Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer
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Autore: _browneyes    23/05/2015    8 recensioni
“Le paure superficiali sono facili, la paura del buio che hai quando sei bambino, solo perché temi che un mostro salti fuori dal tuo armadio, è facile.
Sai quando arriva il difficile?
Quando le tue fobie sono radicate dentro di te, quando la tua mente continua a farti rivivere le cose peggiori che ti sono capitate e ti tormenti, perché temi che possano succederti di nuovo, quelle cose.
E forse tu non lo capisci, ma è dannatamente difficile vivere in un mondo che ti sbatte in faccia le tue paure peggiori in continuazione, senza che tu possa fare nulla per impedirlo.
Vivere in questo mondo è come vivere in un incubo e il problema è che non puoi svegliarti."
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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Capitolo Sei.
 
Cambiamento.
 
 
 
Quando Calum si è svegliato, questa mattina, era di nuovo solo a casa, visto l’orario. E lui che, invece, aveva progettato di svegliarsi presto, almeno per oggi. Ma non s’è lasciato scoraggiare nemmeno dal mal di testa pulsante, dovuto alla sbornia della sera prima, e si è vestito in fretta, per poi camminare a passo svelto fino ad arrivare al Mel’s. E adesso è qui, che guarda la porta senza sapere se entrare, i vaghi ricordi della notte precedente che gli offuscano i pensieri.
Poi, al diavolo tutto, entra e, senza nemmeno esserne totalmente consapevole, la cerca con lo sguardo. Ed eccola lì, che porta un caffè ad un tavolo, e Calum la trova bella pure con le pesanti occhiaie scure, l’aria stanca e vagamente stralunata, probabilmente un effetto della sera prima.
La raggiunge, senza nemmeno pensarci, con il solito mezzo sorrisetto in viso, quello che lei sembra proprio non sopportare; «Buongiorno, Amethyst».
La mora sospira nel sentire quella voce, anche se avrebbe dovuto aspettarselo, mica poteva evitarlo a lungo, nonostante c’avesse sperato un pochino; alza gli occhi al cielo, senza nemmeno degnarsi di guardarlo mentre torna a passo svelto verso il bancone, a prendere le nuove ordinazioni. «Ciao Calum», biascica, con la testa che ancora pulsa, nonostante le due aspirine che ha già preso.
Fottuto alcool.
«Quanto entusiasmo», commenta lui, ironico e la segue.
Amethyst alza le spalle, «Che ti aspettavi, i fuochi d’artificio?», borbotta scontrosa mentre si dirige di nuovo verso i tavoli col vassoio in mano. Calum la segue ancora.
«Qualcuno si è svegliato dal lato sbagliato del letto, stamattina», commenta lui, ancora ironico.
Lei alza le spalle e, finalmente, si volta a guardarlo, «Perché, c’è gente che si alza mai dal lato giusto?». E si volta, sperando che questa volta lui non la segua. Non può permettersi di affezionarsi anche a lui, di avere solo un’altra delusione; non può concedersi il lusso di avere un’altra persona da poter perdere, ne ha già perse fin troppe, comunque.
Calum sbuffa, «Ma ti fermi un secondo? Cazzo, non ti si può nemmeno parlare un minuto».
Amethyst alza gli occhi al cielo, stanca, «Si da il caso che io stia lavorando, Calum e che non abbia voglia né tempo per starti dietro, perciò o ti siedi e ordini qualcosa o mi parli un’altra volta». E fa per allontanarsi di nuovo, ma lui la ferma tenendole il polso e chiedendosi perché sia così maledettamente intrattabile; si side di scatto davanti a un tavolino, «Un caffè, per favore». Le fa l’occhiolino e lei sbuffa, esasperata, per poi allontanarsi di nuovo verso il bancone.
Quando torna al tavolo, Calum ha ancora quel sorrisetto vittorioso stampato in faccia e Amethyst non può fare a meno di sbuffare mentre gli sbatte davanti il suo caffè. Lui ride, «Calmati, raggio di sole».
La mora lo fulmina con lo sguardo, irritata, «Non chiamarmi così, mai più».
Calum ride di nuovo e lei, lo potrebbe giurare, lo prenderebbe a schiaffi, tanto lo trova irritante; «Oh andiamo, si può sapere che ti prende?».
«Mi prende che mi devi stare lontano, Calum. Dobbiamo stare lontani, io e te».
Lui la guarda, scettico ‘chè dopo tutto quello è successo, sembra proprio assurdo che stia dicendo una cosa del genere, «Ieri sera non la pensavi così però, raggio di sole».
Al che Amethyst incrocia per la prima le iridi cristalline con quelle pece del ragazzo; «Vaffanculo, Calum», sbotta, il tono glaciale. E mentre lui si sforza di capirla, lei va verso l’uscita a passo di marcia, quasi, veloce, come non vedesse l’ora di scappare da lì.
Di scappare da lui.
Fottuto Calum Hood.
 
