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Autore: Ghen    18/05/2015    0 recensioni
Laura torna in Sardegna dopo un periodo trascorso a Londra per trovare se stessa, amareggiata e provando vergogna per non essere riuscita a vivere la vita che sognava. Dopo aver trascorso una sera con le amiche che non vedeva da tempo assistendo all'esibizione dei mamuthones, iconiche creature del folclore sardo, comincia a vederne ovunque, pronte a seguirla e a osservarla. Intanto, un'anziana viene ritrovata morta in casa sua in circostanze misteriose, e non sarà la sola.
[Minilong. 3/3 capitoli]
Genere: Drammatico, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Figlia della Terra



II Capitolo

C'era molta gente quel pomeriggio ma nessuno osava fiatare e si udiva appena qualche bisbiglio. In molti si erano presentati per recare omaggio e dare un ultimo saluto a signora Gavina, e sua figlia si spostava scricchiolando sulla ghiaia con i suoi tacchi neri a uno a uno fra i presenti per ringraziare tutti di esserci in quel giorno per lei così triste.
Sua madre le aveva pregato di farle compagnia ma Laura non aveva mai conosciuto quella donna e lei aveva paura di sentirsi un po' in fuori luogo, dandole fastidio la giacchetta nera che aveva dovuto indossare per l'occasione. Signora Assunta le vide a distanza e si accostò a passo svelto in compagnia di un'altra donna, più bassottina e anche lei dai capelli corti e bianchi, che salutarono entrambe con un abbraccio.
«Mancu mali ca c'è genti, lè [Meno male che c'è gente, eh]», sussurrò quella donna, con un accennato colpo di tosse.
Signora Assunta annuì e la madre di Laura la seguì poco dopo.
«Beh, dai, era molto conosciuta», aggiunse quest'ultima, «certo che doveva venire tanta gente».
«Eh, ma du scisi cumment'esti… [ma sai com'è…] Gavina a tempo ha litigato con molti», le ricordò l'altra.
Lei ascoltava senza proferire parola, finché quella donna non la investì con un'intensa e curiosa occhiata.
«Filla rua, lè? [Tua figlia, eh?]», domandò, continuando a fissarla, «Ugualisi [Uguali]», tentò un sorriso e con una mano le carezzò una guancia, mettendola in imbarazzo.
Sua madre annuì e lei si distanziò di mezzo passo, per non darlo troppo a vedere. «Piacere di conoscerla, sono Laura».
«Bellu nomini [Bel nome]», sorrise, «Io Efisia. Nome antico», bisbigliò, dando una veloce occhiata a sua madre, che sorrise a sua volta.
La gente iniziò a camminare con lentezza inoltrandosi verso il cimitero e loro quattro seguirono gli ultimi in coda. Lei allungò lo sguardo alle tombe che conosceva a memoria, ritrovandole così diverse e così uguali, talmente antiche da essere quasi un monumento, fra angeli e bambini. Si guardò attorno con curiosità, non vedeva l'ora che la internassero per tornare a casa, quando il suo sguardo fu catturato da ombre che si muovevano furtive fra bare lontane. Erano due, forse. Ed erano veloci, tanto. Lei le seguiva con gli occhi al punto da inciampare su una pietra e reggersi con le gambe all'ultimo, ritrovando quelle ombre. Si erano spostate: erano a qualche bara più vicina. Deglutì. Si voltò verso il resto della veglia ma nessuno oltre lei sembrava interessato a quello che stava succedendo, così si voltò per cercarle ancora ma erano scomparse. Cominciava a credere che era solo frutto della sua immaginazione. Un uomo le andò quasi sopra un piede e si voltò infastidita, bloccandosi, quando scoprì che le ombre non c'erano più perché chi ne era proprietario stava dietro di lei, a una decina di metri: erano due mamuthones, in piedi, con maschere nere e lunghe, arrabbiate. I campanacci sembravano ricoprire tutto il loro pelo nero. L'uomo le schiacciò il piede ancora e si costrinse a continuare il cammino, tenendosi più stretta a sua madre e signora Assunta.

