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Autore: Mue    18/05/2015    2 recensioni
«Ehi, Folletto Saputello!»
Ecco come nei corridoi di Hogwarts il divino James Sirius Potter apostrofa Emily Hale, Corvonero, anonima, impacciata e senz'altra dote -se dote si può chiamare- che non un'estrema bibliofilia.
Sarebbe un episodio di potteriana impertinenza come tanti altri che Emily è costretta a subire se Stuart Dunneth, suo misantropo e ambiguo compagno di classe, non si trovasse per caso nei paraggi.
Emily, ligia alle regole, timida all'ennesima potenza e avversa a qualsiasi tipo di azione eroica, ancora non sa che questo incontro la coinvolgerà nel vischioso mistero che avvolge il ragazzo e sarà costretta, suo malgrado, a dare fondo a tutte le sue risorse per risolvere quello che, da giallo inquietante, potrebbe rivelarsi invece una storia dell'orrore delle peggiori. E i Potter, con le loro smanie di protagonismo, ovviamente non possono stare molto lontani.
Genere: Generale, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I Figli della Pace'
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Buongiorno a tutti!
Lo so, sono di nuovo in ritardo ad aggiornare ma anche ieri, tra visite e lavoro, ho avuto da fare fino a sera tardi. Così per farmi perdonare oggi aggiornerò due volte.
Volevo ringraziare di cuore Sheilin (l'ultima volta non l'ho fatto, chiedo umilmente venia) e chuxie per i loro preziosi commenti. Grazie per aver letto e apprezzato finora questa storia e anche a tutti gli altri che passeranno di qui.
Buona lettura!

 

XV.
Il marchio della morte

 