Quando Rain ha conosciuto Michael, aveva sette anni e i capelli biondi tagliati corti, un taglio da maschiaccio, quasi; li odiava i capelli lunghi, lei da piccola. Michael aveva otto anni e i capelli ancora del suo colore naturale;
La famiglia Clifford si era appena trasferita proprio nella casa accanto a quella dei Wilson ed era un settembre, Rain se lo ricorda ancora. Si ricorda di aver incontrato Michael quando sua madre aveva invitato i nuovi vicini a pranzo e che avevano giocato tutto il pomeriggio a nascondino, e anche che lui era pessimo in quel gioco.
Si sono trovati bene insieme fin da subito, tanto che Ashton all’inizio era persino geloso del loro rapporto, e da quel giorno del pranzo sono sempre stati quasi inseparabili.
Quasi.
Quando avevano sedici anni, Michael è cambiato, del tutto.
Un giorno è arrivato, al solito posto dove loro tre si incontravano sempre, lo spiazzo abbandonato dietro la fermata della metro, senza magliette di band o jeans strappati, ma vestito di tutto punto e con i capelli, sebbene ancora tinti, tutti pettinati. Li ha guardati. Ha guardato Rain con le sue meches rosa evidenti tra i capelli chiari, la canottiera fin troppo grande degli Iron Maiden, probabilmente rubata a suo fratello Marcus, e le calze nere, sicuramente di Celia, gli occhi azzurri cerchiarti di nero e il rossetto rosso, a sedici anni non poteva farne mai a meno; ha guardato Ashton, con i capelli sempre scompigliati e la maglietta piena di buchi, ai piedi le vecchie Vans ormai da buttare, la solita Lucky Strike fra le labbra.
Li ha guardati, serio, le mani in tasca e i rimpianti accantonati in un angolo della mente e poi ha parlato, atono, «Devo cambiare. Sono cambiato».
Poi è scoppiato in lacrime, proprio come un bambino, senza nemmeno provare a trattenersi. Rain è scesa dal muretto e l’ha abbracciato stretto, senza dire una parola; ha parlato lui, piano, «Non voglio più essere una delusione».
Lei l’ha stretto di più, «Non sei una delusione, fregatene di quello che ti dicono».
Michael ha scosso la testa, «E’ mio padre, non posso fregarmene», ha mormorato. Alla fine si è staccato dall’abbraccio di Rain e si è asciugato le guance con la manica dell’anonima maglietta blu, poi si è seduto vicino ad Ashton. Ashton non ha detto nulla e si è limitato a dargli una pacca sulla spalla e a passargli il pacchetto di sigarette e l’accendino, lui non è mai stato bravo con le parole.
L’unica cosa di Michael che era rimasta la stessa erano i capelli costantemente tinti, nonostante il dissenso del padre, ‘chè “in qualche modo devo ricordarmi chi sono”, diceva Michael.
Da quel giorno, del vecchio Michael è rimasto poco e niente. Si è sempre di più chiuso in una bolla, vivendo nel suo mondo, con la paura costante di sbagliare, di fallire; si è allontanato da tutti, ha allontanato tutti, anche lei ed Ashton.
E a Rain, a dire il vero, il Michael di prima, manca da morire.
 
