui. Credeva sul serio che “vivere” fosse l’unica cosa importante, che “sperimentare” fosse la massima ambizione per un uomo, che “tradire” non fosse altro che un mezzo per ottenere qualcosa che forse aveva già ma era stato troppo cieco per vedere. Zexion lo aveva adorato in maniera incondizionata, ma il complotto al Castello dell’Oblio aveva rivelato la sua natura. E non erano stati gli odori ad ingannarlo.
Era stato il suo cuore a diventare cieco a tutti i segnali, ai gesti, a quelle piccole parole che invece, guardandolo con gli occhi di un adulto, erano così lampanti da costringerlo a vergognarsi della propria ingenuità. Quella figura alta, chiara in quell’abito scuro e gli occhi gonfi non aveva mai pensato ad altro che a se stesso.
Al Castello dell’Oblio non era tornato a cercarlo. Lo aveva lasciato a morire ed era fuggito senza voltarsi, portandosi dietro soltanto quell’odioso assistente e le sue preziose provette. Quel timer di dieci minuti gli aveva salvato la vita, ma l’aveva gettata in un inferno. Il solo pensiero gli fece risalire le lacrime agli occhi, ma le ricacciò indietro. Non avrebbe pianto davanti a lui. Non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederlo di nuovo come un bambino spaventato. Per quello che lo riguardava, il Ryumajin poteva portarseli via tutti.
“Nulla”.
Quella parola uscì fuori quasi per errore. Forse l’aveva solo immaginata, stava per gridargli di nuovo quando la sentì una seconda volta rompere la sferza che batteva i suoi pensieri, timida e screpolata come le labbra che le avevano permesso di scappare. “Assolutamente nulla. Ora più che mai …”
Quando mosse la testa i ciuffi non riuscirono più a coprirgli lo sguardo. Era stanco, molto stanco. La luce delle lampade si rifletteva in un angolo delle iridi, ma era un chiarore flebile, consumato, come se si trovasse in quel luogo solo e soltanto perché la testa aveva scelto di piegarsi in un modo e non in un altro. Il verde screziato che conosceva si era addormentato sotto le palpebre, limitandosi ad indossare un colore verde anch’esso ma più tenue, senza alcun lampo dorato di gioia, dolore o furia. Era un colore silenzioso, che a tratti implorava solo di affondare nel grigio ed allontanare la luce delle lampade e forse tutte le cose che si era stancato di vedere.
Vecchi. Quegli occhi erano vecchi.
Dall’esplosione del Castello erano trascorsi quasi quattro anni, ma per l’uomo davanti a lui ne erano passati molti di più. Zexion cercò di distogliere lo sguardo, ma qualcosa sul viso dell’altro lo costrinse a non cercarne altro che gli occhi e la bocca. “Non so chi sei, Zexion. Non ho idea di chi tu sia diventato. So solo per chi combatti, forse che tutto questo non ti piace. Non so nemmeno se sei ancora il bambino che conoscevo o un uomo del tutto diverso. In questo momento so soltanto due cose: la prima è che il Grande Satana mi ha ordinato di trasformarti in un ordigno vivente …”
Zexion lasciò andare qualunque timore legato persino a quelle parole. Il profumo di vaniglia era tutto ciò su cui riusciva a concentrarsi.
“ … e la seconda è che ho fatto una promessa. Una vecchia promessa alla persona più importante della mia vita”.

“Mi dispiace se ti ho spaventato. Mi dispiace tanto. Ti prometto che… “
“Lo so.”


Non c’era stato bisogno di aggiungere altro, a quei tempi. Le parole erano sempre state superflue, per lui più che per chiunque altro. Zexion ricordava tutte le sensazioni di quel giorno, le proprie e quelle che scivolavano lungo l’altro. Pensieri senza parole.
“Quella persona era così importante che l’hai lasciata sola a morire. Non pensi che sia un po’ tardi per farsi venire i sensi di colpa?”
