Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: dearwriter    21/05/2015    2 recensioni
Springfield. Clarissa è una normale ragazza di ventun'anni, con una vita apparentemente tranquilla, famiglia, amici, sogni nel cassetto. Tutto comincia a cambiare quando capisce di provare qualcosa di più che semplice amicizia per la sua amica: Serena. Quelle che per lei erano sempre state certezze, diventano vaghe. S'insinua nel suo cuore la possibilità e il desiderio di amare veramente, nel profondo, qualcuno, anche se non del sesso opposto come tutti e lei stessa aveva creduto fino a quel momento.
L'amica, sorella, confidente, diventa il grande amore della vita di Clarissa. Ma può un amore così forte, durare così a lungo? Clarissa sa che la risposta è ' no '. Perché crede che l'amore prenda tutto ciò che dà. E così anche Serena prende tutto quello che può di Clarissa, il suo cuore, la sua anima, ogni cosa. Lei stessa. Sola, ad affrontare qualcosa di ancora più terribile di una delusione e di un cuore spezzato: il cancro.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Dear Serena
 




 
Capitolo Cinque.

“ Cara Serena, 
io sono quella con il cuore spezzato. ”
 


Una volta, qualcuno ha detto che c’è un motivo per cui il dolore esiste.
È più che altro un avvertimento, un allarme che scatta, il filo tirato che smuove la campana principale di un veliero assaltato dai pirati. È un monito, un richiamo. Una voce chiara e tagliente, portatrice di un messaggio ben preciso. Perché c’è qualcosa di terribile, dopo il dolore. Il dolore non è la fine del viaggio e neppure la conseguenza di uno sfortunato avvenimento, no. Il dolore esiste per un motivo. E se non esistesse… bè, non ci accorgeremmo di aver toccato il fondo fino a che di noi non rimanesse che il nulla.
In realtà, è una serie tv ad avermi aperto gli occhi sul dolore. Ma sicuramente qualcuno avrà dato voce a queste parole molto prima che venissero riprese e da me udite.
Quel che è certo, in fin dei conti, è che il dolore esiste. Non importa se debba esserci una ragione, una motivazione più che valida per la sopportazione delle peggiori pene sulla faccia della terra. La prima cosa che facciamo, quando nasciamo, è piangere. Sappiamo bene cosa sono le lacrime, cos’è il dolore. Lo sappiamo. Perché il dolore esiste, concreto e puntuale come il ticchettio insistente di un enorme orologio a pendolo.
Tic, tac. Tic, Tac.
Tic. Tac.
Il dolore esiste, sì… ma non è l’unica cosa a far perdere l’equilibrio alla nostra felicità. Subito dopo di esso, viene il vuoto. L’assenza. La mancanza. La sparizione. La scomparsa… e allora, una domanda viene spontanea, agli occhi di una ragazza che ancora ha vissuto troppo poco per conoscerne la risposta. Come si colma il nulla? Come si riempie un bicchiere vuoto, se non è rimasta neppure una minuscola goccia d’acqua per poterlo fare? Come si fa, quando il nulla si è impossessato… di qualsiasi cosa? Come si fa…
La verità è che non ne ho la minima idea.
È buio attorno a me. Troppo buio. Troppo vuoto. Troppo silenzioso. Troppo…
Ho altre cose, da dire. Molte altre cose…
Ma sono scomparse.
 
