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Autore: Eneri_Mess    23/05/2015    2 recensioni
Uomini e donne, reduci da un’epoca cesellata di leggenda, agiscono per sovvertire le sorti di un mondo ignaro e di sognatori, il cui unico scopo è quello di raggiungere il più famoso e ambito dei tesori, il One Piece.
Ma il nuovo Re dei Pirati, colui che conquisterà ancora una volta ricchezza, fama e potere, sarà solo uno.
« Non peccare di presunzione. Gli eredi sono quattro, i pretendenti molti. Non sarai tu a scegliere chi diventerà Re dei Pirati e come egli – o ella – deciderà il futuro di ciò che resta del mondo »
Dal Capitolo XX:
« Non vedo cosa dovrei ricordarmi di te, Portuguese. Non tratto coi pirati » sibilò in tono velenoso, avventato, ma non riusciva a domare un pulsante senso di ansia crescente.
Quel tipo sapeva il suo vero nome. Quello che lei tentava di insabbiare da anni, e che se fosse arrivato alle orecchie sbagliate avrebbe provocato troppi casini.
Ciononostante, il pensiero sparì, come vapore, dopo aver sentito la “spiegazione”.
« Mi avevi detto che bacio bene. Pensavo che questo fosse qualcosa di bello da ricordare » dichiarò offeso.
Genere: Avventura, Generale, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Heavenly Eve
(Gli Eredi)
 
 
 
- Capitolo XIII -
[Sconfitta]
 
 
 
 
 
 
 