«Vedi mamuthones ovunque?». Daniele rise così forte da darle quasi fastidio.
«Mi sembra di diventare matta», sbottò lei, «c'è ben poco da ridere».
Lui sfogliò con gli occhi le carte nella mano di lei come se avesse potuto leggere quello che nascondevano e poi si decise, gettando una carta blu al tavolo, o meglio sul muretto che faceva da tavolo. «Evidentemente ti mancava così tanto la Sardegna che adesso un suo simbolo ti perseguita», pescò una carta, mettendo la mano alla bocca.
Lei sbuffò. «Guarda che non sto giocando, ho visto davvero due mamuthones che mi fissavano, al cimitero». Si grattò la nuca e sbuffò ancora: le carte in mano non la aiutavano per niente.
Daniele la scrutò attentamente e le mostrò l'unica carta in mano, estraendo un sorriso trionfante. «Uno!», gridò, gettandola sulle altre, mentre lei buttava via le carte nella sua mano sul muretto, sparpagliandole dappertutto. «Non giocavi a Uno a Londra?», rise, gustandosi la vittoria. Per poco, non lo vedeva alzarsi e sgambettare per la felicità.
Lei stava per rispondere ma un uccellino le volò accanto e si poggiò sul tronchetto di un albero, ricordandole il mamuthones che aveva visto dalla finestra. Osservando il suo sguardo perso nel vuoto, il giovane le gettò una carta contro, richiamando la sua attenzione.
«Vedi un altro mamuthones? Qui, adesso?».
«Smettila di prendermi per il culo», gli rigettò la carta addosso e una signora coprì il sole, facendo ombra ai due giocatori.
«Su mamuthones? [Il mamuthones?]», esordì una voce roca dall'ombra. «Chini biri su mamuthones? [Chi vede il mamuthones?]», rise la donna, aprendo le braccia e aspettando una reazione.
I due sorrisero e lei si alzò da terra lentamente, andando ad abbracciarla. «Ciao, nonna».
«Laura», rispose il ragazzo, «Dice che i mamuthones la perseguitano».
L'anziana sorrise, scrutandola appena, passandole la mano sul mento, in una carezza. «Ohi ohi, nepori mia… [nipote mia] I mamuthones fanno paura perché sono selvaggi, diciamo, ma non sono cattivi. Ih, tutte qui le disgrazie», ansimò, ridendo e scuotendo la testa, reggendosi meglio la borsa nera sotto spalla. «Se proprio ne vogliamo… Ce ne sono altre di creature sarde che devono fare paura davvero».
«Tipo?», le chiese Daniele con curiosità, mentre la ragazza si risedeva al suo posto e riprendeva le carte per formare un mazzo.
«Tipu sa bruxa [Tipo la bruxa]», annuì ed entrambi si bloccarono, fissandosi per un momento. «Non la conoscete? La bruxa è una strega. Ce n'era una, qui, anni fa…».
«Qui dove?», domandò la ragazza, reggendosi le ginocchia e lasciando le carte da un lato del muretto. Daniele si strinse le labbra e annuì alla domanda.
«Qui a Iglesiasa [Iglesias]», si passò una mano sul mento, «Si diceva che l'avevano bandita perché l'avevano trovata con una neonata in braccio e la bruxa se ne ciba… Sono racconti popolari, la bruxa è pericolosa».
Lei storse un sopracciglio. «L'hanno solo trovata con una neonata in braccio ed è bastato per bandirla?», alzò un poco la voce e Daniele la fissò per un momento. «Non è un po' poco?».
«L'ha detto: la bruxa si mangia i neonati. È una motivazione sufficiente, mi pare», lui accennò una risata, indicando l'anziana.
«No», obiettò, «Detto così fa pensare che l'abbiano bandita solo perché l'hanno vista con una bimba in braccio, che potrebbe voler dire molte cose. Non la stava mangiando», fissò l'uno e poi la nonna, che scrollò di spalle. «La bambina poteva anche essere sua sorella, sua nipote o sua figlia».
«Sì, certo», rispose lui sarcasticamente, invece la nonna scuoteva la testa.
«Ohi, nepori mia… [nipote mia] Pensi subito il bene, ma una bruxa è solo una strega, e non ci si può fidare delle streghe». Lei abbassò lo sguardo e deglutì, intanto che la signora distribuiva un po' di caramelle che aveva trovato nella borsa ai due, facendo aprire loro bene le mani. «Andatevene dentro a giocare, piccioccusu. [ragazzi] Che qui si sta facendo freddo, non lasciatevi ingannare da quel bel sole che è uscito che poi vi ammalate. Siamo a febbraio, dai».
Entrambi si alzarono, pronti per rientrare in casa.