“Non è mai troppo tardi per …”
Zexion congelò con uno sguardo il patetico assistente che fino a quel momento era rimasto appiattito contro una libreria fingendo di accumulare volumi da portare via nella fuga. Il sacerdote con il suo melenso sguardo da schiavetto bastonato non aveva perso la capacità di irritarlo. Per sua fortuna non terminò la frase, si limitò a piegare il capo e il n. VI riprese fiato. Aveva ancora diverse cose da dire all’altro, ma si fermò quando riconobbe un odore che fino a quel momento era rimasto nascosto tra le pieghe degli effluvi del minuscolo laboratorio. Non ebbe nemmeno bisogno di scansare i capelli per riconoscere la forma sottile ed allungata che sembrava quasi trasparente nel guanto nero che gliela stava porgendo. Era impossibile ignorarne il profumo di morte. “Questa … è tua, immagino …”
La fiala di veleno, il suo ultimo regalo, era appoggiata tra quelle cinque dita e sporgeva invitandolo a prenderla di nuovo, come quando l’aveva accettata per versarne il contenuto nella bevanda di Larxen. Zexion si rese conto quanto tempo fosse passato da allora e quanto avesse riempito tutti quegli anni dell’unico sogno di restituire con gli interessi il veleno al suo stesso creatore, di afferrarlo per la gola e costringerlo ad ingerire goccia dopo goccia tutte le lacrime che gli aveva fatto versare. Aveva trascorso gli ultimi anni a fissare quella fiala cercando di dimenticare.
La prese con più urgenza di quanto immaginasse, ma la mano dello scienziato abbandonò la presa senza alcuna protesta.
Il contatto con il vetro placò i battiti del suo cuore. Pensò di farla scivolare sotto la tunica come aveva sempre fatto, portandola con sé in qualsiasi missione. Poi si fermò a metà, e la strinse nel palmo destro assicurandosi che gli occhi dell’altro fossero fissi solo e soltanto su di lui.
“Perché lo porti ancora con te?”
Zexion sentì una linea di preoccupazione nella voce. “Un metodo veloce per eliminare i nemici scomodi. Sai, lo scontro fisico non è mai stato il mio punto forte!” disse, assaporando il profumo di vaniglia che diventava più pungente, più pronto a ritrarsi. “Era una tua filosofia, giusto?”
“Non lo hai mai usato …”
Zexion aveva dimenticato con chi aveva a che fare. Il più abile osservatore che avesse mai conosciuto era di fronte a lui, con la provetta che si rifletteva nelle sue iridi. Forse aveva avuto modo di studiare il liquido mentre era svenuto, ma il ragazzo sapeva, sentiva lo stupore dell’uomo nell’osservare la sottile superficie del veleno che si piegava verso il basso insieme al suo contenitore. E non c’era alcuna paura in lui. Forse erano solo le proprie dita a tremare.
Si accorse che la cosa lo stava irritando più del dovuto e il bisogno di urlare si trasformò in un mugugno a denti stretti. “L’ho portato sempre con me perché … perché volevo usarlo per ripagare una persona che se lo merita!”.
“Capisco …”
Per la prima volta da quando la loro conversazione priva di senso era iniziata, l’altro si voltò verso l’ingresso e fissò una clessidra. La sabbia rosa scorreva dal basso verso l’alto, come usava presso la famiglia demoniaca, e sul fondo era rimasto soltanto un dito, una sottile manciata di granelli che iniziava a sollevarsi. Delle sottili venature di rosso correvano lungo il supporto dorato e forse era stata proprio la loro luce a richiamare l’attenzione dello scienziato; fu in quel momento che la paura dell’uomo tornò, muovendosi fin dentro i suoi polmoni. “Perdonami, ma temo che dovremo continuare questa conversazione più tardi”.
Si girò e superò la distanza che fino a quell’istante si era interposta tra di loro.
“Ti ho detto di non provare a toccarmi …”
“Mi dispiace, Zexion, ma anche stavolta dovremo fare a modo mio!”