Il Den Den Mushi trillò nella quiete pomeridiana, mentre il sole calava languido oltre le tende degli oblò a bordo della Nightfall.
Buttato scomposto sul letto con indosso i vestiti del giorno prima, Lewis cercò a tentoni e a occhi ostinatamente chiusi la trasmittente sul comodino, riducendola quasi a una frittata per la malagrazia.
« Yaawn- pronto? »
« Lew »
Il moretto sospirò silenzioso, tirandosi a sedere e abbandonando qualsiasi residuo di torpore. Rivolse uno sguardo alla finestrella della sua cabina, notando che la luce era ancora brillante nonostante l’aranciato. I suoi piani prevedevano di godersi le sue beate ore di sonno fino al tramonto come sempre, ma non poteva dire di no a quella telefonata. Anche se sarebbe stata l’ennesima conversazione priva di novità.
« Ian… dove sei? »
« Ho superato Water 7 da un paio di giorni »
Nel grattarsi la nuca Lewis si scompigliò i capelli già disordinati, ragionando.
« A breve dovresti trovarti in prossimità di Long Ring » constatò, occhieggiando l’immensa cartina che occupava quasi un’intera parete della sua stanza. Ritraeva integralmente e nei minimi dettagli tutta la Rotta Maggiore e le isole conosciute. Con gli occhi seguì pensieroso l’itinerario percorso fino a quel momento dalla Mermaids’ Melody. Dalla 74a Divisione, situata nell’isola di Màldia, fino oltre la Metropoli dell’Acqua. Spostando ancora di più lo sguardo lo focalizzò sulla meta ultima di Bryan: Jaya.
« Ti mancano pochi giorni di navigazione per il porto di Mock Town, anche se ti rimane il tratto più imprevedibile con tutte le correnti improvvise e insensate che hanno da quelle parti. Potresti ritrovarti nelle Isole del Cielo senza preavviso » ridacchiò appena, stirando le gambe intorpidite dal sonno per poi riaccoccolarsi come un gatto sulle lenzuola disordinate.
Dall’altra parte l’Erede non raccolse l’ilarità del fratellastro, restando zitto.
Lewis colse l’antifona e contò mentalmente fino a dieci.
« Ci sto lavorando Ian » replicò stancamente e con una pazienza che si chiedeva da dove gli arrivasse. Ormai erano giorni, se non semplici ore, che ritornavano sempre sullo stesso spinoso argomento. « Ma non è così facile avere certe informazioni senza destare sospetti »
Questa volta il respiro pensante fu di Bryan, che sbuffò nel tentativo di sedare la vena di rabbia.
« Non capisco se per te ha la priorità fare il bravo marine o salvare Bonnie » rispose stizzito e con una punta di veleno che malamente riuscì a reprimere.
Voleva bene a Lewis e aveva ancora un enorme senso di colpa nei suoi confronti per non essere stato capace di restargli vicino come si erano promessi. Gli eventi di Salmoa avevano inevitabilmente incrinato i loro rapporti, nonostante più volte il moretto avesse insistito che non fosse colpa loro se erano stati portati via a forza da Irwin. Eppure Bryan sentiva di averlo abbandonato quella volta, di non essere stato sufficientemente forte da gestire la propria vita. Oltre che ad averlo fatto preoccupare per i tre anni successivi in cui era sparito dalla scena così repentinamente come era diventato in un giorno quasi il ricercato numero uno al mondo. In quei tre anni Lewis, incastrato al guinzaglio dell’unico parente rimastogli, aveva combattuto silenziosamente contro la convinzione di molti di ritenerli morti. Non aveva mai ricevuto una lettera, una telefonata, un accidenti di messaggio in bottiglia, qualsiasi cosa che potesse alleviare la sua angoscia nel sentirsi irrimediabilmente solo. Quel vuoto, soprattutto tra loro due, era ancora una voragine in cui guardavano con cautela e che ogni tanto li portava a tacere piuttosto che affrontare il problema.
Ma nonostante i sensi di colpa che stemperavano un po’ la tensione tra i due, Bryan aveva l’orribile sensazione di dubitare di come il suo fratellastro stesse gestendo la situazione.
Bonnie era stata rapita da giorni e lui continuava a giustificarsi affermando che non era facile trovare informazioni.
La sua rabbia mal trattenuta ebbe un ulteriore cedimento.
« Cos’è più importante, Lew? La vita di Bonnie o le medagliette sul petto? » ripeté nervoso, non riuscendo a trattenersi.
Il giovane Capitano Armstrong osservò il lumacofono e come l’espressione di Bryan si riflettesse in questo. Non sospirò nemmeno, essendosi aspettato quella domanda. Strinse le dita sul ricevitore, sentendo che con una lieve pressione in più lo avrebbe incrinato. Ormai mancava poco al tramonto e quel suo lato si stava risvegliando.
« Bonnie » rispose, in tono apparentemente neutro, ma con un formicolio addosso e qualcosa dentro che gli contrasse lo stomaco. « Bonnie è fottutamente più importante di qualsiasi altra cosa. Ma non meno di te, deficiente. Lo siete entrambi, ficcatelo in testa » ribatté tagliente, sentendo in fondo alla gola l’istinto di ringhiare. « Troverò un modo per capire cosa le è successo ma senza che qualcuno venga a sapere che sono in contatto con te e possa usarmi per farti uscire allo scoperto. Hai capito? »
Non voleva risultare brusco, ma se Bryan iniziava a dar retta solo alla collera, abbandonando del tutto il buon senso, non sarebbero durati molto.
Era preoccupato per sua sorella e lo stava sfibrando che Bryan non lo intuisse, non si fidasse. Ma da un lato, non poteva dargli torto, soprattutto perché una scarsa idea su cosa potesse essere la 92a Divisione se l’era fatta. Prima di saltare alle conclusioni aveva però bisogno di tastare meglio il terreno. Non voleva dare false speranze né a sé, né anzitutto a Bryan. 
Dall’altro capo, a bordo della Mermaids’ Melody, l’Erede era rimasto interdetto a fissare con la fronte corrugata il Den Den Mushi. Per quanto tutta quella faccenda lo stesse consumando dentro, tra preoccupazione e una furia cieca, le parole di Lew lo ridussero al silenzio. Non voleva ammetterlo, ma si era tranquillizzato. Stava per obiettare che non doveva pensare a lui, che se gli avessero mandato contro anche un Ammiraglio non si sarebbe tirato indietro, ma si rese conto che non sarebbe stato giusto.
Conosceva Lewis e sapeva che non gli stava mentendo. Doveva avere qualcosa in mente, e gli bastò sentirsi dire che stava pensando a cercare Bonnie per ingoiare altre invettive.
In quei quattro anni era cambiato, era distaccato, appariva più adulto nonostante avessero la stessa età. Usava spesso toni ponderati o totalmente disinteressati, e aveva visto nei suoi occhi muoversi almeno il doppio dei pensieri che esprimeva a voce. Gli mancava il fratellastro gioioso e un po’ saccente, soprattutto da quando aveva visto in cosa potesse mutare, ma ancora una volta si ripeteva che tutto era colpa di quel dannato giorno a Salmoa e che il passato non poteva essere cambiato. Però Lewis era ancora lì ad aiutarlo, lo avvertiva a pelle, e di quella sensazione non avrebbe mai dubitato.
« Prendo il tuo silenzio per un più che sufficiente “Scusa se ho dubitato di te” » concluse il moretto con una nuova nota scanzonata, ma addolcita.
« Scusa » borbottò l’Erede, trovandosi impacciato di fronte allo Snail.
« Acqua passata » concluse il Capitano di Vascello, riprendendo a scrutare con interesse la cartina e l’isola di Jaya come se avesse potuto estrapolarne il futuro. « Hai già pensato a come sarà rivedere tuo padre dopo quattro anni? » chiese, più sovrappensiero che volontariamente.
« Non mi interessa. Questa volta non sbaglierò a colpirlo se ha taciuto qualcosa su questa faccenda » replicò gelido l’altro, senza ripensamenti.
Lewis non si stupì più di tanto del tono. Quello era un argomento delicato quanto la questione di Bonnie.
« Non ammazzarlo » si premurò di dirgli, ma non perché avesse a cuore Irwin. In realtà già prima dell’incidente di Salmoa si ricordava solo vagamente di lui. Lo disse più perché forse poi un giorno Bryan se ne sarebbe pentito. « Dico sul serio. Anche se non ti saprà dire nulla di rilevante, era una strada da battere, ok? »
Dall’altra parte non giunse risposta se non un brontolio incomprensibile. A volte l’Erede era un libro aperto.
« E Bryan… piantala di chiamarmi ogni sei ore. Quando avrò novità sarai il primo a saperlo, ok? I miei uomini cominciano a pensare che mi sia fatto l’amante con tutte queste telefonate » mugugnò, in uno scarso tentativo di far ridere l’amico.
Gli occhi dello Snail si assottigliarono.
« … va bene, tesoro » bofonchiò l’Erede, sforzandosi di stare al gioco. Ma era troppo difficile. Per quanto si trattasse di Lewis, non riusciva a essere così calmo e misurato come lui. A cercare di pensare positivo e non essere impaziente. C’erano momenti in cui credeva di impazzire senza sapere cosa stesse succedendo a Bonnie, di cedere all’angoscia e distruggere qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Avrebbe perfino preferito avere qualche notizia dai giornali, che puntualmente Gloryanne scandagliava da cima a fondo a caccia di indizi, e leggere che avevano fissato un giorno per l’esecuzione o qualcosa del genere. Almeno avrebbe saputo qualcosa e dove dirigere, avrebbe potuto, letteralmente, scuotere le montagne e farla pagare a chi gli aveva teso l’ennesimo affronto. Anche se qualcosa, in fondo, continuava ostinatamente a sostenere che dietro tutto ci fosse il Vice Ammiraglio di quattro anni prima, Shirami. Quell’uomo che sembrava conoscere così bene suo padre e viceversa. Aveva ricordi confusi del giorno al cimitero, ma i suoi gli occhi freddi e folli gli erano rimasti marchiati dentro.
Lewis salutò il fratello e riagganciò il ricevitore, vedendo gli occhietti del Lumacofono chiudersi.
Un istante dopo si tirò in piedi, rapido come un felino, e a piedi nudi raggiunse in due falcate la cartina della stanza. La sua mano stretta a pugno si piantò sulla superficie di tela della mappa, creando un buco nell’esatto punto dell’isola di Màldia. La sua schiena vibrò per il colpo, la testa china in avanti e i capelli nero inchiostro scompigliati sul viso. Non cedette e la parete lignea retrostante scricchiolò, incrinandosi.
Lewis liberò il ringhio frustrato che fino a poco prima aveva trattenuto al telefono con Bryan, sfogandosi.
Ritirò la mano percependo appena le schegge di legno conficcatesi nelle nocche, e guardò con odio il danno alla cartina. Il nome del luogo dove un tempo risiedeva la 74a Divisione, e da dove aveva avuto origine quella pessima situazione, era strappato, ma questo non lo aiutò ad acquietare il nervosismo.
Erano passati una manciata di giorni dal rapimento di Bonnie, eppure lui ancora non aveva avuto indizi se non labili teorie che gli vorticavano in mente senza trovare conferme. A volte avrebbe voluto cedere all’irragionevolezza come faceva Bryan e infischiarsene delle conseguenze, trovando a forza quelle risposte e salvare la sorella.
Poi però si ricordava che il gioco in cui si muovevano era più pericoloso e insidioso di una semplice scaramuccia in mare aperto tra avversari. Ognuno aveva una posizione a gravargli sulle spalle e lui aveva scelto da tempo di poterla sfruttare al meglio per aiutare i suoi fratelli a sopravvivere.
E questo significava essere paziente e tenere i nervi saldi. Il motivo per cui era risultato così odioso persino a se stesso durante la chiamata. Tra loro tre era sempre stata Bonnie quella con la testa sulle spalle, capace di farli ragionare e considerare le situazioni da prospettive diverse, oltre che comprendere la sua situazione in bilico tra la divisa da marine e il loro legame. Ora toccava a lui, se non voleva che Bryan finisse incastrato in qualche subdola trappola architettata alle sue spalle.
Un leggero bussare alla porta della cabina lo fece voltare.
« Sì? » domandò pacato, osservando come le ultime ombre del mobilio stessero morendo sotto i raggi del sole ormai tramontato. La pelle delle braccia e del collo iniziarono a formicolargli in modo famigliare.
« Lewis-senchou… v-volevo avvertirla che siano in prossimità di Marine Ford » avvisò il sottoufficiale, senza azzardarsi ad aprire la porta.
Il moretto piegò le labbra in una smorfia, passandosi le mani nei capelli.
« Avvisate mio nonno che sono di ritorno e occupatevi dei permessi per sbarcare » ordinò.
« Sì signore! » replicò l’uomo e subito dopo il ragazzo lo sentì filare via. Rise, un po’ divertito, un po’ esasperato. Buona parte del suo equipaggio continuava ad avere il terrore di lui appena erano in prossimità del crepuscolo.
Scacciando quel pensiero, tornò a fissare ancora una volta l’enorme mappa rovinata sul muro, questa volta una zona situata nella fascia di bonaccia vicino alla Red Line: Marine Ford, il quartier generale della Marina. Il luogo che più detestava al mondo. Ma anche l’unico che forse poteva fornirgli le risposte che cercava.
Era ora di dare un giro di vite e trovare Bonnie.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Nel tratto di mare
tra Koujin e Port Red Jack.
 
