Capitolo 18 – “Reality’s a B****”
Holaaaaa! :)
Prima di iniziare a leggere questo nuovo capitolo dovete promettermi una cosa: non odiatemi... Vi prometto che fa tutto parte di un piano più grande.
Come al solito, inoltre, vi volevo ricordare di passare per la mia pagina facebook (cliccando qui), e di lasciare - sempre se vi va, si intende - una recensione.
Grazie a tutti e buona lettura :3
Quella volta non avevo alcuna piscina in
cui tuffarmi, nessun modo per togliermi dalla testa le parole di Alex, che
continuavano a ripetersi all’infinito, rimbalzando da una parete all’altra
della mia mente. Non potevo neanche rifugiarmi nel mio spazio personale, in
quel luogo dove solo io potevo entrare perché, ogni volta che provavo a farlo,
tutto quello che ci trovavo erano i volti di Alex e Joshua, occupati a fissarmi
intensamente.
La casa, per di più, era troppo
silenziosa dato che i miei genitori erano andati, alla fine, a fare quel
fatidico giro in centro, giro che io mi ero rifiutato di andare a fare: non
sarei stato di alcuna compagnia, avrei solo dovuto trattenermi dall’aggredire i
miei genitori e tutto ciò che mi avrebbe circondato. La rabbia, infatti, dopo i
primi momenti di completo stupore e negazione, aveva preso il sopravvento. Ero
pieno di collera verso Kyle, che mi aveva spinto a fare un passo che
evidentemente non avrei mai dovuto fare; verso Joshua, che mi aveva rubato
anche quel momento, quell’occasione; nei confronti dei miei genitori, per non
avermi cresciuto come un idiota senza cervello a cui le cose scivolavano
addosso; ero adirato con Alex, per così tanti motivi che avevo iniziato a
dimenticare la causa principale; ma, più di tutto, ero arrabbiato con me stesso
per aver anche solo pensato di poter essere qualcuno di diverso, di poter
meritare qualcuno come Alex.
Eppure il dolore allo stomaco era lì.
Eppure anche solo pensare a quegli occhi
versi e a quei capelli biondi rendeva la rabbia più sopportabile.
Era la ventesima volta, più o meno, che
avevo iniziato a fare avanti e indietro per il salotto di casa, quando decisi
di sedermi per l’ennesima volta sulla poltrona accanto al camino spento. Di
fronte ai miei occhi solo il ricordo del nome di Joshua uscire dalle labbra di
Alex.
Quando il rumore del campanello della
porta d’ingresso mi distolse dai miei pensieri, senza nemmeno rendermene conto,
mi alzai ed andai ad aprire.
«Chi è?» Domandai, avvicinandomi alla
porta.
«Jared apri, sono io.» Rispose la voce
dall’altro lato.
«Io chi?» Replicai, non avendo realmente
riconosciuto il timbro di voce.
«Sono Alex, puoi aprire per favore?»
D’improvviso tutta la mia rabbia, tutta
la delusione che aveva appesantito la mia giornata, era scomparsa, come
volatilizzata.
Non appena aprii la porta trovai
conforto nel suo sorriso imbarazzato.
«Ho trovato il tuo indirizzo su
Facebook, spero che non sia un problema?»
«Cosa? Che tu abbia trovato il mio
indirizzo su internet oppure che ti sei presentato senza preavviso?» Replicai
scherzoso, divertendomi alla vista del suo imbarazzo.
«Ho capito,» disse, rimettendosi
nell’orecchio desto l’auricolare dell’iPod, «me ne vado. Ci vediamo domani.»
Cercai di trattenere una risata, ma non
ci riuscii. «Dai che stavo scherzando! Entra; mi fa solo piacere che tu mi sia
venuto a trovare.» Vidi il volto del canadese rilassarsi nuovamente e sentii
qualcosa sciogliersi dentro di me.
«Perché sei venuto, comunque?» Gli
chiesi, una volta chiusa la porta alle sue spalle.
