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Autore: Emapiro95    18/05/2015    6 recensioni
Cosa succederebbe se la vita di un diciassettenne qualsiasi, che vive a Londra, venisse distrutta e stravolta dall'arrivo di un "exchange student?". Mi sono basato sulle mie esperienze personali per scrivere questo piccolo racconto, spero vi piaccia!
"Il mio nome è Jared Maycon, e questa è la mia storia, la storia di come tutta questa monotonia fu distrutta. Bastò il suo arrivo perché tutto cambiasse… Dalla “A” alla “Z”."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Capitolo 18 – “Reality’s a B****”



Holaaaaa! :)

Prima di iniziare a leggere questo nuovo capitolo dovete promettermi una cosa: non odiatemi... Vi prometto che fa tutto parte di un piano più grande.
Come al solito, inoltre, vi volevo ricordare di passare per la mia pagina facebook (cliccando qui), e di lasciare - sempre se vi va, si intende - una recensione.
Grazie a tutti e buona lettura :3


 
 

Quella volta non avevo alcuna piscina in cui tuffarmi, nessun modo per togliermi dalla testa le parole di Alex, che continuavano a ripetersi all’infinito, rimbalzando da una parete all’altra della mia mente. Non potevo neanche rifugiarmi nel mio spazio personale, in quel luogo dove solo io potevo entrare perché, ogni volta che provavo a farlo, tutto quello che ci trovavo erano i volti di Alex e Joshua, occupati a fissarmi intensamente.

La casa, per di più, era troppo silenziosa dato che i miei genitori erano andati, alla fine, a fare quel fatidico giro in centro, giro che io mi ero rifiutato di andare a fare: non sarei stato di alcuna compagnia, avrei solo dovuto trattenermi dall’aggredire i miei genitori e tutto ciò che mi avrebbe circondato. La rabbia, infatti, dopo i primi momenti di completo stupore e negazione, aveva preso il sopravvento. Ero pieno di collera verso Kyle, che mi aveva spinto a fare un passo che evidentemente non avrei mai dovuto fare; verso Joshua, che mi aveva rubato anche quel momento, quell’occasione; nei confronti dei miei genitori, per non avermi cresciuto come un idiota senza cervello a cui le cose scivolavano addosso; ero adirato con Alex, per così tanti motivi che avevo iniziato a dimenticare la causa principale; ma, più di tutto, ero arrabbiato con me stesso per aver anche solo pensato di poter essere qualcuno di diverso, di poter meritare qualcuno come Alex.

Eppure il dolore allo stomaco era lì.

Eppure anche solo pensare a quegli occhi versi e a quei capelli biondi rendeva la rabbia più sopportabile.

Era la ventesima volta, più o meno, che avevo iniziato a fare avanti e indietro per il salotto di casa, quando decisi di sedermi per l’ennesima volta sulla poltrona accanto al camino spento. Di fronte ai miei occhi solo il ricordo del nome di Joshua uscire dalle labbra di Alex.

Quando il rumore del campanello della porta d’ingresso mi distolse dai miei pensieri, senza nemmeno rendermene conto, mi alzai ed andai ad aprire.

«Chi è?» Domandai, avvicinandomi alla porta.

«Jared apri, sono io.» Rispose la voce dall’altro lato.

«Io chi?» Replicai, non avendo realmente riconosciuto il timbro di voce.

«Sono Alex, puoi aprire per favore?»

D’improvviso tutta la mia rabbia, tutta la delusione che aveva appesantito la mia giornata, era scomparsa, come volatilizzata.

Non appena aprii la porta trovai conforto nel suo sorriso imbarazzato.

«Ho trovato il tuo indirizzo su Facebook, spero che non sia un problema?»

«Cosa? Che tu abbia trovato il mio indirizzo su internet oppure che ti sei presentato senza preavviso?» Replicai scherzoso, divertendomi alla vista del suo imbarazzo.