Lo tirò verso di sé, e Zexion sentì il lettino svanirgli da sotto mentre il braccio dell’altro gli passò intorno alle costole. Provò ad allungargli un calcio, ad allontanarlo, ma la gamba era nel peggiore torpore che avesse mai provato e rimase a metà, pesante, finché lo scienziato non lo sollevò in piedi costringendolo a trovare in un modo o nell’altro il pavimento sotto i propri stivali. Provò a spingerlo lontano, ma quando riuscì a toccargli il petto con la mano destra sentì le dita cedere come se davanti a lui non vi fosse un uomo, ma un muro di duracciaio antiplasma. Cercò di vincere quella sensazione, ma nella nebbia che iniziava a creare spirali davanti ai suoi occhi vide ancora la sagoma oscura dell’Occhio Millenario e rimase con il fiato a metà; si sentì scivolare, ma l’altro lo strinse a sé con una forza che il ragazzo non aveva mai visto. Per non cadere di nuovo si aggrappò ai pendenti argentato della sua tunica e rimase così, con il sangue che gli pulsava nella testa ed il freddo che si stava insinuando dalla punta delle dita.
“Camus, muoviti e lancia un sonnifero fuori dal laboratorio! Usciamo di qui e poi cerchiamo la prima via d’uscita!”
“Io vi consiglio di non provarci nemmeno, umani …”
Zexion sentì l’odore del magma bruciargli dentro prima ancora di rendersi conto che la voce che aveva parlato non aveva nulla del timbro delicato e fragile del sacerdote. Era una voce nera, profonda, ed era giunta lì con l’unico scopo di giudicarli.




Le gambe di Vexen cedettero. Se non ci fosse stato il lettino operatorio a cui sorreggersi probabilmente sarebbe caduto, trascinando anche Zexion con sé.
Era finita, lo sapeva. E non solo la fuga. Non solo la speranza di libertà.
L’apparizione del Cavaliere del Drago sanciva la loro condanna a morte.
Cercò di ordinare alle gambe paralizzate di rialzarsi, ma i muscoli erano diventati di ghiaccio, e le mani, aggrappate al lenzuolo del lettino, tremavano in modo incontrollabile. Accanto a sé, Zexion era una macchia scura inginocchiata sul pavimento, la testa china sotto il peso dell’odore opprimente del loro carceriere.
Gli occhi del generale Baran erano voragini buie e senza fondo come la sua voce. Il Cavaliere gettò appena un’occhiata al corpo accasciato di Zaboera, poi avanzò verso di loro con spaventosa lentezza, il volto una maschera neutra che incuteva più terrore delle fauci spalancate di centomila draghi.
Vexen voleva balbettare una scusa qualunque, un’implorazione di pietà, ma anche la sua lingua era incollata al palato e rifiutava di muoversi.
Non poteva fare altro che attendere il giudizio che stava per abbattersi su di loro.
“Sapevo che era un errore fidarsi di voi umani.”
“N-noi… “
Bastò un lieve aggrottarsi di quelle sopracciglia nere e folte per ridurre lo scienziato al silenzio. “Voi due siete fortunati che al Grande Satana servite vivi. Sarà lui a decretare la vostra punizione. Dipendesse da me avreste già cessato di respirare.” Lo sguardo del generale inchiodò i due scienziati dove si trovavano, poi indugiò su Zexion. “Tu invece morirai qui e ora, ragazzino.”
“No!” il grido sfuggì dalla gola di Vexen prima ancora che il generale potesse sollevare la mano, e in un attimo il suo sguardo terribile fu di nuovo su di lui. Lo scienziato percepiva la magia nelle proprie vene agitarsi come un fiume di fuoco mentre entrava in risonanza con quella primordiale e incommensurabile del Cavaliere del Drago. Un potere talmente sconfinato da poterlo quasi respirare nell’aria satura di scintille. Lo sentiva invadergli i polmoni e premergli sulle spalle e la testa, imperioso, come la mano di un gigante che lo obbligasse a inchinarsi di fronte al padrone di tutte le cose.