«Sono appena tornato dall’appuntamento
con Joshua…» Disse, provocando in me una serie infinita di fitte di dolore.
Riuscii quasi a sentire il peso delle sue parole cadermi addosso con tutto il
loro peso. «E’ andato bene, se devo essere sincero.» Continuò lui, con lo
sguardo perso nel vuoto di fronte a lui.
«Vuoi qualcosa da bene?» Gli domandai,
cercando di non concentrarmi sulle sue parole.
«No grazie…» Rispose, sfilandosi la
giacca e rimanendo con una maglia verde a mezze maniche. «Posso accomodarmi?»
«Certo.» Gli dissi io, cercando qualche
altra scusa per non affrontare l’argomento “Joshua”.
«L’appuntamento è andato bene, come ti
stavo dicendo.» Riprese lui, dopo un breve periodo di silenzio imbarazzante
passato ad evitarci con gli occhi.
«Bene…» Riuscii a dire, nascondendo la
disperazione.
«C’è solo una cosa che mi ha turbato, se
così si piò dire.»
«Ah sì?» Domandai, sedendomi sul
bracciolo della poltrona di fronte a lui, mosso da una scintilla di speranza.
«Sì.» Rispose, torturandosi le mani.
«E cosa?»
«Non riuscivo a smettere di pensare a
te.» Disse, alzando lo sguardo ed inchiodandolo al, mio. «Neanche per un
minuto.
Sentii i palmi delle mani iniziare a
sudarmi e il cuore iniziare a battere molto più velocemente. Improvvisamente la
salivazione mi si era interrotta ed era diventato impossibile proferire parola.
«Non sono riuscito a pensare ad altro se
non a te, e al nostro incontro prima che io andassi da Joshua.» Andò avanti
lui, continuando a fissarmi negli occhi. «Continuavo a pensare a quello che
volevi dirmi, e al fatto che io ti abbia interrotto. Sembrava volessi dirmi
qualcosa di molto più importante, e mi sento stupido per non averti fatto
parlare.»
Mi ritrovai a ringraziare me stesso per
aver deciso di sedermi: mi sentivo le ginocchia così deboli che se fossi stato
ancora in piedi sarei crollato sul pavimento come un sacco di patate.
«Allora?» Mi domandò il biondo.
«C-cosa?» Replicai, facendo fatica a
parlare per la bocca secca.
«Dovevi dirmi qualcosa di importante
oppure era tutto frutto della mia immaginazione?»
Dovevo
dirti che avrei voluto baciarti; dovevo dirti che in questi pochi mesi che ci
conosciamo hai stravolto la mia vita come poche persone hanno mai fatto; dovevo
dirti che hai distrutto ogni mia certezza, ricostruendole in un modo completamente
diverso, in un modo che mi piace molto di più del precedente. Dovevo dirti che
quello che provo per te, ormai, è molto più che semplice amicizia.
Avvertii la mia mente elaborare questa
risposta, esaminarla sotto mille punti di vista e, prima che potessi anche solo
realizzare quello che stava succedendo, sentii la mia voce dare vita a quei
pensieri, e vidi gli occhi di Alex guardarmi con stupore, ingrandirsi a tal
punto che fui tentato dal tuffarmi in quel torbido mare verde, anche se questo
avrebbe significato annegare.
Quello che accadde dopo non mi fu ben
chiaro; vidi solo Alex alzarsi dalla poltrona di fronte alla mia, venirmi
incontro senza mai staccarmi gli occhi di dosso, prendere il mio volto tra le
mani e poggiare le sue labbra sulle mie.
Non capii più nulla; fui travolto dal
momento e, come un burattino mosso dal proprio burattinaio, mi alzai dal
bracciolo della poltrona e portai le mie mani sul corpo di Alex, che si era
staccato leggermente dalle mie labbra per sorridere. Le mie mani iniziarono a
giocare con i suoi capelli, con le sue spalle e con l’orlo della sua maglietta,
mentre con le labbra cercavo di assaporarlo. Non aveva un sapore definito,
sapeva solo di Alex, e questo bastava a farmi andare in tilt il cervello.