«Ho capito,» disse, rimettendosi nell’orecchio desto l’auricolare dell’iPod, «me ne vado. Ci vediamo domani.»

Cercai di trattenere una risata, ma non ci riuscii. «Dai che stavo scherzando! Entra; mi fa solo piacere che tu mi sia venuto a trovare.» Vidi il volto del canadese rilassarsi nuovamente e sentii qualcosa sciogliersi dentro di me.

«Perché sei venuto, comunque?» Gli chiesi, una volta chiusa la porta alle sue spalle.

«Sono appena tornato dall’appuntamento con Joshua…» Disse, provocando in me una serie infinita di fitte di dolore. Riuscii quasi a sentire il peso delle sue parole cadermi addosso con tutto il loro peso. «E’ andato bene, se devo essere sincero.» Continuò lui, con lo sguardo perso nel vuoto di fronte a lui.

«Vuoi qualcosa da bene?» Gli domandai, cercando di non concentrarmi sulle sue parole.

«No grazie…» Rispose, sfilandosi la giacca e rimanendo con una maglia verde a mezze maniche. «Posso accomodarmi?»

«Certo.» Gli dissi io, cercando qualche altra scusa per non affrontare l’argomento “Joshua”.

«L’appuntamento è andato bene, come ti stavo dicendo.» Riprese lui, dopo un breve periodo di silenzio imbarazzante passato ad evitarci con gli occhi.

«Bene…» Riuscii a dire, nascondendo la disperazione.

«C’è solo una cosa che mi ha turbato, se così si piò dire.»

«Ah sì?» Domandai, sedendomi sul bracciolo della poltrona di fronte a lui, mosso da una scintilla di speranza.

«Sì.» Rispose, torturandosi le mani.

«E cosa?»

«Non riuscivo a smettere di pensare a te.» Disse, alzando lo sguardo ed inchiodandolo al, mio. «Neanche per un minuto.

Sentii i palmi delle mani iniziare a sudarmi e il cuore iniziare a battere molto più velocemente. Improvvisamente la salivazione mi si era interrotta ed era diventato impossibile proferire parola.

«Non sono riuscito a pensare ad altro se non a te, e al nostro incontro prima che io andassi da Joshua.» Andò avanti lui, continuando a fissarmi negli occhi. «Continuavo a pensare a quello che volevi dirmi, e al fatto che io ti abbia interrotto. Sembrava volessi dirmi qualcosa di molto più importante, e mi sento stupido per non averti fatto parlare.»

Mi ritrovai a ringraziare me stesso per aver deciso di sedermi: mi sentivo le ginocchia così deboli che se fossi stato ancora in piedi sarei crollato sul pavimento come un sacco di patate.

«Allora?» Mi domandò il biondo.

«C-cosa?» Replicai, facendo fatica a parlare per la bocca secca.

«Dovevi dirmi qualcosa di importante oppure era tutto frutto della mia immaginazione?»

Dovevo dirti che avrei voluto baciarti; dovevo dirti che in questi pochi mesi che ci conosciamo hai stravolto la mia vita come poche persone hanno mai fatto; dovevo dirti che hai distrutto ogni mia certezza, ricostruendole in un modo completamente diverso, in un modo che mi piace molto di più del precedente. Dovevo dirti che quello che provo per te, ormai, è molto più che semplice amicizia.

Avvertii la mia mente elaborare questa risposta, esaminarla sotto mille punti di vista e, prima che potessi anche solo realizzare quello che stava succedendo, sentii la mia voce dare vita a quei pensieri, e vidi gli occhi di Alex guardarmi con stupore, ingrandirsi a tal punto che fui tentato dal tuffarmi in quel torbido mare verde, anche se questo avrebbe significato annegare.

Quello che accadde dopo non mi fu ben chiaro; vidi solo Alex alzarsi dalla poltrona di fronte alla mia, venirmi incontro senza mai staccarmi gli occhi di dosso, prendere il mio volto tra le mani e poggiare le sue labbra sulle mie.