 
 
 
 
« Quanto speri ancora di durare, spadaccino? »
Zoro non rispose, stringendo tra i denti l’elsa dell’ennesima spada che levava contro il suo avversario. Non sapeva da quant’era che stavano incrociando le lame e cosa stesse succedendo intorno a loro di preciso. O dove fossero gli altri. Aveva un brutto presentimento, ma ancora una volta si impose di scacciarlo mantenendo alta la guardia.
Contrasse i muscoli delle braccia, caricando l’attacco ma perdendo istanti utili nell’individuare il suo avversario, reso invisibile dai propri poteri. Kameoshi continuava a farsi beffe di lui usando la propria abilità, forse convinto di poterlo cogliere di sorpresa prima o poi, ma il marimo non gli staccava l’attenzione di dosso, scoprendolo ogni volta.
Fosse stato quello il problema, lo spadaccino dei Mugiwara si sarebbe guadagnato la vittoria con meno sforzo, nonostante l’indiscutibile bravura del suo antagonista.  
Il guaio era un altro.
« Meshishishi » ridacchiò il vice dei Tori Rossi quando il clangore delle lame fu ben udibile. Zoro imprecò, tirandosi indietro con uno scatto che tradì in parte la sua stanchezza.
Con nonchalance il camaleonte ondeggiò di lato, evitando la punta spezzata della sciabola che si conficcò sul ponte. Senza attendere, il biondo, ancora incolore, sollevò e fendette l’aria con un taglio preciso con cui voleva mettere fine allo scontro, aprendo in due l’ex cacciatore di pirati.
Zoro si lasciò sfuggire un verso soffocato, tirandosi indietro e attutendo il colpo con quello che rimaneva dell’arma che aveva in mano. Ma anche il resto della lama si ruppe sotto la pesantezza avversaria. Il sangue gli macchiò la manica della maglia dove la pelle fu lacerata.
« Sei un testardo, spadaccino. È la quarta o la quinta spada che ti spezzo? » lo schernì il vice capitano da un punto imprecisato. 
Il marimo fissò il suddetto punto tenendo a bada l’irritazione, riprendendo fiato e togliendosi l’elsa di bocca. Qualsiasi arma bianca riuscisse a recuperare sembrava troppo fragile contro quella di Kameoshi.
« Restituiscimi le mie spade » ansimò, piegando di lato il collo teso e sentendo la ferita dolere abbastanza da dargli una fitta lungo le tempie. « Così vedrai come ti riduco »
Non giunse risposta. Zoro guardò la porzione d’aria dov’era convinto si celasse il vice capitano, ma un attimo dopo si accorse dell’errore. Flettendo il polso, parò in tempo la mossa improvvisa che l’aveva colto di sorpresa. Uno scricchiolio lo avvertì che l’ennesimo filo si era incrinato, ma ci badò poco. La potenza della botta fu micidiale; data di piatto fu come la spazzata di una mazza, e il Mugiwara sentì il terreno mancargli sotto i piedi. L’urto contro casse e barili poco distanti gli tolse il fiato, oltre che seppellirlo sotto frammenti fastidiosi e taglienti. Un odore dolciastro di birra e frutta schiacciata gli invase le narici, imbrattandogli fastidiosamente i vestiti.
« Meshishishi! Sei ridicolo, Roronoa Zoro, ridicolo! » cantilenò l’avversario. « Non sono uno stupido e dovresti smetterla di sottovalutarci. Per il nostro capo non sei una minaccia, ma questo non significa che io sia uno sprovveduto. So di te, del tuo capitano e di quello che avete combinato finora » chiarì la voce che per la testa tramortita del marimo parve provenire da ogni dove. « Non mi interessa vederti al pieno della tua forza, questa sfida mi sta già divertendo così. E poi non ho intenzione di rovinare delle katane di pregevole fattura che rivendute frutteranno una discreta quantità di berry »
Uno tzé inarticolato fu l’unica risposta. Ignorando le schegge che gli ferivano la pelle, Zoro afferrò le due spade che gli rimanevano, scattando in avanti guidato dai sensi per tenere sott’occhio il nemico. Con la lama ancora sana caricò il colpo d’apertura dall’alto verso il basso, imprimendogli tutta la forza dei muscoli stanchi. Sentì Kameoshi emettere un suono di disapprovazione e puntellarsi meglio sui piedi piccoli, ma inevitabilmente il suo equilibrio divenne precario. Zoro sfruttò l’attimo, preparando il secondo fendente e puntando al collo ora che la difesa era scoperta.
Fulminea, la lingua appiccicosa di Kameoshi stritolò il polso dello spadaccino, bloccandolo. Con una forza che il Mugiwara non aveva previso fu di nuovo rovesciato a terra, incrinando le assi del ponte con un gemito.
Digrignò i denti, ma vide la stoccata avversaria minacciarlo ancora. Rotolando su un fianco evitò la lama invisibile che si conficcò sulle assi della Conqueror, mancandolo di un soffio.
Capì che doveva sfruttare il momento per contrattaccare finché Kameoshi aveva la spada bloccata. Recuperò le due sciabole incrinate e si morse un labbro per tacitare il dolore di ferite e lividi. Doveva riuscire a mettere a segno un fendente che fermasse o rallentasse il vice capitano abbastanza da permettergli di andare a cercare le proprie katane senza avercelo alle calcagna.
Si mosse, tenendo i sensi all’erta per schivare l’eventuale lingua molesta, certo che avrebbe macchiato di sangue le lame, quando un fragore alle sue spalle lo bloccò facendolo sussultare. Il pessimo presentimento che aveva avuto si riaffacciò come un brivido lungo la spina dorsale, ma non poté dargli ascolto quando la Conqueror stessa tremò, oscillando per l’improvviso mare mosso. Molti a bordo persero l’equilibrio cacciando imprecazioni e urla di sorpresa.
Zoro sì appoggiò all’albero maestro per rimanere in piedi, dimenticandosi momentaneamente del proprio scontro. Alzò il capo in alto come molti, come lo stesso ridacchiante Kameoshi, verso l’incredibile visione che aveva seguito l’assordante rumore soprannaturale.
Una colonna d’acqua irregolare si snodava nell’aria poco distante, oltre i parapetti della Supremacy. Il liquido aveva la forma sbozzata di un enorme serpente irrequieto e continuamente sul punto di cedere e ricadere su se stesso.
Ma mentre la maggior parte dei Tori Rossi apostrofò l’innaturale creatura gracchiando superstiziosi, a Zoro si contrasse lo stomaco per il terrore quando riconobbe cosa si agitasse debolmente nella sua bocca. Era una figura dai contorni distorti dall’acqua salmastra, ma il rosso della camicia, i jeans al ginocchio e la zazzera di capelli neri tolsero qualsiasi dubbio allo spadaccino. Soprattutto quando vide le braccia del suo capitano abbandonarsi ai flutti della creatura e tutto il suo profilo essere sballottolato inerte nell’esofago del serpente.
« RUFYYY! » urlò col cuore in gola.
Scattò nella sua direzione, ma nello stesso istante il mostro soprannaturale perse forma e consistenza come il getto di una fontana che viene spenta, precipitando in mare.
 