Stuart stava morendo.
Nessuno ebbe il coraggio di dire quelle parole ad alta voce, ma quella realtà aleggiava nell’aria, terribile e angosciosa.
Emily e Al trascorrevano tutto il tempo che potevano in infermeria, accanto all’amico immoto. Drilla andava e veniva dal locale, con la scusa che era indaffarata per il Quidditch, ma la verità era un’altra: non riusciva a sopportare di stare lì a lungo, come loro, senza poter fare nulla. Era una persona pratica, amava l’azione; il senso di impotenza che palpitava attorno a quel letto l’avrebbe certamemte fatta impazzire se si fosse fermata più a lungo di quanto già non facesse.
Stuart aveva perso tutto quel poco di vitale che gli restava: la sua pelle era quasi diafana, talmente bianca da far sembrare le lenzuola attorno a lui grigie e sporche. Il suo volto era una maschera di stanchezza, gli occhi chiusi circondati da pesanti cerchi scuri, simili a grossi lividi. L’espressione era tirata, il respiro quasi impercettibile. Sembrava addormentato in un sonno profondissimo, che lo rendeva sempre più esausto anziché riposarlo.
Emily era totalmente abbattuta.
Stare lì, davanti a Stuart ridotto così, senza poter fare niente per aiutarlo, la stava distruggendo. Lei e Al non parlavano, aspettavano insieme e basta, cercando di non pensare al peggio. Erano entrambi troppo scossi per poter ammettere tra loro quello che stava succedendo.
Se solo avesse parlato con uno di noi!, continuava a ripetersi monotona Emily. Se solo avesse detto la verità!
La signorina Hartland si prendeva cura di lui come poteva, ma sembrava che non ci fosse nulla da fare. Nemmeno Quebec, Ravenscar o un altro dei professori trovarono un modo per fermare la rapida decadenza a cui il ragazzo era sottoposto.
Poi, un giorno, il preside stesso si occupò della faccenda. Scrutò Stuart da vicino, ne valutò il battito del cuore, ormai quasi inudibile, e scosse il capo.
«Dovremo portarlo al San Mungo. Domani o dopodomani, se non si riprenderà.»
E, con quelle poche parole, decretò lo sgomento completo di Emily e tutti gli altri: Stuart era gravissimo, e presto, troppo presto, la vita avrebbe potuto lasciarlo.
Emily affrontò quei giorni come se vivesse in una sorta di mondo parallelo, insensibile a quello che la circondava. Seguiva le lezioni, mangiava con gli altri Corvonero nella Sala Grande, camminava nei corridoi della scuola, ma non ricordava nulla di tutto quello che la accadeva intorno. Era come se il suo corpo agisse da solo, indipendente dalla sua volontà, mentre il suo pensiero era distante anni-luce da lì, diviso tra due poli. Uno era Stuart, che presto sarebbe stato portato via, l’altro… l’altro era Jamie.
Emily, sebbene cercasse di allontanare il pensiero, dicendosi che il rischio mortale che correva Stuart era molto più importante dei suoi stupidi problemi sentimentali, non riusciva a passare giorno senza pensare alla Foresta Proibita, alla radura dei fiori, a quel bacio… e ogni volta che la sua mente ci ritornava, il suo cuore si stringeva in una morsa. Perché Jamie, da quel giorno, non le aveva più rivolto la parola.
Si erano incrociati nei corridoi, lui circondato dalla solita cerchia di amici, lei sola, china sotto i libri. Erano passati a pochi centimetri l’uno dall’altra, ma lui non si era voltato, non le aveva sorriso, non le aveva nemmeno gridato dietro qualche soprannome assurdo per prenderla in giro, come faceva un tempo: Emily era diventata invisibile per lui, della stessa sostanza delle pareti sullo sfondo; e quell’indifferenza le faceva più male di qualsiasi insulto potesse mai aver ricevuto da lui.
Drilla, una mattina, a colazione, la fissò spaventata. «Emily, sei distrutta! Sei sicura di non voler tornare al dormitorio?»
Emily, il cui sguardo era calamitato inconsapevolmente dal tavolo dei Grifondoro, si riscosse e tentò di sorridere. Le uscì solo una smorfia tirata. «Sto bene», mentì.