“Anche lui serve vivo al Grande Satana!”
“Solo per morire in un modo diverso.” replicò il generale, lapidario. La sentenza era stata emessa. “Consideratelo un atto di clemenza.”
Zexion aveva sollevato la testa a fatica, ma era ancora troppo debole per muoversi. E anche se avesse potuto, non sarebbe servito a nulla. Vexen chiuse gli occhi mentre la mano del generale si accendeva di bagliori fiammeggianti. Non c’era via d’uscita.
Era finita.
“Allora anche lei pensa che il Grande Satana si sbagli, generale!”
La voce di Camus. Acuta, tremante, ma allo stesso tempo carica di una disperata determinazione. Vexen aprì gli occhi e se lo ritrovò davanti, in piedi a fare da scudo a lui e Zexion con le braccia allargate di fronte al Cavaliere del Drago. Da dove si trovava non poteva vederne lo sguardo, ma era certo di conoscere la luce battagliera che in quel momento doveva ardere nei suoi profondi occhi azzurri.
Provò commozione al pensiero che il sacerdote li stesse difendendo ancora, fino alla fine, contro ogni logica e probabilità. Ma non sarebbe servito a niente.
Nulla poteva salvarli, ormai.
“Non è così, generale? Risponda!”
“Spostati, umano.” Il tono del Cavaliere del Drago non era nemmeno minaccioso. Si limitava ad enunciare un dato di fatto: l’umano si sarebbe prostrato al volere della creatura più potente, perché quella era la natura delle cose.
“Ha parlato lei di clemenza, generale. Questo ragazzo non ha colpe… combatte per l’Impero solo perché è costretto, non per lealtà alla sua causa. E in ogni caso nemmeno l’imperiale più convinto meriterebbe di esplodere con sei nuclei neri chiusi dentro il corpo. Questo lei lo sa, generale. Lei è una persona onorevole… per questo vuole ucciderlo invece che riconsegnarlo vivo al Grande Satana. Non è così?”
“Non lo ripeterò un’altra volta: spostati.”
Una crepa. Un’ombra di rabbia. A Vexen non serviva un olfatto fuori dal comune per sentirla serpeggiare sotto il tono profondo e monocorde del generale. Camus stava forzando troppo la mano.
“Non posso farlo. Così come né io né padron Vexen siamo disposti a trasformare un ragazzo innocente in una bomba umana.”
“Nessun umano è innocente.”
“Non lo è, è vero. In noi si combattono luce e oscurità, e talvolta è la seconda a prendere il sopravvento. Compiamo gesti abominevoli, sappiamo essere avidi, spregevoli, meschini. Siamo esseri imperfetti, in questo ha ragione, spesso abbiamo bisogno di sbagliare molte e molte volte prima di trovare la via per il Nirvana. Ma allo stesso tempo siamo capaci di gesti eroici, di sacrifici immani, di far risplendere di nuovo la luce anche quando tutto sembra perduto. Lei… io so che alle Dodici Case ha consentito ai servitori e alle persone comuni rifugiate al santuario di allontanarsi prima di sferrare il suo attacco.” la voce di Camus si incrinò, ma proseguì inghiottendo le lacrime.. “Ha voluto evitare vittime inutili. Pensava che quegli innocenti meritassero di essere salvati. E le sono grato per questo, è stato nobile… “ Vexen non credeva alle proprie orecchie. Nobile. Camus stava ringraziando la persona che aveva sterminato i suoi confratelli e raso al suolo il tempio più importante del suo culto. Fino alla fine, fino all’ultimo, angoscioso respiro della loro vita il sacerdote non cessava di stupirlo.
“… lei è capace di pietà, generale, anche verso noi esseri umani. La prego, la dimostri anche ora, almeno verso questo ragazzo. Lo lasci vivere, e gli dèi gliene renderanno merito in questa vita o nelle prossime.”