 
 
 
 
 
Sulla Storming regnava un silenzio rotto soltanto dallo scricchiolio poco rassicurante delle ossa di Sanji.
Ansimante, il cuoco rifilò l’ennesimo giro di calci ai suoi avversari fittizi, facendoli scomparire uno a uno con dei pop che ormai lo irritavano da almeno una venti minuti. Sistemati questi tornò a concentrarsi sul suo reale obiettivo, sbragato a cavalcioni su un cannone con espressione annoiata e beffarda. Il ghigno scolpito in faccia stava minando seriamente i nervi del biondino.
Con lo scatto più rapido che i suoi muscoli chiazzati di lividi avevano da offrirgli, Sanji si preparò a sferrare in testa a Kazuka un calcio che se lo avesse raggiunto avrebbe ribaltato definitivamente la partita. Ma come la parte pessimista del cuoco si aspettava, anche questo attacco venne parato. Due nuove copie dell’uomo sbucarono dal nulla, frapponendosi e facendo indietreggiare il Mugiwara che evitò di pochi centimetri un pugno nello stomaco.
« Hai l’espressione depressa, stecchino! » lo derise l’ufficiale di Oushiza, sventolandosi il palmo della mano davanti per sottolineare il concetto.
Il cuoco sbuffò dalle narici, non sentendosi così incline all’omicidio da molto tempo. Quel tipo l’aveva esasperato, innervosendolo con quel suo atteggiamento altezzoso e senza ancora essersi sporcato davvero le mani nello scontro.
Sanji aveva capito da subito che colpendo le copie con tutta la forza e la rabbia che aveva il danno non si sarebbe trasmesso all’originale. In più quei fantocci comparivano e sparivano a ogni suo cenno, impedendogli di arrivare a cantargliene quattro.
Lo scontro versava quasi totalmente a suo svantaggio. Fino a quel momento era riuscito solo a proteggersi dagli assalti, ma la frustrazione di non essere ancora stato capace di provocargli anche solo un graffio lo stava facendo imbestialire.
Mentre nuove silhouette ghignanti presero a circondarlo e attaccarlo su più fronti, il cuoco cercò di pensare a un modo per ribaltare la situazione e piantare una scarpa in faccia al Toro Rosso.
« Tempo sprecato biondino! » cantilenò Kazuka come se gli avesse letto nel pensiero. « In guerra contano i numeri e tu non li hai! »
« Se ti prendo… » sibilò il Mugiwara.
Ma dovette dargli ragione. Anche se riuscì a evitare la maggior parte degli attacchi, quando si trovò a pararne uno da cui non poteva sfuggire perse secondi preziosi. Due fantocci lo circondarono, assestandogli un pugno ciascuno su entrambi i fianchi. Sanji percepì un sapore disgustoso risalire dallo stomaco mentre sputava di nuovo saliva mista a sangue. Una mano grossa e callosa lo afferrò per i capelli, spaccandogli la faccia sul ponte della nave e togliendogli il fiato.
« Game over » fu quello che il biondo udì fiocamente, con la fronte premuta sul legno. 
Kazuka ghignò, avvicinandosi lui stesso al corpo bloccato e impotente del cuoco. Adorava assestare personalmente il colpo di grazia e pregustò il momento in cui avrebbe sentito il cranio di quel damerino spappolarsi sotto il proprio stivale. Fletté la gamba, gli occhi bramosi, mentre la copia che lo teneva a terra spariva.
Ma la Storming si scosse inaspettatamente, arrestando l’ufficiale dei Tori Rossi. Una vibrazione portata da una spazzata di vento percorse le sartie e gli alberi del galeone, proveniente da oltre la Conqueror e la Supremacy, e fece aggrottare la fronte di Kazuka.
Sanji non ci pensò due volte a sfruttare l’attimo di distrazione. 
Afferrò il nemico per la caviglia e tirò con tutta la forza che poté, sbilanciandolo all’indietro. Mentre questi cadeva confuso, il cuoco si alzò fulmineo, il viso imbrattato di sangue, e senza nemmeno guardalo lo colpì con un calcio al fianco che lo spedì metri lontano.
Malfermo sui piedi per un senso di vertigine che gli rimbombava tra le tempie e la nausea data dagli attacchi di poco prima, Sanji fissò il suo avversario riverso e immobile. Non poteva fidarsi a perderlo d’occhio, ma il suo sesto senso per il pericolo stava richiamando la sua attenzione. 
Guardò verso la Conqueror, ormeggiata tra le altre due navi. Il frastuono che l’aveva animata per tutto il tempo pareva essersi quietato in parte, sostituito da un brusio anomalo. Il cuoco notò come gran parte dei Tori Rossi guardasse verso l’alto, indicando qualcosa che a lui era precluso da vele e alberi.
« … NJI! ALLE SPALLE! »
Istintivamente, e un po’ per l’equilibrio non del tutto ristabilito, Sanji cadde in avanti, attutendo l’impatto con le mani. La gamba tesa di Kazuka spazzò l’aria mancando l’obiettivo, ma nello stesso momento qualcosa esplose vicino a loro, creando una cortina fumogena che invase la Storming.
Il cuoco tossì, cercando di rimettersi in piedi tra le volute che odoravano di spezie, quando due grosse braccia ricoperte di pelo lo agguantarono.
« Sono io! » bisbigliò Chopper nervoso. « Dobbiamo andarcene! »
Preso di peso e senza badare a repliche, il medico portò Sanji oltre il fumogeno e verso il parapetto della nave, mentre alle loro spalle Kazuka sferzava il fumo inveendo nel non riuscire a trovare “lo stecchino”.
Prima che il cuoco potesse chiedere spiegazioni di quel gesto, Chopper mutò forma nel suo Jumping Point e balzò dal bordo della Storming sulla Conqueror, in una zona tra cannoni e casse appartata dalla ciurma ancora col naso all’insù. Usopp li stava aspettando, cereo e agitato.
« Muoviamoci! » strepitò senza fiato il cecchino, ma prima che potessero sgusciare via il cuoco si impuntò. 
« Che sta succedendo!? »
Tutto dell’espressione del Principe Distruttore indicava a chiare lettere “non c’è tempo adesso”, ma qualcosa di molto più grave si rifletteva nei suoi occhi e nelle sue spalle tremanti.
« Oushiza ha vinto e Rufy è finito in mare »
 