«Sfntati.» Le parole del ragazzo tra le
mie braccia erano ovattate dalle mie labbra, ma in quel momento non mi
interessava. Tutto ciò che aveva importanza, lì, in quell’attimo, eravamo noi
due.
Eppure Alex continuava a ripetere quella
parola, di cui non capivo il senso. «Sfntati.»
Fu solo quando mi allontanai un secondo
dalle sue labbra, e lo guardai negli occhi, che mi accorsi che qualcosa non
quadrava.
«Svegliati.»
Le labbra che si muovevano erano quelle
di Alex, eppure la voce non era la sua.
«Jared, tesoro, svegliati.»
«Cosa?»
«Svegliati.»
Di fronte ai miei occhi non c’era più il
volto di Alex, né tantomeno avevo le sue labbra premute sulle mie. Mia madre mi
stava scuotendo delicatamente, cercando di farmi svegliare.
«E’ pronta la cena.»
«Che ore sono?» Domandai, sistemandomi
sulla poltrona e stiracchiandomi leggermente. Le immagini del sogno ancora
impresse nella mia mente.
«Sono le sette e mezzo. Io e tuo padre
siamo tornati un paio d’ore fa e ti abbiamo trovato addormentato sulla
poltrona, quindi abbiamo pensato di lasciarti dormire.»
Le parole di mia madre sembravano un
ronzio lontano. Potevo avvertire i fotogrammi del sogno abbandonare
gradualmente la mia coscienza.
«Comunque la cena è
pronta… Perché non vai a sciacquarti la faccia e poi ci raggiungi? Abbiamo
preparato la lasagna con la pasta che ci ha spedito tua zia dall’Italia.»
«Ok, arrivo
subito.»
Una volta arrivato
in bagno, ed essermi sciacquato la faccia, cercai di ripescare stralci del
sogno drasticamente troncato e, quando non ci riuscii, mi avviai sconsolato in
sala d pranzo dove la mia famiglia mi stava aspettando.
La lasagna era
squisita.
Il giorno
successivo la sveglia suonò puntuale, destandomi da un sonno – quella volta
- privo di sogni. Come ogni mattina mi
lavai e mi preparai per andare a scuola, e,
sulla strada verso la fermata del bus, mi fermai davanti una vetrina di
un negozio per aggiustarmi i capelli mossi dal vento.
Una volta arrivato
alla banchina dell’autobus iniziai a sentire lo stomaco contorcersi per il
nervosismo. Sarebbe stata la prima volta in cui io ed Alex ci saremmo
incontrati, se non si considera il sogno, di cui potevo ricordare solo piccoli
particolari. Sufficienti a rendere elettrica l’atmosfera con il canadese, una
volta incontratici sul bus diretto verso la Walworth Academy.
«Hey!» La voce
solare di Alex mi raggiunse, facendomi venire un’altra fitta allo stomaco. I
suoi occhi verdi sembravano assorbire tutta la luce solare, per poi rifletterla
mille volte più forte.
Immagini del sogno
della notte precedente mi affollarono la mente, e quasi non caddi per terra
mentre mi dirigevo verso dove era seduto.
«Ciao.» Riuscii a
dire, mentre mi accomodavo accanto a lui.
«Come va?» Mi
domandò lui, girandosi verso di me e posando il cellulare nella tasca della
giacca.
«Tutto bene,
grazie.» Risposi. «A te?»
«Benissimo, a dir
la verità.»
«Ah sì? E come
mai?» Chiesi, anche se in cuor mio già conoscevo la risposta.
«Ti avevo detto,
vero, che avevo un appuntamento con Josh?»
Josh?
Pensai, stringendo
le mani a pugno.
«Credo di sì,
perché?» Cercai di sembrare il più disinvolto possibile, ma quello che uscii
dalla mia bocca fu un verso strozzato.