Il viaggio in treno sembrava volesse crearle problemi alla pancia più di quanto non ci avesse già pensato prima l'aereo. Questo rallentò sui binari in vista dell'ennesima stazione, dove i passeggeri diretti a Iglesias avrebbero fatto scalo, e Laura si alzò in piedi, tirando con sé il trolley fino alle porte automatiche. Quando queste si aprirono, Laura fu una delle prime a scendere, quasi spintonata, ma non aveva voglia di ribellarsi. Stanca e affamata, si guardò in cerca di un distributore automatico senza risultati, così decise che si sarebbe fatta una corsetta al bar lì vicino prima di ripartire. Si affacciò ai bagni della stazione e, vedendo che nessuna fila le avrebbe dato filo da torcere, trascinò il suo trolley fino al bagno dedicato alle signore, chiudendo la porta alle sua spalle. La porta interna era chiusa e accostò la valigia ai lavelli, poggiando i palmi delle mani sul piano e affacciandosi al grande specchio. Aveva le occhiaie, constatò. Passò le dita sui capelli sciolti e li smosse un po', sbuffando. Pensò di sembrare un cadavere. Amareggiata, sfilò il cellulare dalla borsa e diede una veloce occhiata a Facebook, incappando su un post di sua madre raffigurante dei gattini. Ansimò e si morsicò un labbro, pensando che era decisamente arrivato il momento di avvertire i suoi del suo ritorno a casa. Si sentiva estremamente sconfitta e si vergognava molto, ma non aveva più alternative. Iniziò a digitare quando la porta del bagno si aprì e lei restò a bocca aperta, con il cellulare a mezz'aria. I capelli corvini raccolti in una coda alta, sguardo serio e irremovibile, quasi senza espressione. Diane.
Laura sorrise ma era troppo sorpresa per fare nient'altro, e si guardò attorno con un po' di imbarazzo, come appena scoperta in un momento solo per lei da una persona importante.
«D… Diane? Cosa… Cosa fai tu qui?».
«Ti aspettavo».

Signora Efisia era un'abitudinaria. Usciva presto per fare la spesa e tornava a casa per preparare il pranzo, che la impegnava molto. Amava cucinare. Preparava con cura e apparecchiava la tavola, aspettando che il marito, ormai pensionato da un po', tornasse dall'orto. Mangiavano con la televisione rigorosamente spenta e, mentre lui usciva di nuovo, lei spazzava in terra e lavava i piatti. Dava una pulita alla cucina e al bagno, per poi tornare a cucinare per la cena, e così uscire per andare in chiesa, fino a che la messa serale non le avrebbe dato il permesso di tornare a casa. Quel pomeriggio si era portata avanti coi lavori e aveva già finito di preparare la minestra per la cena, così spense il fornello e corse al bagno, armandosi di straccio e prodotto spray. S'inchinò per lavare la vasca, spruzzando il prodotto sulla superficie, ma udì qualcosa sbattere in cucina e si alzò con fatica; ormai la vecchiaia cominciava a farsi sentire. Affacciandosi alla porta di cucina, vide che la porta finestra che portava fuori si era spalancata e che il vento aveva aperto tutti i suoi pensili, facendo cadere fogli e centrotavola. A passo svelto si mobilitò per chiuderla ma il vento si fece ancora più forte, costringendola ad arretrare, finché non udì l'acqua del bagno scorrere e, chiamando il marito, lasciò perdere la porta finestra e tornò indietro. Il marito non c'era ma l'acqua della vasca era così piena da salire sul bordo e gocciolare per terra. Lei corse talmente veloce a chiudere i rubinetti che scivolò sulle pianelle bagnate e sbatté la testa con forza, udendo solo allora il suono di una campanella. Cercò di urlare, chiamando il marito, ma nessuno poteva sentirla. Un'ombra si distese lungo signora Efisia e aprì la bocca contornata da denti fini e stretti, forse rotti e marci. «Chi ti pighiri su mali [Che ti prenda il male]», recitò quella voce disturbata, e la povera donna ansava ingoiando l'acqua che scendeva copiosa dalla vasca, finendo per farla affogare.