Drilla alzò un sopracciglio, incredula.
Emily sospirò. «Ho paura… per Stuart.»
Drilla non insisté. Il tatto non era mai stata una delle sue qualità, ma persino lei poteva capire come si sentisse Emily in un momento del genere. La lasciò al suo piatto, che aveva a malapena toccato, e rimase in silenzio per tutto il resto del pasto.
Quella mattina, -era domenica e non aveva lezione- Emily finì per rifugiarsi nell’unico luogo dove era sicura di trovare pace e silenzio: la biblioteca. E se ne pentì.
Aveva appena varcato la soglia quando scorse, seduto nel suo angolo preferito, Jamie, la testa appoggiata a una mano, lo sguardo assente puntato fuori dalla finestra.
Emily si bloccò all’istante. Che cosa ci faceva lì? Jamie non si voltò. Probabilmente non si era nemmeno accorto che fosse entrata. O forse la stava ignorando come faceva ormai tutte le volte che la incontrava.
Emily era sul punto di girarsi indietro e scappare via prima che si accorgesse di lei, ma non fece in tempo. Jamie spostò gli occhi lentamente e la vide.
Si fissarono a lungo, in silenzio, Emily in piedi tra due scaffali zeppi di libri, tesa.
«Ciao», fece lui alla fine con voce atona.
Emily boccheggiò. Dovette respirare a fondo prima di riconquistare la facoltà della parola. «Ciao», mormorò pianissimo.
Jamie distolse lo sguardo e tornò a fissarlo sulla pioggia che colava lungo il vetro piombato della finestra, ignorandola.
Emily si morse il labbro, restò immobile ancora un attimo poi, dopo una violenta lotta interiore, si avvicinò piano e si sedette nella sedia vuota accanto a lui. Con quel gesto sorprese persino sè stessa, e Jamie non poté fare a meno di voltarsi verso di lei, stupito.
Emily arrossì e cercò disperatamente qualcosa da dire. Qualcosa di intelligente, possibilmente, e non che avrebbe rovinato tutto come nella foresta.
«Come sta il tuo amico?», domandò casualmente Jamie interrompendo le sue elucubrazioni e tornando a guardare da un’altra parte.
Emily deglutì, cercando di calmarsi. «Domani lo porteranno al San Mungo», rivelò con la voce che tremava.
A quelle parole Jamie si sciolse un po’ dal suo atteggiamento distaccato, e assunse un’espressione dolente. «Mi dispiace.»
Cadde un silenzio pesante. A Emily parve di sentire l’elettricità che percorreva la distanza tra loro. Fece un respiro profondo: non sapeva da che parte cominciare.
«Jamie…»
Lui continuò a tenere gli occhi fissi davanti a sé, come se non l’avesse sentita.
«Jamie, io… volevo parlarti…», tentò lei con una vocina piccola piccola.
Jamie fece un sorrisetto sprezzante. «Davvero? Con me? Tu? Strano!»
Aveva un’intonazione leggera, frivola, che colpì Emily come una pugnalata. Sentì le lacrime salirle agli occhi ma le ricacciò indietro.
«Jamie, io non volevo, nella Foresta… io…», non sapeva come spiegarsi. Come faceva a dirgli che era felice che lui l’avesse baciata?
Devi solo dirglielo, Emily!, pensò tra sé, ma le parole non le uscivano dalla bocca.
Jamie, che era rimasto pazientemente ad aspettare che concludesse la frase, sbuffò e si alzò in piedi di scatto. «Non preoccuparti. Non sono così stupido. Me l’hai già fatto capire benissimo una volta, non c’è bisogno che me lo ripeti ancora.»
Emily si alzò anche lei in piedi. «Non è come credi!», ribatté con una voce talmente acuta da essere irriconoscibile.
Lui fece un altro sorriso tirato, e fu come se le avesse rigirato il coltello nella piaga. «Lascia stare, ho capito. Mi dispiace per quello che è successo nella foresta. Non preoccuparti, non proverò più a toccarti dato che ti dà così fastidio…»
«SEI UNO STUPIDO!», urlò Emily.
Jamie accusò il colpo: spalancò gli occhi e la guardò sbalordito.
Emily non resistette un minuto di più. Sotto tutti gli sguardi degli altri studenti della biblioteca, afferrò la borsa al volo e fuggì, in lacrime.