«Be’, è andata
meglio del previsto!» Riuscii a vedere la felicità illuminargli il volto e
quasi mi sentii in colpa. «Siamo andati ad st. James’ Park e abbiamo camminato,
e parlato, moltissimo.» Continuò. «Mi ha parlato della sua vita prima della
scuola, e dei suoi amici… So quello che pensi,» aggiunse, vedendo la mia
espressione indurirsi, «ma sembra davvero essere cambiato… Credo che in tutto
questo lui sia stato una vittima, così come me e te.»
«Non sono la
vittima di nessuno.» Dissi queste parole senza rendermene conto, ma in fondo ne
fui felice.
«Sì, lo so… Non
intendevo vittima di qualcuno, ma vittima degli eventi.» Rispose lui. «E con
vittima non intendo per forza qualcosa di negativo… Intendo semplicemente che
gli eventi hanno operato su di noi, plasmandoci e cambiandoci, che ci piaccia o
meno.»
In quel momento il
bus si fermò di fronte scuola e, quasi sollevato, interruppi quella
conversazione.
«Cos’hai fatto alla
fine dopo la corsetta, ieri?» Mi chiese mentre ci avviammo verso gli
armadietti.
«Mmmh, niente di
che… Appena tornato a casa mi sono addormentato, e mi sono svegliato
direttamente ad ora di cena.»
«Ancora debole?»
«Mmmmh?» Domandai,
non capendo bene a cosa si riferisse.
«Intendo per la
terribile influenza che hai avuto.» Rispose, aprendo il proprio armadietto e
prendendo i libri di inglese e biologia.
«Ah sì, già.»
«Quella che ti sei
inventato per evitare di discutere su quanto successo in cortile.» Continuò il
biondo, appoggiandosi all’armadietto affianco al mio.
«Non…»
«Faresti di tutto
per evitare di deludere o ferire chi ti sta intorno.» Sorrise. «Ormai ti
conosco come le mie tasche, Maycon.» E, detto questo, Alex si staccò
dall’armadietto e se ne andò.
Se
solo fosse vero, pensai.
L’ora di biologia
passò lenta, con mr. Boujdi che sgridava chiunque pensasse anche solo di
starnutire, e con Alex che continuava, di nascosto, a parlarmi del suo
appuntamento con “Josh”.
«Abbiamo mangiato
in un semplicissimo fish & chips,» Disse, mentre il professore era intento
a prendere delle diapositive dalla borsa, «e poi mi ha portato a vedere la casa
di Sherlock Holmes.»
Smisi di prestargli
attenzione quando arrivò a parlare delle parole dolci che Joshua gli aveva
riservato a fine appuntamento. Sentii il mio stomaco contrarsi e dovetti
frenare i conati di vomito.
Una volta suonata
la campanella mi staccai da Alex con la scusa di dover andare in bagno, quando
in realtà l’unica cosa che volevo fare era prendermi una pausa dal diabete che
i suoi racconti mi stavano provocando. Mi diressi quindi verso i bagni dei
maschi del terzo piano, e, una volta entrato, mi trovai di fronte a Joshua, che
stava fumando.
«Chi si rivede!»
Esclamò lui, buttando il mozzicone di sigaretta nel gabinetto e tirando poi lo
sciacquone.
«Non sono in vena.»
Dissi secco, andando diretto ai lavandini ed iniziando a far scorrere l’acqua.
«Per cosa? Per una
chiacchiera con il tuo amico di vecchia data?» Notai il sarcasmo nella sua
voce, e mi dovetti trattenere ai bordi del lavandino per evitare di girarmi e
dargli un pugno in faccia.
Senza degnarlo di
una risposta misi le mani sotto l’acqua corrente e lasciai che mi colasse sui
polsi, per cercare di rallentare il battito.
«Il minimo che
potresti fare è chiedere scusa.» Disse poi l’altro, spostandosi accanto a me e
guardandomi divertito.