“ Forse dovremmo restare solo amiche. È la cosa migliore per entrambe. “
Ho letto questa frase una volta soltanto. Nel momento esatto in cui i miei occhi hanno visto quel punto, ho sentito qualcosa mettere mano al mio stomaco. Un mostro affamato ha cominciato a divorarmi le viscere, dall’interno. E mi sono sentita svenire. Sono svenuta.
Ma questo è successo circa una settimana fa, credo. Non ne sono molto sicura. Da allora non ho più aperto la conversazione con Serena, non ho riletto quella frase per accertarmi di aver capito bene e ho perso completamente la concezione del tempo. Non ho ricevuto altri messaggi. Non ho parlato con Serena. Non ho parlato di Serena con nessuno.
La verità è che non ho parlato affatto, da quando quelle parole si sono insinuate come spine nel mio cuore, nel mio addome, nello stomaco, nella testa. Ovunque. Ma soprattutto nella testa… e non c’è niente che io possa fare per farle andare via. Non vogliono sparire, loro, e restano lì, a mangiare piccoli pezzi di me in accordo con quel mostro che si occupa di tutti gli altri organi. Mangiano e mangiano, insaziabili. Mangiano me.
Com’è accaduto tutto questo?
Non lo so.
Non riesco a pensare. Al mondo ci sono persone che soffrono, che muoiono di fame, che non hanno un tetto sotto cui dormire la notte, che non hanno nessuno al mondo. Ed io sono qui, stesa di lato nella mia camera a fissare il nulla, come se il mio dolore potesse minimamente essere paragonabile alle piaghe che affliggono l’intero pianeta. Non lo è. Lo saprei, se solo qualcosa accendesse una flebile luce nel mio cervello. Se pensassi, me ne renderei conto. I miei polmoni funzionano, respiro, ho una casa, una famiglia, un posto dove stare. Sono viva. Lo ripeto di nuovo per essere sicura che l’affermazione sia effettivamente vera… sono viva.
Lo saprei, se solo uscissi dal baratro oscuro in cui mi sto crogiolando. Un baratro di dolore, in cui una voragine mostruosa continua a divorare parti di me. Un buco nero che accumula energia, assorbe, polverizza, distrugge, diventando sempre più grande, sempre più forte, sempre più inarrestabile e spaventoso. Sono nel fondo di questo buco nero, ad osservare con il capo rivolto verso l’alto il buio che mi circonda. Non c’è luce, non c’è via d’uscita. Non c’è niente. È il nulla.
Sul comodino c’è La sarta di Mary Lincoln. Vedo il dorso del libro, il titolo scritto chiaro e leggibile. Nero su bianco. Non leggo da quel messaggio. Ho smesso di leggere, di parlare, di mangiare, di uscire dalla mia stanza. Ho smesso di rispondere alle chiamate di Peyton ed ho messo silenzioso il cellulare perché ero stanca di essere disturbata. Come se fossi ad una qualche riunione importante, come se non avessi tempo da perdere e stessi risolvendo affari di estrema urgenza. Non volevo essere disturbata, nel mio nulla.
Anche i miei genitori l’hanno capito. Probabilmente sono preoccupati, ma non so neppure questo: guardo la finestra, fissa, non mi volto e non mi sposto. Mia madre non demorde, entra silenziosa nella stanza, si siede sul bordo del letto davanti a me e resta a guardarmi. Lo fa spesso. Mi accarezza il braccio, mi scosta i ciuffi biondi dal volto inespressivo, mi da un bacio sulla fronte e poi se ne va.
Sento di essere un po’ meno sola, quando la sento vicina a me. La vedo attraverso le pareti tetre del buco nero, al di là delle sbarre spesse e indistruttibili della gabbia in cui sono prigioniera. Ma poi? Sono io ad essermi rinchiusa, nessuno mi ha costretto a farlo. Poi, cosa?
Guardo la luce bianca attraversare la finestra, qualcosa di umido segue il suo esempio, attraversando la pelle pallida della mia guancia. Bagna l’attaccatura dei miei capelli, il cuscino su cui sono appoggiata. Una lacrima.
« Clarissa… »
Come se reagissi nel sentir chiamare il mio nome, alzo con fatica una mano e asciugo quell’unica goccia. Una parte di me non vuole farsi vedere così. Non voglio che altri stiano male, non voglio che si accollino il mio dolore. È mio e soltanto mio, nessun altro dovrebbe arrecarsi questo peso. Eppure, dall’altra parte, ho bisogno che qualcuno mi aiuti e mi tiri fuori. Perché io non riesco a muovermi, ogni muscolo del mio corpo è paralizzato, non riesco a fare nulla… c’è solo il nulla, tutt’intorno. E da sola non sono in grado di fuggire. Ho bisogno che qualcuno mi prenda la mano e, con tutta la forza del mondo, mi tiri su. Ho bisogno che qualcuno mi tiri su. È troppo buio qui sotto.
Mia madre si siede al bordo del letto, davanti a me, come sempre. Io sto ancora guardando la finestra. Appoggia una mano sul mio braccio e mi accarezza, con calma e amore. Lo stesso di un musicista che si prende cura del proprio violino, o così ipotizzo che possa essere. Se avessi un violino e lo suonassi fin dalla tenera età, penso che passerei anche del tempo a guardarlo, pulirlo, amarlo con devozione. Devozione e certezza che non sarebbe mai capace di spezzarmi il cuore. Sì.
« Clarissa… »
« Sto bene », la interrompo, con un filo di voce. « È tutto okay, davvero. Sto bene. »
La sento sospirare, piano. So che non demorde. Non questa volta, almeno, perché è passato un po’ di tempo ed è più preoccupata che mai. Posso capirla, suppongo. « Ha chiamato Peyton, dice che non ti fai sentire da una settimana e mezza ed è in pensiero per te. »
Mugugno. Non trovo parole con cui replicare. Se anche le trovassi non avrebbero senso, per lei. O per Peyton, per chiunque al di fuori di me. Sono in esilio, in questo momento, lontana da qualsiasi cosa fosse reale prima… e non so nemmeno per quale motivo.
« Ti va di parlarne? »
No. Non mi va di parlarne, dice la voce nella mia testa.
Parlare di che cosa, poi? Di me? Di Serena? Del fatto che non ho più fame? O magari del fatto che non voglio alzarmi dal letto, vivere come una persona normale?
No. Non mi va di parlarne.
Non mi va affatto di parlarne.
E probabilmente il vero problema è questo. È questo il macigno. E invece di abbatterlo e lottare, io mi sono rifugiata in un tunnel sotterraneo in attesa che passi. Come una tempesta estiva, la grandine, i tuoni, i fulmini. Ed io sono lì, coperta, accucciata, sola, ad attendere qualcosa che non succederà. Il sole non tornerà a splendere da solo, il macigno non cadrà in mille pezzi da solo. Dovrei essere io a smuovere la montagna, io a rialzarmi in piedi e rimettere a posto l’equilibrio cosmico del mio profondo essere.
Invece sto qui, sul letto. A smettere di pensare. Smettere di parlare. Smettere di essere una persona. Mi sono persa. Ho preso una svolta sbagliata nel labirinto, ho trovato siepi cattive e perfide e acerbe, che mi hanno attaccata e mi hanno fatto lo sgambetto, mi si sono attorcigliate alle caviglie e allo stomaco, mi hanno impedito di respirare. Mi hanno graffiata, ferita, sconvolta, quasi uccisa. Troppo da poter vivere, ma non abbastanza da poter morire. Quasi.
Forse non sono mai stata disposta ad essere un Quasi per Serena. Forse pensavo che sarei stata io la mano che l’avrebbe tirata fuori dal dirupo, forse ho pensato troppo… mentre io cercavo di essere quella mano, lei è salita e ha buttato giù me. Ero così annegata di paure e sentimenti da non rendermene conto. Chi prenderà la mia mano, adesso? La parete è fragile, non è così solida come sembra. Si sgretola, frana sotto il peso che sto reggendo sulle mie spalle. Frana. Frana tutto. Ogni cosa. E cade assieme a me.
Penso che, se precipitassi, tutti quei pensieri svanirebbero del tutto. Sono già scomparsi, in parte, come scompare ogni frase io tenti di elaborare in questo momento. Cerco di capire, di darmi una spiegazione, di trovare una ragione al dolore. Ma non ci riesco. Perché scompare. Scompare tutto. Com’è scomparsa Serena.
E allora capisco di nuovo. Capisco qualcosa, qualcosa di diverso. C’è tanto male, dappertutto. Ce n’è tanto, c’è sofferenza, dolore, di qualsiasi forma e dimensione. Non importa cosa, ma è come l’ossigeno per i nostri polmoni: non si vive, senza. È così… dall’altra parte del mondo, qualcuno in quest’istante sta morendo per chissà quale malattia grave ed incurabile. Qualcuno è già morto. Qualcuno ha appena scoperto di essere malato. Qualcuno ha perso un genitore, un figlio. Qualcuno ha il cuore spezzato. Qualcun altro ha deciso di porre fine alla propria vita e alle proprie miserie. Non sopportava di respirare, non sopportava il dolore. Qualcuno si è appena ucciso, in questo momento, dall’altra parte del mondo.
Ed in mezzo a tutto questo sistema che non ha una fine ed un inizio, ci sono anch’io. So per certo che sono entrata a far parte dell’eterna ruota dell’universo, un universo che amo immensamente studiare. Sì.
Io sono quella con il cuore spezzato. 