Lei si svegliò di soprassalto, toccandosi il petto agitato. Quegli stupidi mamuthones non riuscivano a lasciarla in pace neppure durante il sonno. Si posò adagio sul cuscino, tremando come una foglia, e tentò di richiudere gli occhi; quelle maschere nere le apparivano come nebbia e li riaprì, sbuffando. Decise di alzarsi e mangiare qualcosa, forse andare in bagno e, magari, cercare su internet qualcosa di più sui suoi nuovi stalker. Così accese il portatile e compì qualche ricerca con mamuthones come parola chiave, leggendo articoli su di loro fino al sorgere del sole.
Quel mattino fu duro un po' per tutti. Sua madre accese la televisione e a Videolina passarono la notizia di un'altra anziana morta in casa sua a Iglesias: a trovarla fu il marito, immersa nella sua vasca da bagno completamente vestita. La donna era affogata e ancora non si conoscevano i dettagli del caso. Lei entrò in cucina quasi in punta di piedi, ascoltando la notizia con interesse e preoccupazione, incrociando le braccia al petto.
«Ti ricordi di signora Efisia? L'abbiamo incontrata al funerale di signora Gavina», le ricordò la donna e lei annuì, lentamente, increspando lo sguardo.
«È morta?».
«Ieri pomeriggio, a quanto pare», rispose, preparandosi il tè. «Povera donna… Cosa fai in piedi a quest'ora?».
«Non riuscivo a dormire», si prese una sedia e si accovacciò sul tavolo, osservando la madre ai fornelli. «Mamma?», aspettò che le desse un cenno, per continuare, «Pensi che i mamuthones esistano davvero?».
L'altra rise, chiedendole se voleva del tè anche lei. «No, Lau. Certo che no. Sono leggende». Riempì di nuovo il pentolino d'acqua e riaccese il fornello. «Ti preoccupano queste cose?».
«Un po', a dire il vero. Sembrerà sciocco, ma mi stanno incasinando la testa, e per questo non riesco a dormire», si ammutolì di colpo, voltandosi verso la televisione. «E poi pensaci, prima signora Gavina, adesso signora Efisia».
«Cosa c'entrano con i mamuthones?», le servì il tè davanti al naso e lei si distanziò appena, cominciando a soffiare.
«Non lo so, però a me questi qui stanno tormentando l'esistenza e non vorrei essere la prossima in lista».
«Non dire scemenze, Lau. Questi sono solo incidenti, e gli incidenti purtroppo succedono», le avvicinò una mano a una sua, tentando di sostenerla. «E a te questi cosi stanno tormentando perché sei stanca dall'Inghilterra e il resto. Hai bisogno di pensare ad altro», aggiunse, «Staccati un po' da qualsiasi cosa vuoi fare e vai a farti una passeggiata. L'aria fresca ti farà bene».
Lei annuì.