 
 
 
 
 
Poco prima…
 
 
Rufy evitò una sciabolata incespicando all’indietro. Due energumeni lo acchiapparono per le braccia e lo spadaccino davanti a lui sogghignò, levando la lama e mirando alla sua giugulare.
I due aguzzini che lo tenevano immobilizzato ringhiarono quando il moretto parò il colpo con la suola dei sandali, usando gli stessi Tori Rossi come appoggio. Prima che qualcuno degli avversari reagisse, il ragazzo di gomma risucchiò l’aria circostante gonfiandosi come un pallone e liberandosi di tutti e tre sfruttando il loro sconcerto.
« Voi non mi interessate » avvertì Rufy, rimettendosi in piedi sul ponte della Supremacy in mezzo ai sottoposti di Oushiza che coprivano quest’ultimo alla vista. Oltre le loro schiene, il capitano era silenzioso ma il moretto era certo lo stesse ancora tenendo d’occhio. Mizu piangeva e si agitava, ma gli scontri circostanti sovrastavano la sua voce.
I Tori Rossi presenti risero, spalleggiandosi nell’apostrofare “l’insetto di gomma”.
L’odore di polvere da sparo era forte e si mescolava a quello ferroso del sangue portato dai lievi sbuffi di vento. I tre grandi velieri dondolavano uno accanto all’altro placidamente sulle acque calme, scricchiolando appena mentre il rumore del sartiame teso faceva da sottofondo alle grida di battaglia.
L’élite di Oushiza caricò di nuovo contro il moretto. Rufy saltò, evitando di essere fatto a dadini, e caricò il suo colpo a frusta con la gamba. Alcuni vennero colpiti, ma nello stesso momento qualcuno lo attaccò alle spalle, sfregiandogli la schiena e aprendo un buco considerevole nella casacca rossa.
Il Mugiwara rotolò via con una capriola, voltandosi per vedere chi lo avesse sorpreso, ma altri tre comparvero ai suoi fianchi, ghignanti. Circondato di nuovo, il moretto tentò di scartare di lato, chiudendo le dita a pugno per il contrattacco, quando finì faccia a terra. Una catena spuntata dal nulla si strinse intorno alla sua caviglia e un fastidioso dolore gli percorse tutta la gamba. Guardando meglio gli anelli metallici, Rufy notò che questi avevano piccoli e affilati spunzoni che gli si stavano conficcando nella carne.
« Non saltelli più in giro come una pulce, eh? » rise il Toro Rosso che teneva la ferraglia. Con le forti braccia diede uno strattone che trascinò Rufy sul ponte alla portata dei compagni. Nel cerchio di esecuzione le sciabole si levarono alte e scintillanti. Il moretto imprecò tra sé, strattonando la gamba imprigionata non badando ai graffi e al dolore.
« Fermi »
L’ordine fu secco e pacato. I Tori Rossi si immobilizzarono come se qualcuno avesse staccato loro la spina, il filo delle spade che catturavano raggi di sole creando giochi di luce sul ponte di legno.
Lo stesso Rufy smise i tentativi di liberarsi, smorzato da un inaspettato senso di inquietudine.
A parlare era stato Oushiza. Il moretto lo intravide tra la giungla di gambe che gli oscuravano la vista. Scorse anche il profilo sottile della Figlia del Mare dimenarsi nella stretta dell’uomo. La udì supplicare, ma il ragazzo di gomma fu distratto dal tremito che percorse la nave. Gli anelli della catena tintinnarono mentre l’odore di salsedine si faceva più pregnante.
« Lascialo stare! È solo un bambino! » implorò Mizu al fianco del Toro Rosso che ancora la teneva stretta a sé, nonostante lei si dimenasse al punto da farsi male.
Mulinelli di vento innaturali le sferzarono il viso e i capelli, facendola rabbrividire non di freddo, ma di terrore.
Poco distante, tanto che le sarebbero bastate appena tre falcate per raggiungerlo, Matt era trattenuto malamente da un sottoposto di Oushiza. Era pallido e spaventato, continue lacrime gli rigavano le guance mentre piagnucolava dei flebili “mamma”, minacciato dal coltellaccio del suo aguzzino che gli intimava di seguire gli ordini del capitano.
« Sei un mostro! » strillò con ribrezzo la donna, colpendo ripetutamente il Toro Rosso che la ignorava. Quando tuttavia cercò di sgusciare via dalla sua presa ferrea sfruttando il proprio potere, questi finalmente si voltò a prestarle attenzione, raggelandola con lo sguardo.
« Tu ora non mi servi » mormorò, occhieggiandola annoiato.
La Figlia del Mare, distratta dalle iridi metalliche e prive di alcuna pietà dell’uomo, si accorse della mano troppo tardi. Un dolore bruciante la colse impreparata. Lo schiaffo vibrò violento contro la sua guancia, mandandola a terra stordita.
Matt singhiozzò più forte, allungando una manina graffiata, ma il pirata lo strattonò, ringhiandogli di stare fermo. E il bambino capitolò quando si ritrovò nell’ombra del capitano. Si fissarono, il piccolo indietreggiando inconsciamente contro le ginocchia di chi lo tratteneva.
« Adesso Matt » iniziò Oushiza, serio e con una calma glaciale che stroncò del tutto le sue lacrime. « Mostrami il tuo potere o farò ancora più male a tua madre »
 