«Nirvana!», una voce la chiama, facendola voltare.
«Ashton Irwin, è da un po’ che non ci vediamo eh?», gli rivolge un piccolo sorriso di circostanza, sa di non andargli a genio, comunque.
Lui la raggiunge a passo svelto, il solito sorriso allegro stampato in viso, «Da due anni, direi. Strano, visto che siamo vicini di casa».
Nirvana si sistema una ciocca di capelli, resi vagamente elettrici dalla piastra e dal vento, dietro l’orecchio mentre lo guarda stupita, «Non sapevo vivessi con Luke, pensavo che lui vivesse con Colleen».
Ashton alza le spalle e accenna una risata, «In teoria abita con me, ma spesso mi ritrovo a fare il terzo incomodo». Lei rimane in silenzio, continuando a camminare lentamente verso casa, con le buste della spesa in mano; odia quando tocca a lei farla, invece che a Krista. Non sa che dire, infondo con Ashton non ha mai avuto un buon rapporto.
«Dammi le buste, dai, ti aiuto», le dice lui, abbassandosi verso di lei non appena se ne accorge. La castana alza le spalle e scuote lievemente la testa, «Non preoccuparti, davvero».
Ashton non demorde, anche perché vuole sistemare le cose con Nirvana, infondo ne sono passati di anni, non ha senso continuarle a portare rancore. «Su, dai, dammi quelle buste, non ti tocco nemmeno mentre le prendo».
E Nirvana, distratta da quell’affermazione, si lascia sfilare le buste di mano, senza che davvero Ashton la sfiori. «Cosa vuol dire?», mormora sospettosa.
Il ragazzo continua a camminare cercando di stare al passo con lei, nonostante abbia le gambe nettamente più lunghe di quelle di lei e alza le spalle, «Tu hai paura del contatto fisico, no?».
Nirvana tiene lo sguardo fisso davanti a sé, «Tu come lo sai?».
Ashton a quella domanda trattiene a stento una risata e rivolge lo sguardo verso di lei, «Luke non fa altro che parlare di te da quando sei tornata, in pratica sei il suo unico nonché preferito argomento di conversazione».
Lei sente il sangue affluirle alle guance, che le diventano inevitabilmente rosse, cosa che ad Ashton non sfugge; «Parla davvero di me?», mormora imbarazzata e con un sorriso spontaneo sul viso.
Lui sorride sotto i baffi, cercando di mascherare l’espressione compiaciuta, «Oh si, te l’ho detto. Praticamente non parla d’altro».
Il rossore sulle guance di lei si fa più intenso e una strana sensazione si fa strada in lei, è qualcosa di nuovo e strano, però alla fine non è così male; sente il cuore perdere un battito e una voragine nello stomaco, ma è solo che non c’è abituata proprio a sentirsi dire certe cose. È che nessuno l’ha mai trattata in quel modo, quello di Luke. Ma non lo capisce, «Perché?».
Intanto sono arrivati davanti al portone e Ashton fruga in tasca con la mano libera dalle buste di Nirvana, fino a trovare la chiave ed apre; alza le spalle alla domanda di lei, «Questo dovresti chiederlo a lui, credo».
La castana scuote la testa mentre inizia a salire pigramente le scale, in quel condominio l’ascensore è rotto da anni, a quanto le ha detto Luke, e lei detesta questa cosa, per fortuna sta solamente al terzo piano. Poi si concentra di nuovo su Ashton e sulla loro conversazione, ma cambia argomento, «Perché è convinto di non essere una bella persona?».
Il ragazzo si fa immediatamente serio a quella domanda e sa che non può rispondere al posto del biondo, questa è una cosa che solo lui può dirle, se ne ha voglia. Riavvia nervosamente i capelli ricci con la mano e scuote la testa, «Luke è complicato. E questa è una cosa che può dirti solo lui, ammesso che voglia parlarne».
Nirvana sospira, dopotutto sapeva che non gliel’avrebbe detto, però almeno ci ha provato. «Luke non è una brutta persona», ripete convinta fermandosi sul loro pianerottolo, gli occhi puntanti in quelli cangianti di Ashton, serissimi, «Anzi, rincontrarlo è stata la cosa migliore che mi sia successa da quando sono tornata» mormora con la sensazione di essersi esposta troppo.
Il ragazzo le sorride, «Solo lui è convinto di essere una persona orribile».
Attende che lei apra la porta del suo appartamento e le lascia le buste davanti alla porta, senza però entrare e le rivolge un altro sorriso, stupito. ‘Chè la Nirvana Harris di due anni prima, certe cose non le avrebbe mai dette, forse è cambiata per davvero, forse non è così sbagliato darle un’altra occasione.
Lei ricambia il sorriso, ancora leggermente in imbarazzo, «Ti ringrazio, sei stato gentilissimo».
Ashton apre la porta del suo appartamento, «Figurati», fa per entrare ma poi ci ripensa, «Domani sera verso le otto viene un po’ di gente qui, una specie di rimpatriata, ci farebbe piacere se passassi».
 