Suonò al campanello e aspettava, incrociandosi le dita delle mani, che qualcuno andasse ad aprire la porta. Daniele si stropicciò un occhio e sbadigliò, quando la vide così presto davanti a casa sua, mentre signora Assunta sorrise, ringraziandola che lo facesse alzare dal letto invece che lasciarlo a poltrire tutta la mattina.
«Andiamo a fare una camminata, ci guardiamo le vetrine; dai!», cercò di spronarlo. Daniele si trascinò in camera sua per prepararsi e lei si sedette su una poltrona del piccolo soggiorno con palese imbarazzo, dando una rapida occhiata alle foto appese alle pareti e incorniciate sopra gli scaffali. Molte di quelle erano antiche, giallognole, e rappresentavano sicuramente signora Assunta da giovane, pensò, per continuare fra le foto di una bambina e poi ragazza, di qualche festa, perfino un matrimonio, che doveva essere quello della madre di Daniele con suo marito. C'erano anche parecchie foto di Daniele da bambino. Laura era già entrata parecchie volte in quel soggiorno e nelle altre parti della casa, ma non aveva mai badato troppo a quelle foto come faceva lei in quel momento.
Signora Assunta smise di annaffiare i vasi, accorgendosi dello sguardo un po' perso della ragazza, guardando incuriosita dove si volgeva il suo sguardo. Poggiò l'annaffiatoio ormai vuoto e si accostò a una delle foto posta accanto a dei libri; vecchia, gialla, un po' sbiadita, raffigurava tre ragazze al mare, coperte da pesanti gonne spostate dal vento.
«Guarda, Lauretta», disse, prendendo la foto in mano. Lei alzò il suo sguardo e fece due passi verso la donna, osservando la foto. «Queste siamo io», indicò la ragazza in mezzo, dai capelli corti e disordinati, «e Gavina, e Efisia», spostò il suo dito indice sulle altre due, prima a sinistra e poi a destra.
Lei fissò quella foto e deglutì. «Eravate molto amiche, voi tre, vero?», domandò.
«Molto», annuì. I suoi occhi si chiusero per un secondo, diventando lucidi.
Le si strinse un nodo in gola. Laura voleva molto bene a signora Assunta e vederla così triste per la morte delle sue amiche le infondeva profondo dispiacere.
Daniele esordì con uno sbadiglio, passandosi con insistenza le mani sul ciuffo castano, disposto verso l'alto con un po' di gel. Sua nonna rise, nel vederlo, risistemando la foto sullo scaffale.

«Di cosa parlavi con mia nonna? Non dirmi che ti ha fatto vedere le foto». Daniele si accostò a una vetrina e si appiccicò al vetro come una falena, tenendo d'occhio un paio di scarpe molto costose, indicandole.
«Una sola», sospirò. «Non te le puoi permettere, smettila», ridacchiò e lui scese dallo scalino della vetrina con un balzo, agganciandosi a lei per non cadere. Le sorrise e lei altrettanto, allontanando poi lo sguardo. «Non essere severo con tua nonna, ha perso due amiche in poco tempo».
«Già», scalciò una carta incastrata fra i ciottoli, riprendendo a camminare, infilandosi nelle mani nelle tasche del pesante giubbotto. «Non la vedevo così giù dalla separazione dei miei», sbuffò, alzando gli occhi al cielo. La scrutò solo per un attimo, il tempo di vederla abbassare lo sguardo e aggrottare le sopracciglia.
Il ricordo di un Daniele ancora molto bambino e arrabbiato, in seconda media, si fece spazio fra i suoi pensieri: i suoi genitori litigavano spesso e avevano deciso di separarsi.
