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Autore: DavidCursedPoet    18/05/2015    0 recensioni
Questa storia parla di un giovine ragazzo, Derek, che ha maturato(ahilui) la convinzione di essere la vittima assoluta di un mondo, a suo dire, troppo crudele e che decide, a suo modo, di provare a cambiare la propria condizione.
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ero uscito di primo pomeriggio e avevo un'idea abbastanza chiara circa quel che avrei dovuto fare, il problema fondamentale era come farlo: non ne avevo idea, inoltre, devo confessare che me la stavo facendo sotto, non lo nego.
Probabilmente, molti di voi considereranno quel che scriverò da questo punto in poi come assurdo, inconcepibile, illegale, immorale, e chi più ne ha, più ne metta; in quel momento, tuttavia, il raggiungimento del mio obiettivo era più importante del buon senso, più importante di qualsiasi di qualsiasi legge. Immerso fra questi pensieri camminavo a passo svelto fra le strade della città, sperando con tutto il cuore che nessuno venisse a sapere dove stavo andando e perché: un solo errore, uno solo e sarebbe finito tutto ancor prima di cominciare ed io non potevo permettermelo.
 
Mi stavo dirigendo ad un bar da due soldi frequentato da tipi poco raccomandabili, simile ai saloon dei film western in cui spesso avvengono le risse più violente: un postaccio, insomma, uno di quei luoghi in cui un disadattato come me non avrebbe mai dovuto mettere piede, a meno che non avesse avuto intenzione di farsi pestare a sangue, non tanto per aver fatto qualcosa, quanto per la stessa natura violenta delle persone che ci si trovavano dentro; per non scappare a gambe levate, continuavo a ripetermi: "Il fine giustifica i mezzi. Non si può fare la frittata senza rompere le uova" all'infinito, in una sorta di cantilena stonata, che tuttavia aveva la sua ragion d'essere.
 
Dopo alcuni minuti mi resi conto di essere arrivato. La porta semichiusa del bar "La Corrida" era davanti a me. Non ci ero mai entrato, né mai avrei pensato di farlo: era come oltrepassare la porta dell'Inferno dantesco. "Il fine giustifica i mezzi. Non si può fare la frittata senza rompere le uova." Presi coraggio, sebbene stessi muovendo passi incerti e leggeri, spalancai la porta e mi incamminai verso il bancone.
 
Guardandomi intorno vidi proprio quello che mi aspettavo: il grigio ed il buio regnavano sovrani nel bar, lo definirei l'apogeo del sudiciume e della tristezza, il ritrovo dei falliti, dei disperati e dei cattivi, coloro che, per un motivo o per l'altro, avevano abbandonato una parte della loro umanità. Me compreso, dunque. Non che potessi sentirmi a mio agio; mi sentivo diverso sia dall'uomo che giocava alla slot machine in maniera frenetica, sia dall'ubriacone che stava nell'angolo più remoto a sorseggiarsi un calice di vino d'annata col naso e le gote rosse: certo, non avevo nulla da spartire con questi individui, davvero nulla.
Stavo cercando qualcuno che era solito frequentare quel posto: ed eccolo, era lì. Un uomo alto e magro, sulla quarantina, capelli castani, giacca nera e camicia blu, seduto ad un tavolino mentre fumava un sigaro e giocava a carte con un suo compare, nemmeno lui sembrava aver molto in comune con gli altri presenti in quel postaccio, se non che, probabilmente, era il peggiore di tutti. Famoso, temuto e rispettato da tutti nel paese, veniva definito un "galantuomo", allo stesso modo in cui viene definito Don Mariano nel "Giorno della civetta" di Sciascia; insomma, era un mafioso bello e buono.
Da dove ho preso tutto questo coraggio? Avvicinarmi ad uno degli uomini più pericolosi del paese, così, all'improvviso, dopo non aver avuto contatti umani per giorni e giorni. Voi avreste che la sanità mentale mi aveva abbandonato. Ed io avrei risposto con la solita cantilena: "Il fine giustifica i mezzi. Non si può fare la frittata senza rompere le uova."
 