Nate ha passato metà della sua vita ad odiare suo padre e lo odia tutt’ora, anche più di prima. Il problema è che lui è il fratello maggiore, lui deve essere quello forte, quello razionale, deve, per Euphemia. ‘Chè lei, tra i due, è sempre stata la più impulsiva, sempre quella più fragile, sempre quella che si lascia trasportare di più. E Nate sa che, nonostante lei mostri solo un odio incondizionato del padre, quell’uomo le ha lasciato una ferita aperta, dopo quello ha fatto.
Sa benissimo che lui è il motivo per cui la sorella non riesce ad avere una relazione stabile, a stento un’amicizia che duri; è lui il motivo per cui lei è sempre sfuggente, il motivo per cui ha quella paura matta di innamorarsi. Ed è anche il motivo per cui ha lasciato Ashton, anche se lei non lo ammetterebbe.
E sa che quello che sta per fare potrebbe distruggerla, e si odia per questo, Nate.
«’Mia», la chiama, con il tono affettuoso delle situazioni complicate, «Dobbiamo parlare».
Lei si volta a guardarlo e lascia da parte il tagliere su cui stava preparando la cena, ‘chè lo sa benissimo che quel tono non promette nulla di buono, e si siede di fronte a lui, gli occhi azzurri puntanti in quelli di lui, più scuri di una sfumatura. «Che succede, Nate?»
Lui la guarda, serio, e non può fare a meno di notare quanto somigli a loro madre, con quell’espressione tesa in viso. Deglutisce, «Papà ha chiamato, di nuovo ‘Mia. Vuole vederci, vuole vedere te».
Euphemia rimane a guardarlo fisso, in silenzio. Poi sospira e scuote la testa, «No, Nate, no. Io non voglio vederlo, non posso. Ti prego».
Il ragazzo sente il cuore quasi spezzarsi nel sentirla, con quella voce che inizia a farsi tremante e lo sguardo che si fa lucido, «Mi dispiace ‘Mia. Ma esce dal carcere e vuole vederci appena esce, a cena, non ha ammesso repliche. Mi dispiace, mi dispiace tanto».
Lei lo guarda, con la tristezza e la rabbia mischiati negli occhi, «Come puoi perdonarlo, dopo quello che ci ha fatto? Dopo quello che ha fatto alla mamma?», urla quasi.
Nate si alza e la raggiunge, le cinge le spalle con il braccio e la tira a sé, nonostante sia troppo alto per un abbraccio, visto che lei è seduta. Lei gli circonda la vita con le braccia e affonda il viso nel suo petto, sforzandosi di non piangere a tutti quei ricordi.
«Non l’ho perdonato, non potrei mai, cerco solo di andare avanti. Lo supereremo insieme, te lo prometto».
La stringe a sé e si china per darle un bacio affettuoso sul capo.
E si chiede, Nate, come ne usciranno anche da questa.
 