 
Rufy stava strattonando la gamba quando questa quasi gli rimbalzò addosso. Il pirata che teneva la catena la lasciò di botto e si tirò indietro, come i suoi compagni. Quando il moretto fu investito dall’acqua la prima volta non capì cosa stesse succedendo, avvertì soltanto la sgradevole sensazione di perdere energia, oltre che il sapore prepotente di mare invadergli la gola.
Tossì forte, sputando sul legno tutto il liquido che per poco non l’aveva strozzato. Era stata più di una semplice secchiata. Un’onda con la forza di un pugno gigantesco l’aveva preso in pieno e inglobato, per poi implodere su se stessa e lasciarlo cadere carponi sul ponte. Alzando lo sguardo tra la frangia grondante, Rufy trovò il suo avversario in piedi davanti al parapetto. Strinse i pugni quando vide a terra immobile la Figlia del Mare e prigioniero poco più in là un bambino che dedusse essere Matt.
« Non ci siamo » scandì Oushiza, regalando appena un’occhiata a Cappello di Paglia per riportare subito l’attenzione sul figlio. « Hai bisogno di essere motivato? » chiese retorico, increspando sinistramente gli angoli delle labbra e trasfigurando i lineamenti del volto. L’uomo si voltò e, come se si stesse concedendo una passeggiata, raggiunse Mizu, ancora svenuta. La colpì al fianco con un calcio senza che questa potesse difendersi o lamentarsi. Matt urlò e si dimenò per raggiungerla. 
« OUSHIZA! » tuonò Rufy, catalizzando gli sguardi su di sé. Scivolando goffamente sul legno fradicio si rimise in piedi, caricando il pugno.
Il capitano della Supremacy non diede segni di preoccupazione, facendo un cenno con la testa prima di tornare a fissare penetrante Matt. Digrignando i denti, il moretto stava per frantumargli il ghigno quando perse l’equilibrio violentemente, cadendo di nuovo in terra. Uno dei Tori Rossi aveva ripreso in mano l’estremità della catena che ancora gli bloccava la caviglia, frenando il suo attacco.
Sentendo le vene del collo pulsargli per l’irritazione, Rufy si rovesciò schiena sul ponte rivolto verso la schiera di avversarsi che lo stavano intralciando e decidendo di farla finita. Chiuse le dita della mano destra a pugno, portandosi il pollice alle labbra e iniziò a inspirare aria, quando si bloccò.
Un’ombra tremolante e iridescente si stava allargando su di lui. Il suono dello sciabordio dell’acqua era pericolosamente vicino. Il ragazzo di gomma alzò lo sguardo e si trovò il muso enorme e distorto di un serpente senza orbite che lo fissava tremolante. Un brivido gli corse lungo la schiena. Registrò appena il pigolio sfiancato di Matt alle sue spalle e l’apprezzamento di velenoso compiacimento esclamato da Oushiza.
« Fammi vedere come agonizza una scimmia di gomma da trecento milioni, Cappello di Paglia! » rise il Toro Rosso, una luce di vittoria ad alterargli grottescamente la linea fine degli occhi.
Rufy tentò di scappare da quelle fauci, ma la creatura sovrannaturale lo rincorse, sbilanciando pericolosamente la nave che per poco non sbatté contro la vicina Conqueror. Il ponte venne quasi distrutto dal passaggio della mole d’acqua che mandava all’aria botti e cannoni con una facilità raggelante. Gli stessi uomini di Oushiza cacciarono colorite imprecazioni, levandosi dal passaggio.
La corsa del moretto fu breve. Capitombolò per terra quando la catena si incastrò tra i cannoni, strappandogli un verso di dolore per le spine conficcatesi ancora più in profondità. Ma durò tutto pochi istanti. Le fauci del serpente sghembo si chiusero intorno al futuro Re dei Pirati, ingoiandolo tra le acque gelide.
La fiacchezza lo colse subito, invadendogli i muscoli mentre tentava vanamente di trattenere il respiro e si dimenava sentendo gli occhi pizzicare fastidiosamente per il sale. Le figure erano distorte, i rumori, le risate, totalmente ovattate. Preziose bolle gli sfuggirono dalla bocca e i polmoni si tesero, bruciando troppo rapidamente la poca aria.
Tutto si fece brevemente sfuocato e scuro, mentre il pensiero del ragazzo si spense pensando ai suoi compagni.
 
 
 
 
 
 
 
***
 
 
 
Jaya.
Periferia di Mock Town.
 
 
 