C'era una sedia libera al tavolo dove il "buon signore" Berardo era seduto, sarei andato a sedermi proprio lì, con nonchalance. Intanto, chiesi al barista di portarmi un caffè corretto con whiskey, volendo atteggiarmi a vero duro, come per non sfigurare al cospetto della maestà che si ergeva in quel bugigattolo. Gli chiesi di portarmelo al tavolo, e piano piano andai ad accomodarmi al tavolo, accanto a Berardo ed al suo amico. Sulle prime sembrò ignorarmi: stava giocando a poker, ed era piuttosto concentrato, sul tavolo c'erano diverse decine di Euro.
 
Il suo compagno, con un sorriso sdentato, ad un certo punto, dichiarò: "Mi dispiace, ma questa volta mi porto tutto a casa..." mostrando tre assi.
"Hai proprio ragione, non posso farci nulla, pazienza..." rispose Berardo, aggrottando la fronte, con tono rassegnato. "Vinci tu, però, almeno va a pagarmi da bere, intanto che chiedo a questo giovane uomo cosa ha da discutere con me." L'altro annuì e si allontanò.
Berardo girò la testa e si rivolse a me:" Avanti, dimmi, figliuolo, cosa ti porta qui? Sono sicuro che tu sappia che sono come un padre premuroso, hai forse bisogno del mio aiuto?"
"A dire il vero sì...Però, buon signore, qui dentro mi sento molto a disagio a dirle ciò di cui ho bisogno, quindi, la prego, potremmo, erm... Uscire da questo posto? Spero di non mancarle di rispetto con una simile richiesta, dico sul serio." iniziai a mangiarmi le parole, la mia agitazione era palpabile, come se stessi per scoppiare da un momento all'altro in un pianto o in un urlo di sfogo.
"Alea iacta est" mi dissi "ho oltrepassato il varco."
Berardo raccolse le carte sparse sul tavolo e mi invitò a giocare con lui con un cenno della mano: "Stai tranquillo, qui, sono tutti miei ospiti, non hai nulla da temere." Intesi il significato delle sue parole.
Mentre iniziava a distribuire le carte, gli sussurrai, guardandomi intorno per star certo che nessuno potesse udire quel che stavo dicendo: "Bene...Avrei bisogno di comprare qualcosa. Ne farò buon uso." Pochi istanti dopo, il barista mi portò il caffè. "Grazie."
"Dunque, di quanto stiamo parlando, ragazzo?" domandò Berardo, con fare diplomatico, avendo sicuramente frainteso le mie parole.
"Ecco, no, vede, non sto cercando quelle cose. In verità, avrei bisogno di..." piombai nel silenzio più assoluto, non avrei mai voluto dire quelle parole in un posto in cui non ero solo col mio interlocutore. Cercai di scandire per bene le parole con le labbra.
"Un arma... Capisco."
Ebbene sì: stavo proprio cercando un'arma, una pistola, un fucile, non lo so, qualcosa per compiere la mia vendetta. Ero arrivato ad un punto talmente drastico da desiderare ardentemente la morte di tutti coloro che, in un modo o nell'altro, avevano arrecato torto ad altre persone. Mi dicevo che quando sarei stato soddisfatto mi sarei costituito, avrei passato il resto della mia vita in cella, però, almeno, avrei portato più giustizia nel mondo: mi sarei fatto portavoce di tutti gli oppressi diventando a mia volta uno degli oppressori, però, a differenza di tutti gli altri, avrei avuto il coraggio di pagare per le mie colpe e di consegnarmi nelle mani della giustizia.
 
Migliore di tutti gli altri, ecco cosa credevo di essere e nessuno, dico nessuno, avrebbe mai dovuto negarlo: un paladino, un eroe dei poveri. Robin Hood, sì, mi ispiravo a lui. In quegli istanti in cui parlavo con Berardo, ero certo del mio successo, solo un passo mi separava dal mio obiettivo. Certo, un conto è possedere un'arma, un conto è usarla, tuttavia in quel momento non ero al corrente della difficoltà con cui si preme un grilletto, con cui si uccide un uomo, con cui si fugge, con cui ci si nasconde. Non avevo mai vissuto nulla di lontanamente simile a tutto ciò, ero alla svolta più grande della mia vita, a mio avviso: beh, lo dico anche ora, probabilmente lo è stata.
Le vicende, si sa, non vanno mai secondo i piani, per cui il tutto ha preso delle pieghe a dir poco inaspettate, che ora mi appresto a raccontarvi.
   
 
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