Non capii più nulla; fui travolto dal momento e, come un burattino mosso dal proprio burattinaio, mi alzai dal bracciolo della poltrona e portai le mie mani sul corpo di Alex, che si era staccato leggermente dalle mie labbra per sorridere. Le mie mani iniziarono a giocare con i suoi capelli, con le sue spalle e con l’orlo della sua maglietta, mentre con le labbra cercavo di assaporarlo. Non aveva un sapore definito, sapeva solo di Alex, e questo bastava a farmi andare in tilt il cervello.

«Sfntati.» Le parole del ragazzo tra le mie braccia erano ovattate dalle mie labbra, ma in quel momento non mi interessava. Tutto ciò che aveva importanza, lì, in quell’attimo, eravamo noi due.

Eppure Alex continuava a ripetere quella parola, di cui non capivo il senso. «Sfntati.»

Fu solo quando mi allontanai un secondo dalle sue labbra, e lo guardai negli occhi, che mi accorsi che qualcosa non quadrava.

«Svegliati.»

Le labbra che si muovevano erano quelle di Alex, eppure la voce non era la sua.

«Jared, tesoro, svegliati.»

«Cosa?»

«Svegliati.»

Di fronte ai miei occhi non c’era più il volto di Alex, né tantomeno avevo le sue labbra premute sulle mie. Mia madre mi stava scuotendo delicatamente, cercando di farmi svegliare.

«E’ pronta la cena.»

«Che ore sono?» Domandai, sistemandomi sulla poltrona e stiracchiandomi leggermente. Le immagini del sogno ancora impresse nella mia mente.

«Sono le sette e mezzo. Io e tuo padre siamo tornati un paio d’ore fa e ti abbiamo trovato addormentato sulla poltrona, quindi abbiamo pensato di lasciarti dormire.»

Le parole di mia madre sembravano un ronzio lontano. Potevo avvertire i fotogrammi del sogno abbandonare gradualmente la mia coscienza.

«Comunque la cena è pronta… Perché non vai a sciacquarti la faccia e poi ci raggiungi? Abbiamo preparato la lasagna con la pasta che ci ha spedito tua zia dall’Italia.»

«Ok, arrivo subito.»

Una volta arrivato in bagno, ed essermi sciacquato la faccia, cercai di ripescare stralci del sogno drasticamente troncato e, quando non ci riuscii, mi avviai sconsolato in sala d pranzo dove la mia famiglia mi stava aspettando.

La lasagna era squisita.

 

 

Il giorno successivo la sveglia suonò puntuale, destandomi da un sonno – quella volta -  privo di sogni. Come ogni mattina mi lavai e mi preparai per andare a scuola, e,  sulla strada verso la fermata del bus, mi fermai davanti una vetrina di un negozio per aggiustarmi i capelli mossi dal vento.

Una volta arrivato alla banchina dell’autobus iniziai a sentire lo stomaco contorcersi per il nervosismo. Sarebbe stata la prima volta in cui io ed Alex ci saremmo incontrati, se non si considera il sogno, di cui potevo ricordare solo piccoli particolari. Sufficienti a rendere elettrica l’atmosfera con il canadese, una volta incontratici sul bus diretto verso la Walworth Academy.

«Hey!» La voce solare di Alex mi raggiunse, facendomi venire un’altra fitta allo stomaco. I suoi occhi verdi sembravano assorbire tutta la luce solare, per poi rifletterla mille volte più forte.

Immagini del sogno della notte precedente mi affollarono la mente, e quasi non caddi per terra mentre mi dirigevo verso dove era seduto.

«Ciao.» Riuscii a dire, mentre mi accomodavo accanto a lui.

«Come va?» Mi domandò lui, girandosi verso di me e posando il cellulare nella tasca della giacca.

«Tutto bene, grazie.» Risposi. «A te?»

«Benissimo, a dir la verità.»

«Ah sì? E come mai?» Chiesi, anche se in cuor mio già conoscevo la risposta.

«Ti avevo detto, vero, che avevo un appuntamento con Josh?»