L’aria pesante e umida era gravata dall’afa del tardo pomeriggio e dal frinire delle cicale.
Il cielo era arancione rosato dove il sole si apprestava a calare, mentre a est un assembramento di cumulonembi profetizzavano una notte tutt’altro che silenziosa.  
Voltando le spalle all’orizzonte, Irwin riprese il proprio lavoro. Riaccostò diagonalmente l’asse di legno alla finestra e la bloccò con parte del corpo mentre si frugava nel marsupio laterale alla ricerca dei chiodi. Ciocche di capelli color corallo gli finirono fastidiosamente davanti gli occhi, appiccicate alla fronte sudata. Lo sciabordio del mare non era lontano, ed era un richiamo più che invitante in quelle ultime ore di luce, dove i raggi di sole tagliavano l’atmosfera come lingue di fuoco.
Con un sospiro, quasi si fosse arreso ai propri istinti capricciosi, decise che una volta finito il bricolage di salvaguardia della piccola baracca che gli fungeva da casa sarebbe andato a rilassarsi sulla riva, almeno finché il maltempo non fosse esploso sopra l’isola.
Mirò con precisione ai chiodi, e in pochi colpi secchi l’asse si resse da sola, coprendo quasi interamente il sottile vetro sporco di sabbia e salsedine. Quando l’avrebbe tolta sarebbero rimasti dei brutti segni alla struttura, ma almeno non si sarebbe ritrovato con due centimetri di pioggia a invadergli casa.
« Il vento porta aria di tempesta »
Irwin si irrigidì al suono della voce inattesa, stringendo il manico del martello per evitare di farselo sfuggire. Teso, spostò lo sguardo sulla porzione di finestra ancora visibile. L’angolo di vetro gli restituì il riflesso distorto di un volto che non vedeva da anni.
« … e sarà piuttosto violenta » aggiunse il nuovo venuto con un sorriso enigmatico mentre ricambiava l’occhiata attraverso la superficie trasparente.
« Rayleigh » sibilò duro Irwin, ma lasciandosi sfuggire una nota esitante. Si volse, la mascella contratta.
Nessuno dei due disse altro mentre il vento soffiava piano ma costante, spazzando l’erba incolta e le fronde fruscianti, rinfrescando l’aria.
L’uomo dai capelli rossi rabbrividì senza darlo a vedere. La brezza si insinuò sotto il kimono allentato, gelandogli il sudore addosso. Ma si sentì più irrequieto per lo sguardo con cui Rayleigh lo stava osservando.
Forse non se ne rendeva nemmeno conto, ma lo squadrava come se cercasse qualcosa. Qualcosa che gli ricordasse il suo capitano, il suo migliore amico… Gol D. Roger.
Irwin esibì una smorfia infastidita. Per sua fortuna nulla in lui rammentava il Re dei Pirati; i lineamenti del volto, il colore chiaro della pelle e quello dei capelli corallo, tutto tracciava una marcata somigliava con sua madre Coralia e negli anni ciò era stato un vantaggio: nessuno aveva mai sospettato il suo retaggio di sangue.
Distrattosi un attimo, il più giovane non si accorse che l’ex vice-capitano aveva spostato la propria attenzione direttamente ai suoi occhi, fissandolo senza avvertire o preoccuparsi del fastidio che gli stava provocando. Rayleigh sorrideva costante, con quel suo modo di fare provocatorio.
« Per essere uno che odia i pirati Mock Town non mi sembra il luogo migliore in cui vivere » celiò in tono leggero per spezzare il silenzio.
« Che cosa vuoi? » domandò brusco Irwin.
L’espressione del nuovo venuto si irrigidì nelle rughe intorno agli occhi e nella linea delle labbra, benché la sfumatura nella voce rimanesse la stessa.
« Da quant’è che non senti Bryan? » ribatté dritto al punto, lasciandolo interdetto.
In contropiede, il padre dell’Erede sbatté un attimo le palpebre, disorientato, prima di ritrovare il tono duro, ma venato di amarezza.
« Sai benissimo che non parliamo » replicò con acredine. « Che cosa vuoi? »
Per tutta risposta il vecchio vice-capitano si frugò nel mantello logoro da viaggio, tirandone fuori un giornale sgualcito che lanciò a Irwin.
« È di qualche giorno fa » specificò l’ex pirata.
L’uomo coi capelli rossi distese la prima pagina e le grandi lettere del titolo gli rimbalzarono di prepotenza in testa, facendogli aggrottare la fronte. Si sentì fuori posto quando un nostalgico sentimento di preoccupazione gli strinse la bocca dello stomaco. Lo sguardo di Bryan nella nuova foto segnaletica era furioso, carico di odio, un’occhiata ancora più aspra di quella che gli aveva riservato l’ultima volta che si erano visti, quattro anni prima.
« Cosa c’entra questo con me? » domandò tristemente Irwin dopo una lettura veloce dell’articolo senza trovare altro che accuse su accuse. Per quanto potesse fargli male leggere dei guai combinati da suo figlio, era fuori dalla sua vita, da molto prima dell’incidente di Salmoa. Aveva imparato a reprimere i sensi di colpa dopo tutto il rancore che gli era stato riversato addosso quando aveva maldestramente tentato di salvarlo. Non sentiva di avere nemmeno il diritto di pensare un qualsiasi giudizio nei suoi confronti.
Rayleigh non parlò subito. Guardò a sua volta il giornale con un’espressione abbastanza cupa da tradire il suo senso di irrequietezza.
« Mi ha scritto Eve » iniziò, guardando di sottecchi l’altro uomo e la sua reazione a quel nome. Come previsto, Irwin spalancò gli occhi, serrando la mascella e accartocciando le pagine stampate tra le dita. « Pensa che dietro questo colpo di testa di Bryan ci sia Shirami »
Lontano, il cielo rumoreggiò. La tempesta sembrò più vicina di quanto previsto, eppure nessuno dei due se ne preoccupò.
Il figlio di Coralia non guardava da nessuna parte in particolare, continuando a stringere in una mano il martello e nell’altra il giornale, distinguendo nitidamente in sé un moto di collera attraversalo come non succedeva da tempo.
« Sono fuori da questa storia, Rayleigh » disse poco dopo, fremendo. « E se le cose fossero andate diversamente, anche Bryan e Bonnie lo sarebbero. Nessuno di noi tre meritava questo » e nel sottolineare le sue parole buttò in terra il giornale, guardando le pagine sfogliate dal vento e la prima incriminante volare via. Ma il solo gesto non bastò a dissipare il nervosismo, la consapevolezza di essere impotente. « Eve non avrebbe dovuto trascinarci nei suoi problemi » sputò in fine, regalando a Rayleigh un’occhiata di disgusto e amarezza.
Occhiata che il vecchio vice-capitano non prese bene. In un lampo, neanche fosse stato lui la tempesta in arrivo, l’uomo brizzolato si portò ad appena un palmo di naso dal suo interlocutore, piantandogli addosso uno sguardo che lampeggiava avvertimenti chiari e coincisi.
« Bada a come parli, Irwin » scandì, modulando le sillabe per marcare al meglio la serietà insita in esse. « Né tu, né i tuoi figli, né lei avete colpe di questa situazione »
« Ah sì, Rayleigh? E di chi sarebbe? » l’apostrofò aspramente l’uomo dai capelli corallo, spinto dal risentimento. « Perché non mi pare che qualcuno di voi abbia fatto qualcosa di concreto per riuscire a fermare Shirami in questi vent’anni! » continuò con l’insana voglia di brandire il martello. Odiava i pirati. Portavano solo sciagure, e questo gli rammentò da chi tutto fosse cominciato. « Roger ha scelto di morire – e nonostante un lampo di livore nello sguardo del più anziano non demorse – perché non ci credo che non potesse svignarsela anche quella volta! Invece si è fatto giustiziare per diventare il simbolo di questa era sanguinaria! E ha lasciato che io, Bryan e Bonnie diventassimo dei capri espiatori! »
L’ex vice-capitano tacque, non tanto perché non sapesse cosa rispondere, quanto perché era chiaro che abbattere il muro di convinzioni dietro cui si rintanava Irwin fosse inutile. In tutto quel tempo ancora non era riuscito ad accettare il sangue che gli scorreva nelle vene, prendendolo esclusivamente per una condanna. E purtroppo non spettava a Rayleigh fargli cambiare idea, oltre al fatto che in parte avesse ragione. Ma non era lì per rivangare vecchi discorsi che non avrebbero mutato le cose. Roger non c’era più e lui si era ripromesso di prendersi cura di quelli che aveva lasciato.
« So che in questi quattro anni sei rimasto in contatto con Bonnie » cambiò discorso il poco gradito ospite, rilassando le spalle e lasciando intuire che non sarebbe tornato sulla questione di prima. « È più che probabile che lei sappia la verità dietro quanto accaduto »
Irwin faceva fatica a farsi passare l’arrabbiatura così facilmente come l’uomo brizzolato. Avevano rivangato un discorso che per lui non avrebbe mai trovato una ragione pacifica, non quando si parlava delle sue origini e di come essere il figlio del Re dei Pirati gli pesasse addosso.
Rimase in un silenzio nervoso, sperando di troncare quella conversazione, ma lo sguardo di Rayleigh era penetrante e il cielo sempre più nuvoloso sembrava gli stesse mettendo anch’esso fretta.
Alla fine fu di nuovo l’ex vice-capitano a prendere la parola.
« Bryan e Bonnie stanno venendo qui »
Era maledettamente coreografica la sequenza con cui i tuoni rimbombavano e i fulmini squarciavano il cielo sull’orizzonte. Iriwin sentì un brivido fargli venire la pelle d’oca e la spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco farsi più pressante. Il pomeriggio stava diventando sempre più tetro e stava acquisendo una piega che non gli piaceva.
« Perché da me? » domandò rocamente, sentendosi improvvisamente fiacco. Non sapeva se era pronto a rivedere i suoi figli, gli stessi che aveva abbandonato e deluso più volte e che ora, nonostante le avversità, sembravano aver intrapreso quella stessa strada che lui aveva rifiutato in gioventù, la stessa vita di suo padre… quella che lui detestava e rifuggiva dal profondo.
« Non lo so » ammise Rayleight, apparendo stanco per la prima volta dall’inizio di quella conversazione. « Non sono riuscito a mettermi in contatto con loro, così sono venuto direttamente qui » spiegò, lasciando vagamente sconcertato Irwin sul come fosse riuscito a coprire una così lunga distanza in poche ore. Ma non indagò oltre, non trovando interesse.
Se i suoi figli stavano realmente dirigendo verso Jaya per lui, si sarebbe dovuto preparare a tutto il rancore che era certo non fosse scemato in quegli anni.
Il rombo del nuovo tuono fece vibrare le travi inchiodate alle finestre. Le nuvole erano ormai color del piombo, mentre Irwin poteva sentire lontano l’incresparsi furioso delle onde sotto la scogliera.
« Le tempeste da queste parti sono sempre molto simili » mormorò sovrappensiero l’ex vice-capitano, spaziando con lo sguardo la linea burrascosa dell’orizzonte. « Ma temo che questa volta non ti basteranno delle semplici assi » continuò con un mezzo sorrisetto, bussando con le nocche sul legno trasversale.
Irwin respirò forte, cogliendo l’amara allusione con un’occhiataccia. 
 