Quel pomeriggio avrebbe voluto restarsene chiusa in camera sua senza vedere nessuno. Ma era l’ultimo giorno in cui Stuart era lì a scuola, poi l’avrebbero portato via. Così, con uno sforzo enorme, si asciugò le lacrime e cercando di ricomporsi, raggiunse l’infermeria.
Non c’era nessuno. Stuart, sempre più pallido, giaceva immobile nel suo letto. Ormai era chiaro che entro pochi giorni le forze l’avrebbero abbandonato del tutto.
Emily si sedette al suo capezzale e lo fissò assente.
Che cos’hai veramente, Stuart? Che cosa nascondi?
Emily era talmente assorta nel volto dell’amico che non si accorse di qualcuno che entrava. Sentì un tocco gentile su una spalla e si voltò di scatto, spaventata.
Al. 
Le sorrise stancamente e si sedette vicino a lei, guardando a sua volta Stuart. «Niente?»
Emily scosse il capo in silenzio. Rimasero zitti per diversi minuti, soprappensiero. Il silenzio era talmente profondo che il ticchettio l’orologio ad un angolo della stanza sembrava frastornante.
«Emily?», la chiamò all’improvviso Al.
Lei gli fece un cenno, per dirgli che lo ascoltava.
«Che cos’è successo con Jamie? Avete litigato?»
Emily sussultò. Non si aspettava quella domanda.
«Sì», rispose dopo un lungo istante con voce atona.
Al sembrava dubbioso. «Perché? Che cosa ti ha fatto? Ha detto qualcosa che non andava?»
Emily cercò di rimanere impassibile, mentre una morsa le stringeva improvvisamente il cuore. «Non voglio parlarne», mormorò debolmente.
Al non si arrese. «Perché? Credevo che foste diventati amici…»
Probabilmente se Al avesse conosciuto la reazione di Emily, non avrebbe mai pronunciato quelle parole. E invece commise l’imprudenza di farlo.
Emily strinse la mani sulle ginocchia con un sospiro. Poi scoppiò di nuovo a piangere.
«Sì, lo eravamo, ma ora non mi vuole più nemmeno come amica! Mi detesta!», singhiozzò tra le lacrime istericamente.
Al, imbarazzato, cercò di consolarla e mise la mano sulla sua spalla. «Ehm…», cominciò, a disagio. «Ma… perché ti detesta?»
Emily non avrebbe mai immaginato di poter confessare così di getto quello che era successo. E invece lo fece. «Crede che io non lo voglia! Ma non è vero, io non lo odio, a me lui piace!»
Al spalancò la bocca, sbalordito. «Oh!», fece, come chi capisce qualcosa all’improvviso. I suoi occhi si spalancarono. «Oh!», ripeté di nuovo, come se stesse assimilando la verità a pezzi. «Da-davvero?», fece, impacciato. Decisamente ricevere dichiarazioni su suo fratello non era una cosa che lo metteva molto a suo agio.
Emily cercò di arrestare il fiume di lacrime, si asciugò le guance ed annuì.
«Ehm, mi fa piacere…», disse Al. «Cioè, no, intendo che mi fa piacere che ti piaccia Jamie, non che voi due abbiate litigato.»
Emily sorrise tristemente. «Grazie.»
«Ma… perché è convinto che tu lo odi?», chiese Al perplesso.
Emily, che dopo la crisi di pianto era tornata in sé, cioè alla sua timidezza irrimediabile, arrossì violentemente. «Io… ecco, quando lui mi ha detto… che gli piacevo… ha pensato che non lo volessi. Ma non è vero…», spiegò in modo sconnesso.
La situazione non sembrava molto più chiara di prima ad Al, ma lui annuì con fare rassicurante e cercò di tirarla su di morale. «Andiamo, allora è stato solo un errore; vedrai che quando saprà che ti piace si sistemerà tutto…»
Emily, terrorizzata alla prospettiva che qualcuno dicesse a Jamie del suo sfogo, afferrò Al per una manica. «Non glielo dirai, vero?»
«No, se non vuoi no. Però, scusa, bisognerà che lo sappia o non riuscirai mai a…»
«No, non voglio!»
Al si accigliò. «Ma scusa, e allora come farai a tornare ad andare d’accordo con lui?»
Emily arrossì. «Non lo so ma, ti prego, non dirglielo! Per favore!»
Al assentì alla sua espressione implorante, ma non sembrava tanto convinto. Rifletté un istante, meditabondo, poi sorrise. «Tu e Jamie. Non posso crederci!», fece allegro.
Emily avvampò. Già, nemmeno lei l’avrebbe mai ritenuto possibile. Almeno, non fino a quando era venuto, quel giorno, a ringraziarla per Al in biblioteca. E quando poi l’aveva difesa da Madama Oackes perché aveva creduto che lei avesse strappato le pagine da quel libro e…
E fu come un flash che esplose nella sua testa.
Emily balzò in piedi di scatto. Come, come aveva fatto a non pensarci subito?
«Emily?», fece Al spaventato.
Emily lo ignorò. Il suo cervello stava lavorando febbrilmente come mai aveva fatto, raccogliendo i pezzi e inserendoli al posto giusto, come se stesse ricomponendo un puzzle di pensieri. E alla fine lo completò. Tutto coincideva.
«Emily? Che succede?», ripeté Al preoccupato.
Emily non gli badò, si avvicinò a Stuart, lo fissò un attimo e tese la mano.
«Nel nome di Merlino, che stai facendo?», sbottò Al sbigottito.
Emily sbottonò il colletto di Stuart, lo scostò e gli girò lentamente la testa, con delicatezza. E li vide. Quattro, rossi e scuri, incisi in profondità. Sorrise, trionfante.
«Emily?», ripeté per l’ennesima volta Al, con un tono che voleva dubitare della sua sanità mentale.
«Lo so, Al!», disse lei girandosi verso l’amico perplesso. «So che cos’ha Stuart.»
 

   
 
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