«Come vanno le cose fra loro, adesso?», chiese, scartando una caramella e infilandosela in bocca. Giocava distrattamente con la carta, stropicciandola e piegandola, svolgendola e osservandone con minuzia i dettagli.
«Bene. Più o meno. Da quando me ne sono andato di casa meglio, credo, lui va a trovarla spesso e parlano, da che ne so…», rispose, abbracciando la ragazza all'improvviso, a cui cadde la carta dalle mani. «Lui le ha chiesto scusa per un sacco di cose, e anche lei si sta dando da fare… Non dico che ritorneranno insieme, ma ancora non si parla di firmare per il divorzio, ecco. Forse stanno bene così. Sai, lui in fondo l'ha lasciata spesso sola e si sente in un po' colpa».
«Per cosa?».
«Perché mia madre da quando l'ha saputo si è sempre sentita un po' sola e incompleta e…», scosse la testa, mordendosi un labbro, «Non che mia nonna le abbia fatto mancare qualcosa, per carità, però forse avrebbe dovuto dirglielo prima. Al posto suo, io avrei voluto saperlo prima. Assolutamente». Lei lo guardò con aria interrogativa e lui la fissò, battendole un'affettuosa pacca sulla spalla. «Dai, te lo sei dimenticata, non fa niente. Te ne avevo parlato qualche mese fa, quando stavi a Londra, per telefono: mia madre è stata adottata».
«A-Adottata?», lei spalancò gli occhi e il ricordo di quella telefonata le arrivò veloce nella mente, «Accidenti, sì, scusa. Me ne ero proprio scordata».
«Nulla. Ci mancherebbe che ti ricordi tutto quello che ti dico», rise.
Lei tentò un sorriso ma si voltò a breve, fermandosi, sentendosi osservata. Via Azuni era colma di gente ma c'era qualcosa di diverso, fra loro: s'intravedevano degli scarponi neri, fermi proprio in sua direzione. Deglutì e afferrò il braccio del ragazzo, tirandolo, indicandogli dietro di loro.
«Non vedo niente; cosa? Oddio», ansimò, «non dirmi che c'è un mamuthones?! Devo spaventarmi?», rise più forte e lei gli lasciò la presa, infastidita dal suo comportamento.
La gente si divise lentamente, camminando via, e lei cominciò a vedere la pelliccia nera di quell'essere e i campanacci, finché non si mostrò la maschera enorme e più nera della pece, dallo sguardo triste. Il mamuthones alzò il braccio destro e raggiunse un occhio della maschera, stringendo la mano ricoperta di cerone nero e simulando il pianto. Lei arretrò e gemette dalla paura, seguita dallo sguardo attento del ragazzo.
«Tu lo vedi davvero…?» , le domandò, controllando il punto interessato, stringendo gli occhi.
«Andiamocene», asserì, riprendendo il braccio di lui, «Per favore».
Si voltò e lui poco dopo, fissando ancora quel punto, cambiando espressione e facendosi serio.
Mangiarono una pizza e passarono insieme una bella mattinata, parlando di com'era scura Londra e delle piogge, senza accennare ai mamuthones che ancora riusciva a vedere, sopra le strutture dei negozi e delle case: era sicura che la stessero seguendo ma si sforzava di fare finta di niente. Le ricerche su internet non avevano portato a nessuna svolta interessante, non c'era molto, se non com'erano fatti i loro abiti e le dinamiche delle esibizioni. Tuttavia, era praticamente certa che quelli che lei vedeva non erano uomini vestiti a maschera ma qualcos'altro. Comparivano e scomparivano nel nulla e poteva vederli solo lei. Non erano uomini ma altro. Qualcos'altro che l'aveva presa di mira.