 
 
To be continued

 
 
 
 
 
 
 
 
 
Significato dei termini:
- Nightfall: dall’ing. “imbrunire, crepuscolo”
- Màldia: dal portoghese “brutta giornata”. Non è stato un giorno piacevole per la 74° Divisione…!
- Senchou: dal giap. “capitano”  
 
 
 
 
 
 
 
Note al capitolo & dell’autrice:
Gli aggiornamenti non sono mai regolari, ma continuo a pensare a questa storia tutti i giorni! Giusto nel prossimo capitolo ci saranno delle new entry by Oda…!
Questo è pieno di punti di vista differenti, spero non troppo confusionari! Sono tornati Lewis e Bryan che non si facevano vivi dal terzo capitolo, anche se sull’Erede si è parlato diverse volte. Dura essere famosi! Dopo di loro è di nuovo il turno dei Mugiwara che, nonostante io salti continuamente di palo in frasca, sono i reali protagonisti di questa storia. Zoro, Sanji e Rufy alle prese con i Tori Rossi per eccellenza. Ogni tanto va male anche a loro (credo che fossi ispirata da Water7/Enies Lobby quando l’ho pensato). Il tutto si conclude con Rayleigh e il ritorno di Irwin, con discorsi non proprio felici. La trama della storia è iniziata, ma sottilmente… stay tuned.  
 
 
Grazie a jillianlughnasad, che tiene duro nella lettura, sempre con entusiasmo =)
Ehi, lettori anonimi, spero che la storia vi piaccia #.# O se è il caso di lasciar perdere *cry*
 
 
 
 
Noticine:
 
- Lewis Armstrong e la Nightfall: torna il figlio di Giulya e uno dei personaggi con cui si è aperta questa storia. Il suo ruolo va intensificandosi nei miei progetti, e in questo capitolo ho lasciato in giro qualche altra traccia su di lui, dai ricordi che ha Bryan a quel “qualcosa” in cui si trasforma che terrorizza i suoi uomini. Nulla di preoccupante, tranquilli… ma ho lasciato un po’ di suspance! Qualche indizio, se lavorate di immaginazione, lo trovate nel Capitolo 3!
La Nightfall è la sua nave. La descriverò meglio più avanti. Riguardo alla sua carriera, è un Capitano di Vascello, il più giovane al momento (dato che ha 17/18 anni), e tutti sanno che ha avuto questo grado solo perché suo nonno è molto influente. Lewis non ha detto di no alla promozione: più è alto in grado, più sa che potrà coprire Bryan e Bonnie. Insomma, a lui della Marina non frega nulla.     
 
- Jaya, Mock Town: torna l’isola da cui i nostri partirono per Skypiea. Qui vive Irwin ed è appunto l’isola verso cui si sta dirigendo Bryan dopo il casino a Màldia. Dovrei proprio disegnarla una cartina! Il perché di questo luogo sarà funzionale per un pezzo di trama più avanti ~ per la serie, nessun dettaglio è irrilevante!
 
- Màldia: non avevo ancora nominato il nome dell’isola su cui si trovava la 74° Divisione distrutta da Bryan. Non che sia davvero rilevante…! Si questo è un dettaglio trascurabile *lol*
 
- Mugiwara Vs Tori Rossi: continuano gli scontri. Non sono convinta di tutte le descrizioni che ho fatto, mi risultando tediose… spero di rifarmi meglio più avanti. Zoro senza le sue spade si trova davvero in difficoltà. Sanji idem data l’abilità del suo avversario. Rufy… be’ Rufy ha forse un po’ troppo giocato con gli uomini di Oushiza, finendo male.
 
- Matt & l’Aqua Morphos: avevo parlato dell’abilità di Matt nei capitoli in cui comprare Mizu, ma qui lo si vede in azione creando questa specie di serpente d’acqua che si mangia Rufy. Ci tengo a precisare che nei giorni in cui è stato prigioniero di Oushiza non ha avuto vita facile: il padre lo ha terrorizzato e lo ha spremuto per fargli vedere questa abilità. Ma ne parlerò meglio nel prossimo capitolo in cui si capiranno le intenzioni del Toro Rosso. Intanto la madre non se la passa per niente bene. Ma in generale nessuno se la cava alla grande ‘sto giro. *fugge*
 
 
 
Fine del supplizio anche questa volta. Io mi emoziono, non so voi, ma ogni tanto mi scoraggio anche dopo aver riletto lo stesso capitolo tremila volte per aggiustarlo. Il prossimo non ho davvero idea di quando lo scriverò…
 
 
Bacioni!
Nene
 
 
 
   
 
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