“Sei abile con le parole, sacerdote. Ma io non sono come la vostra razza volubile, non muto i miei principi e le mie idee al primo soffio di vento.” Non andava bene, non andava affatto bene. Il ringhio del generale somigliava sempre di più a quello di un drago in procinto di soffiare, la fronte corrugata, le sopracciglia nere congiunte in un arco minaccioso, foriero di tempesta. “E tu, umano, non presumere di comprendere cose che non sarebbero alla tua portata neanche se possedessi la lunga vita di un demone!”
“Perché?” insistette Camus, e Vexen sentì Zexion trattenere il respiro. La magia nell’aria vibrò, guizzò e contorse le sue spire come un serpente impazzito. “Perché tanto odio verso di noi? Gli esseri umani sono imperfetti, è vero, ma che colpa imperdonabile hanno mai commesso per… “
“Che colpa avete commesso?!”
La tempesta scoppiò. Magia primordiale sferzò il viso di Vexen come una frusta, lo costrinse a rannicchiarsi a terra accanto a Zexion, gli occhi serrati per la paura. Udì il grido di Camus, poi uno spostamento d’aria e un tonfo seguito dal rumore di molti oggetti infranti.
“Avevate la cosa più bella che la terra ed il cielo avessero mai creato, e non siete stati capaci di onorarla! L’avete infangata, distrutta, e infine dimenticata! Avete alzato la vostra mano sacrilega sulla creatura più perfetta e luminosa che abbia mai calpestato la terra! Non la meritavate, così come non meritate di esistere!”
Le parole del Cavaliere del Drago erano il rombo di mille tuoni, il ruggito di decine di Nuclei Neri scatenati a seminare distruzione. Quell’essere doveva serbare il ricordo di offese millenarie, di crimini ancestrali commessi dai padri dei padri dei loro padri… Vexen sentì lacrime di rabbia e frustrazione bruciare agli angoli degli occhi. Era insensato. Insensato, illogico e stupido.
“Non meritiamo neanche di pagare per colpe di cui non sappiamo nulla!”
Non sapeva neanche lui come, ma si era alzato in piedi. Ora non c’era più nessuno tra lui e il generale: a qualche metro di distanza, Camus giaceva tra i resti di uno scaffale crollato. Quella vista incendiò l’animo di Vexen ancora più dell’aura del Cavaliere del Drago che gli ardeva implacabile contro il viso.
Se doveva morire in quella tana di demoni allora tanto valeva dire a quel mostro tutto ciò pensava di lui. Vomitargli addosso la sua disperazione, i suoi insulti, la sua rabbia impotente. Solo perché era dotato di forza fisica e potenziale magico immani quell’essere si arrogava il diritto di giocare a fare il dio.
Alle sue spalle, Zexion mugolò qualcosa di incomprensibile. Un avvertimento, forse. Con la coda dell’occhio incontrò il suo sguardo dilatato dal terrore, e gli insulti gli morirono tra le labbra.
Era rimasto solo lui a fare da scudo a Zexion.
Distratto, non vide arrivare il colpo del generale. O forse non lo avrebbe visto comunque, tanta era la velocità del suo pugno. Sentì solo un’esplosione di dolore divampare alla bocca dello stomaco e togliergli l’aria dai polmoni, e cadde in ginocchio portandosi le mani contro il petto.
Il Cavaliere del Drago lo superò senza uno sguardo. Probabilmente aveva trattenuto la forza, per non danneggiare il prezioso fabbricatore di Nuclei Neri del Grande Satana. Anche così Vexen annaspò disperatamente alla ricerca di aria; un velo rosso gli annebbiò la vista, e per un attimo credette che sarebbe svenuto dal dolore. Protese una mano verso l’alto proprio mentre il generale sguainava la spada e Zexion strisciava sul pavimento nell’inutile tentativo di sfuggirgli. Le sue dita si chiusero attorno al polso del Cavaliere del Drago, e usando il suo stesso nemico per puntellarsi Vexen riuscì di nuovo, miracolosamente, a rimettersi in piedi.