Josh? Pensai, stringendo le mani a pugno.

«Credo di sì, perché?» Cercai di sembrare il più disinvolto possibile, ma quello che uscii dalla mia bocca fu un verso strozzato.

«Be’, è andata meglio del previsto!» Riuscii a vedere la felicità illuminargli il volto e quasi mi sentii in colpa. «Siamo andati ad st. James’ Park e abbiamo camminato, e parlato, moltissimo.» Continuò. «Mi ha parlato della sua vita prima della scuola, e dei suoi amici… So quello che pensi,» aggiunse, vedendo la mia espressione indurirsi, «ma sembra davvero essere cambiato… Credo che in tutto questo lui sia stato una vittima, così come me e te.»

«Non sono la vittima di nessuno.» Dissi queste parole senza rendermene conto, ma in fondo ne fui felice.

«Sì, lo so… Non intendevo vittima di qualcuno, ma vittima degli eventi.» Rispose lui. «E con vittima non intendo per forza qualcosa di negativo… Intendo semplicemente che gli eventi hanno operato su di noi, plasmandoci e cambiandoci, che ci piaccia o meno.»

In quel momento il bus si fermò di fronte scuola e, quasi sollevato, interruppi quella conversazione.

«Cos’hai fatto alla fine dopo la corsetta, ieri?» Mi chiese mentre ci avviammo verso gli armadietti.

«Mmmh, niente di che… Appena tornato a casa mi sono addormentato, e mi sono svegliato direttamente ad ora di cena.»

«Ancora debole?»

«Mmmmh?» Domandai, non capendo bene a cosa si riferisse.

«Intendo per la terribile influenza che hai avuto.» Rispose, aprendo il proprio armadietto e prendendo i libri di inglese e biologia.

«Ah sì, già.»

«Quella che ti sei inventato per evitare di discutere su quanto successo in cortile.» Continuò il biondo, appoggiandosi all’armadietto affianco al mio.

«Non…»

«Faresti di tutto per evitare di deludere o ferire chi ti sta intorno.» Sorrise. «Ormai ti conosco come le mie tasche, Maycon.» E, detto questo, Alex si staccò dall’armadietto e se ne andò.

Se solo fosse vero, pensai.

 

 

L’ora di biologia passò lenta, con mr. Boujdi che sgridava chiunque pensasse anche solo di starnutire, e con Alex che continuava, di nascosto, a parlarmi del suo appuntamento con “Josh”.

«Abbiamo mangiato in un semplicissimo fish & chips,» Disse, mentre il professore era intento a prendere delle diapositive dalla borsa, «e poi mi ha portato a vedere la casa di Sherlock Holmes.»

Smisi di prestargli attenzione quando arrivò a parlare delle parole dolci che Joshua gli aveva riservato a fine appuntamento. Sentii il mio stomaco contrarsi e dovetti frenare i conati di vomito.

Una volta suonata la campanella mi staccai da Alex con la scusa di dover andare in bagno, quando in realtà l’unica cosa che volevo fare era prendermi una pausa dal diabete che i suoi racconti mi stavano provocando. Mi diressi quindi verso i bagni dei maschi del terzo piano, e, una volta entrato, mi trovai di fronte a Joshua, che stava fumando.

«Chi si rivede!» Esclamò lui, buttando il mozzicone di sigaretta nel gabinetto e tirando poi lo sciacquone.

«Non sono in vena.» Dissi secco, andando diretto ai lavandini ed iniziando a far scorrere l’acqua.

«Per cosa? Per una chiacchiera con il tuo amico di vecchia data?» Notai il sarcasmo nella sua voce, e mi dovetti trattenere ai bordi del lavandino per evitare di girarmi e dargli un pugno in faccia.

Senza degnarlo di una risposta misi le mani sotto l’acqua corrente e lasciai che mi colasse sui polsi, per cercare di rallentare il battito.