Luke torna a casa e getta pigramente le chiavi sul mobile dell’ingresso, stracolmo di bollette da pagare e riviste a cui sono abbonati, ancora coperte dal cellophone però. Sulla sedia sono butte le loro giacche, ‘chè a nessuno di loro va di sistemarle, così come le scarpe, lasciate lì accanto ad ingombrare il passaggio. Dovrebbero mettere apposto, Luke lo pensa sempre, ma tanto sia lui che Ashton sono due casinari cronici, il tempo di due giorni e sarebbe tutto come prima.
Ashton, comunque, è uscito di nuovo, lo deduca dall’assenza delle sue scarpe e delle sue chiavi, e anche visto che tra le pareti non rimbombano gli AC/DC come tutte le volte in cui è a casa.
Ad aspettarlo, seduta rigida sul divano azzurro, che a Luke in realtà ha sempre fatto un po’ schifo, c’è Colleen. E lo capisce che qualcosa non va, Luke.
«Ciao», la saluta per poi sparire in cucina a cercarsi qualcosa da mangiare, visto che ha saltato pure il pranzo per studiare per quel dannato esame. Riemerge con un pacchetto di patatine in mano e si lascia sprofondare nella poltrona accanto al divano. Colleen lo guarda, glaciale.
«Ha chiamato tua nonna, ha detto di passare da lei», gli comunica con lo sguardo ancora fisso su di lui, che invece guarda da tutt’altra parte, distratto.
«Okay», biascica a bocca piena, allungandosi per prendere il telecomando della televisione, che sta accanto a Colleen. Lei gli penda la mano fra le sue, prima che possa raggiungere il telecomando, «Cosa sta succedendo, Luke?», continua a guardarlo, lui ritrae la mano. È che si sente a disagio, con la mano intrecciata a quella di lei. Si infila veloce la mano in tasca, dimenticandosi del telecomando, mentre Colleen lascia cedere mollemente le sue sul divano, delusa. Lo sapeva, lei, comunque.
«E’ per lei, non è vero?», gli urla quasi contro e Luke non risponde.
Ma Colleen sa interpretare quel silenzio come un tacito si.
 
«Nirvana, sono Hayden, ancora. Se fai partire un’altra volta la segreteria, mi fai incazzare ancora di più. Dove cazzo sei? Dovresti essere qui a Los Angeles e invece non ci sei. Devi tornare, mi hai capito bene? Devi.
E devi rispondere quanto ti mando messaggi o ti chiamo, è chiaro?
Peggiori solo così la tua situazione, così.
Mi stai davvero facendo incazzare, puttana».
 
 
 

Writer’s wall.
Ehyla.
Sono in ritardo, di nuovo.
Purtroppo quando sono tornata da Torino ho trovato la connessione Internet che non funzionava e sono stata due settimane senza connessione; il lato positivo è che in questo tempo ho scritto ben tre capitoli, quindi, connessione permettendo, i prossimi aggiornamenti dovrebbero essere abbastanza rapidi.
Allora un bel capitolo pieno mh?
Mi rendo conto che Amethyst possa sembrare incoerente e bipolare, ma non lo è, c’è un motivo dietro questo suo comportamento. Ma ci riuscirà a stare lontana da Calum?
Poi veniamo a conoscenza di parte del passato di Michael, del suo cambiamento e della sua amicizia con Rain ed Ashton.
Un dialogo tra Ashton e Nirvana, tra poco si scoprirà perché non andavano d’accordo a scuola e cosa ha fatto lei, anche se lui sembra deciso a non portarle più rancore; soprattutto anche perché nemmeno lei sembra essere tanto indifferente a Luke.
Nate è un personaggio che ancora deve essere approfondito, presto lo farò, ma ha ovviamente a cuore sua sorella; quello che è successo con il padre magari è intuibile da questo capitolo, ma lo scoprirete tra poco, comunque.
Poi c’è un micro momento fra Colleen e Luke, in cui lei sembra capire il suo interesse per Nirvana, poverina, mi fa un po’ pena.
E alla fine abbiamo un messaggio da Hayden, che è davvero uno stronzo.
Non mi dilungo oltre, grazie di aver letto fin qui.
Un bacio,
-Mars
 
  
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