La borsa a ruote si bloccò e signora Assunta dovette spingerla con più forza per farla arrivare a casa, quella sera. Aveva pregato tanto per Efisia e Gavina, in chiesa, tanto che le avevano fatto male le ginocchia, per com'era si era accovacciata sulla panca. Molte signore le avevano fatto le condoglianze e perfino il prete si era fermato con lei due minuti dopo la messa, per ricordarle che, se ne voleva parlare, lui era disponibile. Ma Assunta non voleva parlare; non ne voleva parlare con nessuno. Era quasi certa che la morte di Gavina fosse stato un incidente ma quello di Efisia a poco dal suo e in circostanze ancora ignote, le avevano fatto rimettere qualcosa in discussione. Loro tre erano legate da un segreto, oltre che da un'amicizia che era durata tantissimi anni. Un segreto pericoloso.
Tornò a casa con l'ansia che le percuoteva il cuore in gola e ci si chiuse così in fretta che le tremavano le mani raggrinzite. Aveva gridato il nome di suo nipote ma sapeva che era ancora fuori come ogni mercoledì, per la serata film con gli amici. Scommetteva che, se gli avesse detto che lo voleva a casa, sarebbe rimasto, ma non voleva rovinargli quella serata speciale con delle persone speciali, poiché i ricordi con loro un giorno sarebbero stati come oro prezioso. Più di tutto, in ogni caso, non gli avrebbe parlato della paura che la attanagliava dalla morte di Efisia.
Corse in cucina e accese la televisione, mettendola per la prima volta ad alto volume, dandole un fastidio necessario: doveva distrarsi. La preghiera per le sue due amiche le aveva dato modo di pensare a lungo su ciò che avevano fatto almeno cinquant'anni prima e una vena di terrore le aveva percorso il corpo come un serpente freddo. Si domandava chi fosse a conoscenza di ciò che era successo ma non trovava risposta. Non ne avevano mai fatto parola con nessuno e, comunque, nessuno avrebbe potuto volere la loro morte per quello. Avevano fatto bene, continuava a ripetersi; era stato triste ma necessario. Era stato a fin di bene. Neppure lei poteva volerle ammazzare, sarebbe stato assurdo, e non ne era capace. E quella non poteva tornare. Sarebbe stata l'unica con un motivo.
Si mantenne la fronte e si accorse che era molto sudata. Si strofinò gli occhi poco dopo, alzandoli verso la televisione, all'ennesima pubblicità, senza davvero ascoltarla.
Era stata una sciocchezza. A fin di bene, ma forse era stata solo una sciocchezza. Erano solo delle ragazze quando era successo e stavano pagando con la vita dopo così tanto tempo. Ansimò, deglutendo, e rizzò le orecchie, quando udì una porta aprirsi, quella d'ingresso. Si era aperta e richiusa subito dopo; si sentivano dei passi. La donna si mantenne il petto e si alzò dalla sedia lentamente, allontanandosi verso l'andito che portava al soggiorno.
«Dani! Giai torrau? [Già tornato?] Ohia, filmi curtu custa diri, ah? [Film corto quest'oggi, eh?]», urlò. Stava per raggiungerlo quando si accorse che il volume della televisione si era abbassato di colpo e si voltò, vedendo che qualcosa faceva interferenza. Deglutì. Il cuore aveva ripreso a battere molto rapidamente e percorse l'andito con la paura dipinta sul volto. La luce era spenta.
«Nun seu Dani [Non sono Dani]», dichiarò una voce a lei familiare, tanto che, per un attimo, pensò di poter stare tranquilla, reggendosi ancora il petto.
«Cosa ci fai qui a quest'ora? Masi fattu pigai un accidenti! [Mi hai fatto prendere un colpo!] Appu lassau opertu? [Ho lasciato aperto?]», si trascinò nel soggiorno. Stava per dirle di accendere la luce ma si accorse che gli occhi di quella sagoma, delineata dalla luce che filtrava dalle finestre, erano rossi come il sangue. Si fermò, tremando impercettibilmente. Era lì per lei.
«Sa bruxa… [La bruxa]», sussurrò, irrigidendo i denti.
Si voltò per correre verso la cucina ma la sagoma balzò come se potesse volare e le arrivò addosso così velocemente che signora Assunta fece appena in tempo a chiudere la porta, spingendola con le braccia e mettendole una sedia davanti. La donna era troppo agitata e questa non riuscì a stare in equilibrio, cadendo. La porta si riaprì con un cigolio fastidioso e l'anziana arretrò, immobile, fissando l'andito con preoccupazione. La strega era sparita. Portò una mano al tavolo e prese il cellulare, in fretta, cercando di comporre il numero di suo nipote, l'unico che avrebbe voluto chiamare, in quel momento. Continuava a sbagliare e iniziò a piangere. Non aveva mai voluto quel telefono e Daniele aveva insistito perché lo avesse e imparasse a usarlo. Non avrebbe mai più rivisto il suo adorato nipote. O la sua amata bambina. Sapeva che era arrivata la sua morte e il momento di pagare per i suoi peccati.
La campanella iniziò lentamente a suonare e lei tremò, singhiozzando.
Compose il numero e portò il telefono all'orecchio, voltandosi verso il televisore che continuava a fare interruzione, ma quello che l'aspettava alle sue spalle era il volto tumefatto della bruxa: i suoi occhi rossi la ipnotizzarono e la sua grande bocca dai denti marci e nera come un baratro la divorò.
«Chi ti pighiri su mali [Che ti prenda il male]».


















Bentornati!
Dovevo postare ieri, lo so, ma… mi sono dimenticata! Aemh, capita anche ai migliori, figuratevi a me XD

E anche Assunta è morta, uccisa da qualcuno che pareva conoscere. Qual era il segreto di Assunta, Gavina ed Efisia? Al prossimo e ultimo capitolo ^_^

Intanto, colgo l'occasione per ringraziare Eirein98 per aver messo Figlia della Terra nella sua lista delle seguite :)

Alla prossima settimana!
Se vi fa piacere, lasciatemi un commento in recensione :)
A presto, chu
^^



   
 
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