«Il minimo che potresti fare è chiedere scusa.» Disse poi l’altro, spostandosi accanto a me e guardandomi divertito.

Sentii il sangue salirmi al cervello, e, come ogni volta che perdo il controllo, parlai prima di ragionare. «Basta. Ti prego, smettila con queste sceneggiate da povera vittima, che tanto lo sappiamo benissimo entrambi che tu sei tutto fuorché questo.» Dissi, mentre sorridevo amaramente ricordando le parole che Alex aveva detto sul bus. «E poi perché mai dovrei chiederti scusa?!» Domandai, alzando leggermente il tono di voce e guardandolo finalmente dritto negli occhi.

«Magari per il modo in cui, dopo esserti presentato di punto in bianco a casa mia, hai deciso di trattarmi, mancandomi di rispetto?»

«Ti ho detto di smetterla.» Risposi freddo, cercando di trasmettergli tutto il rancore che provavo nei suoi confronti. «Smettila con questa farsa, perché è tutto inutile. Ti conosco da così tanto tempo che ho imparato, mio malgrado, a leggerti; quindi smettila.» Sentii il battito accelerarmi e dovetti nuovamente trattenermi dal prenderlo a pugni. «Non ho intenzione di chiederti scusa, né per essermi presentato a casa tua – per controllare come stessi, giusto per chiarirci -, né per averti trattato come credo sia giusto.»

«Ti rendi conto, vero, che quello che stai dicendo non ha né capo né coda?» Domandò sarcastico Joshua, arretrando di un passo.

«Sta’ zitto, ti prego. E’ meglio per tutti.» Replicai. «Non ho intenzione di starti a sentire neanche un minuto di più, così come non ho intenzione di lasciarti andare in giro facendoti bello, agli occhi di tutta la scuola, raccontando storie campate in aria.»

Vidi i suoi occhi marroni illuminarsi divertiti. «Agli occhi di Alex, vorrai dire.»

Esitai per un secondo, prima di chiedere: «Che intendi?»

«Il biondino ti ha raccontato, vero, del nostro appuntamento?» Domandò, con un’espressione divertita che gli distorceva il viso. «Di come l’ho ringraziato per avermi aperto gli occhi? Di come gli ho tenuto la mano per dirgli quanto gli fossi riconoscente… Di come mi sono avvicinato per baciarlo? Strano che si sia spostato quando l’ho fatto, però… Pensavo che quelli come voi fossero più facili da fa…»

«Sta’ zitto!» Urlai, sbattendolo contro il muro con l’avambraccio premuto contro la sua gola. «Sei un bastardo.»

Le sue labbra si piegarono in un sorrisetto divertito. «A quanto pare ad Al piacciono i bastardi, non è colpa mia.»

Alzai il braccio e caricai un pugno contro il suo zigomo, che fece un rumore sordo quando lo colpii.

Avevo il respiro affannato, e le orecchie ovattate dal battito del mio cuore, impazzito dalla rabbia. Senza pensarci due volte lasciai andare Joshua e, una volta arretrato di un paio di passi, mi aggiustai la maglia.

«Se pensi anche solo di torcere un capello ad Alex, non basteranno venti dei tuoi “amichetti” a difenderti.» Detto questo uscii dal bagno e, prima di dirigermi verso l’aula di inglese, feci due volte il giro del cortile.

La signora Dorpall non ne fu molto contenta.

N.d.A.

Aaallora, come vi avevo scritto all'inizio, non odiatemi, vi prego ç.ç

La scelta del sogno non è stata dettata semplicemente da un mio sadismo (che, devo ammettere, è alquanto presente u.u), ma anche dal mio intento di far capire quanto la conquista, da parte di Jared della propria identità, debba essere ottenuta da quest'ultimo affrontando in primis se stesso e le proprie paure: e quale modo migliore per fare ciò se non con la manifestazione del suo inconscio? ^^
Nonostante tutto spero che il capitolo vi sia piaciuto (se così dovesse essere, che ne dite di lasciare una bella recensione? :3)

   
 
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