La leggendaria Spada del Drago Diabolico ora si frapponeva tra di loro come una barriera scintillante nella luce delle torce magiche. Vexen impiegò qualche secondo a capire che gli occhi iniettati di sangue e spiritati che lo fissavano dal riflesso sulla lama erano i suoi. Sentiva le tempie martellare forsennate, come se qualcuno gli avesse impiantato nel cervello un Nucleo Nero in procinto di esplodere, ma continuò a stringere il polso del generale con tutta la forza che gli rimaneva. Un gesto stupido e inutile; anche il nemico dovette pensarlo, perché per la prima volta i suoi occhi tenebrosi lo fissarono con qualcosa di diverso dall’indifferenza o dall’odio. Un’ombra di curiosità.
“Perché lo fai, umano? Non hai il potere di fermarmi, e lo sai.”
Non c’era risposta per quella domanda. Non una che si potesse formulare a parole, almeno. Forse nemmeno l’olfatto di Zexion poteva districare la matassa di sensazioni che in quel momento si agitavano dentro di lui. La vicinanza della morte rendeva tutto più acuto, le emozioni più vivide, il dolore più intenso, il rimpianto più penetrante.
“Pensavo che la cosa a cui tenessi di più fosse la tua vita meschina. Non hai esitato a vendere te stesso e la tua scienza al Grande Satana per salvarti. Sapevi che i tuoi Nuclei Neri servivano a sterminare quelli della tua specie, e non hai battuto ciglio. Che cosa cambia adesso?”
Una risposta, una risposta qualsiasi per prendere tempo. Prendere tempo, e poi… ? Il respiro gli sfuggiva spezzato e frenetico dalle labbra, annegando ogni pensiero cosciente in un tumulto di sensazioni.
“Perché questo ragazzo?” insistette il Cavaliere del Drago, la voce tagliente quanto la sua spada. Vexen tornò a fissare l’arma leggendaria, incontrò di nuovo il suo riflesso, le lacrime che lottavano per sgorgare e che ancora caparbiamente si sforzava di trattenere. E trovò la risposta.
“Perché è come se fosse mio figlio.”
Le sue labbra si mossero appena. Un sussurro, mentre lo sguardo correva a rifugiarsi verso il pavimento. Avrebbe voluto accogliere la morte con orgoglio e con un cipiglio di sfida, ma non ce la faceva. Sperò solo che finisse tutto presto, senza troppo dolore.
Finalmente il generale si liberò dalla sua presa. I muscoli contratti, Vexen cercò di prepararsi al morso dell’acciaio, ma con suo grande stupore il Cavaliere del Drago rinfoderò l’arma e lo osservò a braccia conserte.
“Dunque saresti disposto a dare la tua vita per la sua.”
Speranza.
“Sì!” fu la sua supplica immediata, frenetica. Su una cosa Camus aveva ragione, il Cavaliere del Drago dava valore alla parola data, aveva un suo peculiare senso dell’onore. Non torturava le sue vittime con false illusioni di salvezza, come Killvearn. “Sì.” Ripeté. Si lasciò cadere in ginocchio. Ai potenti piacevano quelle cose. Chi si crede un dio, poi, ne va pazzo. “La prego” aggiunse.
Tra i resti dello scaffale, Camus si era sollevato a fatica sui gomiti e seguiva la scena con gli occhi sgranati. Zexion… semplicemente non aveva il coraggio di voltarsi a guardarlo, in quel momento.
“Alzati, scienziato.”
Il dio giudicatore era pronto a emettere la propria sentenza.
“Non occorre che mi supplichi. Le parole degli umani sono ingannatrici, ma i tuoi gesti parlano chiaro. Anche se mai avrei creduto che un esponente della tua razza dannata fosse capace di un sacrificio tanto nobile.”
Vexen azzardò un’occhiata di sottecchi al viso del generale. Osò concedersi di sperare.
“Mi hai mostrato che esiste ancora qualcuno di voi degno di essere lasciato in vita. Tu sei l’ultima speranza del genere umano: se esso potrà mai redimersi, sarà anche grazie a te.”