 


 
⇒ Angolo Autrice.
Come promesso, eccomi di ritorno! 
Perdonatemi il ritardo, davvero, ho questi problemucci che. . . andranno via, ma mi impediscono di rispettare il puntuale appuntamento del Mercoledì e sono molto dispiaciuta. Spero di riuscire a ripristinarlo dalla prossima settimana. Eventualmente, sapete che l'aggiornamento cade di Giovedì o Venerdì. Farò tutto il possibile, promesso.
Ad ogni modo. 
Penso che questo capitolo susciti parecchie domande. E' breve, non succede praticamente niente ed è strano. Nonostante tutto, tenevo in modo particolare a postarlo e a non aggiungerci quello che succederà in futuro. Volevo che fosse " da solo ", come Clarissa: questo capitolo è un punto focale della sua psicologia. Mostra come reagisce al dolore, quello che pensa e quello che fa. Quello che vorrebbe fare, ma non ci riesce. Perché si sente debole, non lo è, ma il fatto che abbia una bassa opinione di sé le impedisce qualsiasi cosa voglia fare. Inoltre si rende conto, di nuovo, quanto sia innamorata e quanto fossero alte le sue aspettative. 
Non so molto spiegare questo capitolo, ma penso sia uno dei più importanti, soprattutto in vista del prossimo futuro. . . 
Detto questo, spero di non avervi deluso e di non deludervi.

Un bacio e un grazie speciale a chi sta continuando a seguirmi. 

Alla prossima settimana!
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: dearwriter