Sentii il sangue
salirmi al cervello, e, come ogni volta che perdo il controllo, parlai prima di
ragionare. «Basta. Ti prego, smettila con queste sceneggiate da povera vittima,
che tanto lo sappiamo benissimo entrambi che tu sei tutto fuorché questo.» Dissi,
mentre sorridevo amaramente ricordando le parole che Alex aveva detto sul bus.
«E poi perché mai dovrei chiederti scusa?!» Domandai, alzando leggermente il
tono di voce e guardandolo finalmente dritto negli occhi.
«Magari per il modo
in cui, dopo esserti presentato di punto in bianco a casa mia, hai deciso di
trattarmi, mancandomi di rispetto?»
«Ti ho detto di
smetterla.» Risposi freddo, cercando di trasmettergli tutto il rancore che
provavo nei suoi confronti. «Smettila con questa farsa, perché è tutto inutile.
Ti conosco da così tanto tempo che ho imparato, mio malgrado, a leggerti;
quindi smettila.» Sentii il battito accelerarmi e dovetti nuovamente
trattenermi dal prenderlo a pugni. «Non ho intenzione di chiederti scusa, né
per essermi presentato a casa tua – per controllare come stessi, giusto per
chiarirci -, né per averti trattato come credo sia giusto.»
«Ti rendi conto,
vero, che quello che stai dicendo non ha né capo né coda?» Domandò sarcastico
Joshua, arretrando di un passo.
«Sta’ zitto, ti prego.
E’ meglio per tutti.» Replicai. «Non ho intenzione di starti a sentire neanche
un minuto di più, così come non ho intenzione di lasciarti andare in giro
facendoti bello, agli occhi di tutta la scuola, raccontando storie campate in
aria.»
Vidi i suoi occhi
marroni illuminarsi divertiti. «Agli occhi di Alex, vorrai dire.»
Esitai per un
secondo, prima di chiedere: «Che intendi?»
«Il biondino ti ha
raccontato, vero, del nostro appuntamento?» Domandò, con un’espressione
divertita che gli distorceva il viso. «Di come l’ho ringraziato per avermi
aperto gli occhi? Di come gli ho tenuto la mano per dirgli quanto gli fossi
riconoscente… Di come mi sono avvicinato per baciarlo? Strano che si sia
spostato quando l’ho fatto, però… Pensavo che quelli come voi fossero più
facili da fa…»
«Sta’ zitto!»
Urlai, sbattendolo contro il muro con l’avambraccio premuto contro la sua gola.
«Sei un bastardo.»
Le sue labbra si
piegarono in un sorrisetto divertito. «A quanto pare ad Al piacciono i bastardi, non è colpa mia.»
Alzai il braccio e
caricai un pugno contro il suo zigomo, che fece un rumore sordo quando lo
colpii.
Avevo il respiro
affannato, e le orecchie ovattate dal battito del mio cuore, impazzito dalla
rabbia. Senza pensarci due volte lasciai andare Joshua e, una volta arretrato
di un paio di passi, mi aggiustai la maglia.
«Se pensi anche
solo di torcere un capello ad Alex, non basteranno venti dei tuoi “amichetti” a difenderti.» Detto questo
uscii dal bagno e, prima di dirigermi verso l’aula di inglese, feci due volte
il giro del cortile.
La signora Dorpall non ne fu molto contenta.
N.d.A.
Aaallora, come vi avevo scritto all'inizio, non odiatemi, vi prego ç.ç
La scelta del sogno non è stata dettata semplicemente da un mio sadismo (che, devo ammettere, è alquanto presente u.u), ma anche dal mio intento di far capire quanto la conquista, da parte di Jared della propria identità, debba essere ottenuta da quest'ultimo affrontando in primis se stesso e le proprie paure: e quale modo migliore per fare ciò se non con la manifestazione del suo inconscio? ^^Nonostante tutto spero che il capitolo vi sia piaciuto (se così dovesse essere, che ne dite di lasciare una bella recensione? :3)