Era la frase più idiota che avesse mai sentito. Ma significava salvezza, e Vexen la accolse con lacrime di sollievo. Camus, a terra, sorrideva.
“Il ragazzo vivrà. Lo porterò fuori dal Baan Palace, dopodiché il suo destino sarà nelle sue mani soltanto. Voi scienziati però appartenete al Grande Satana, e io non contrasterò ancora il volere del mio signore. Non chiedetemi altro.”
Non si sarebbe azzardato comunque. Ciò che era accaduto era già un miracolo, e Vexen temeva ancora di riaprire gli occhi e scoprire che era stata tutta un’illusione costruita dalla sua paura.
Non poté evitare uno sguardo al corpo riverso di Zaboera. L’arcivescovo stregone si sarebbe ripreso tra poco, e di certo ricordava chi era stato a colpirlo: “Ma il Grande Satana… “
“Con il Grande Satana parlerò io.” taglio corto il Cavaliere del Drago. Si sarebbero fatti bastare la sua assicurazione. L’importante era che Zexion fosse al sicuro. “Sbrigati ragazzo, non abbiamo molto tempo.”
Vexen aiutò Zexion a rialzarsi, e stavolta il ragazzo si fece toccare senza proteste. Alle loro spalle, l’inossidabile Camus si era rimesso in piedi e si profondeva in ringraziamenti al generale e lodi agli dei per aver toccato la sua anima.
Ancora non aveva il coraggio di guardare in faccia Zexion. Nemmeno adesso che il ragazzo non lo respingeva, e che erano talmente da vicini da poter sentire il suo respiro rotto e affannato. Il suo cervello vorticava all’impazzata alla ricerca di qualcosa di sensato da dire, inutilmente. Finché non furono le dita del ragazzo a sfiorare le sue, spingendogli nel palmo della mano un oggetto liscio e freddo. Lo riconobbe ancora prima di vederlo: la boccetta di veleno. Quella che gli aveva consegnato lui stesso tre anni prima per uccidere Larxen. Quella che Zexion aveva portato con sé ogni giorno nella speranza di usarla per vendicarsi di colui che lo aveva abbandonato.
“Non mi serve più.”
Per qualche istante Vexen fissò la fiala senza capire poi, finalmente, sollevò lo sguardo su Zexion. Il ragazzo aveva gli occhi lucidi, e qualcosa di simile a un tenue sorriso ad ammorbidirgli i tratti del viso. Ora più che mai sembrava un bambino. Il piccolo Ienzo del Castello dell’Oblio.
Era il momento di parlare. Di dirgli che gli dispiaceva, di promettergli che lo avrebbe cercato ancora, che non lo avrebbe lasciato marcire all’Impero, non stavolta, di chiedergli com’era la sua vita, dove abitava, se aveva amici… Invece Zexion lo anticipò di nuovo:
“Grazie.” mormorò. “Per quello che hai fatto. Sei stato… “ scosse la testa, forse anche lui incapace di trovare le parole. “Il generale Baran non è stato l’unico a cambiare idea oggi. Il tuo odore, in quel momento… “ socchiuse gli occhi, chiaramente preso dal ricordo. “E anche adesso… “
“Va bene così.” lo interruppe, a disagio. Tenendolo sottobraccio lo aiutò a raggiungere l’uscita; prima di lasciarlo gli strinse un’ultima volta la spalla, una carezza goffa e impacciata. “Vai ora. E fai attenzione.”
“Anche tu.”
Zexion mosse da solo gli ultimi passi che lo separavano dal generale Baran. Il Cavaliere del Drago lo attendeva sulla soglia del laboratorio con le braccia conserte e lo sguardo impaziente.
“Ci rivedremo ancora” disse il ragazzo voltandosi un’ultima volta. “In qualche modo verrò a cercarti.”
Poi il generale Baran lo prese per un braccio, e l’”anch’io” di Vexen fu troncato dalla porta che si richiudeva alle loro spalle.
  
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