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Autore: aturiel    30/05/2015    5 recensioni
"«Dobbiamo smetterla, non possiamo più farlo. È peccato, lo sai» disse Arunte, non guardando negli occhi il suo amante.
«Non mi sembra ti interessasse fino a cinque minuti fa».
Arunte quindi lo fissò con aria truce e gli sibilò: «Andremo all'Inferno, tu e io, per questo, se non ci fermiamo e pentiamo in tempo. E io vorrei almeno avere la possibilità di non patire pene per l'eternità» e, detto questo, fece per andarsene. Ma Rinaldo lo afferrò e lo costrinse a girarsi verso di lui e lo baciò. Forse era per quello che gli era successo, per il suo passato, che ormai era sicuro che sarebbe andato all'Inferno comunque, con o senza Aru. E pensare che, però, avrebbe avuto forse la possibilità di andarci con il ricordo di quegli occhi celesti nella mente, gli faceva bramare ancora di più il contatto con l'altro."
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Terza classificata al contest "Tempo di... Tag! Third Edion" indetto sul forum di EFP da Ili91
Partecipa al contest "I only write free!" indetto sul forum di EFP da MissChiara
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Haruka Nanase, Nagisa Hazuki, Rin Matsuoka
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Mille anni, poi altri cento'
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13 Luglio 1293 – Perugia

Rin scattò di lato quando la donna fece per trafiggerlo, e scattò di lato ancora una volta quando ella provò ad afferrarlo per i capelli, mancato il primo tentativo. Sussurrava qualcosa, sua madre, qualcosa che assomigliava tanto a una nenia folle. Inizialmente il ragazzino non riusciva a capirne le parole, ma, appena si accorse del sangue luccicante su quella lama che non si sarebbe mai neppure dovuta vedere, collegò ogni cosa e comprese finalmente ciò che la donna andava dicendo: «Amore mio, amore mio... è per te, solo per te: non soffrirai più, bambino mio». Gli occhi si spalancarono, i muscoli si indurirono, la paura lo possedette completamente. Colpì le dita conosciute e quella fu costretta ad abbandonare il coltello; si avventò quindi al collo del figlio che però, afferrata la lama corta che era appena scivolata dalle mani della madre, la infilò sotto il suo sterno, uccidendola.

Rin e Aru si diressero in piazza con tutto il resto della popolazione: come tutti, erano curiosi di sapere chi sarebbe stato il condannato e quale fosse il suo crimine; non erano molti i crimini punibili con la morte, anzi, non erano nemmeno necessarie tutte le dita di una mano per contarli: tradimento, omicidio (ma di quello nessuno se ne curava troppo, a meno che fosse ucciso un personaggio particolarmente importante da un uomo qualsiasi) ed eresia.
Ad Arunte non erano mai piaciute troppo le esecuzioni, e Rinaldo non vi aveva mai partecipato. Era la prima volta che si recava in piazza per vedere una cosa simile, ma quella volta non aveva voluto lasciar andare solo Aru, soprattutto dopo la paura che aveva preso sentendo il dialogo dei due uomini il giorno prima.
Decine e decine di uomini e donne si accalcavano intorno al palco di legno allestito al centro, bambini lerci e magri iniziavano a girare tra la folla, con il palese tentativo di rubare qualche spicciolo dalle tasche degli spettatori e, ogni volta che erano troppo lenti a fuggire o troppo maldestri per non farsi vedere al momento del furto, venivano colpiti sul viso tanto forte da farli quasi svenire. La situazione era sempre la stessa, ogni esecuzione era uguale a tutte le altre, ma quella destava parecchia curiosità, prima di tutto perché a volerla era stato lo Zoppo, secondo perché nessuno conosceva l'identità del condannato.
Trascorse qualche minuto che entrarono in scena Carlo e la sua schiera di soldati. Un uomo era trascinato in catene dietro di loro, i capelli mossi e scuri incorniciavano un viso scarno che, una volta, doveva essere stato piuttosto bello con i suoi lineamenti duri e affilati, ora coperti da una barba incolta e da numerose ferite. Sotto tutta quella sporcizia, nessuno lo riconobbe, nonostante fosse un viso piuttosto noto a Perugia e, solo quando Carlo lo Zoppo disse il suo nome – il conte di Acerra -, si levò un boato di stupore. Ma ce ne fu uno ancora più alto quando venne annunciato il suo crimine: sodomia.
Rin sentì la testa girare, e solo la spalla di Aru contro la sua gli impedì di crollare al suolo come un pesante rotolo di stoffa. Il caldo era opprimente, il suo sguardo si stava offuscando e sentiva il peso del suo corpo farsi sempre più pesante. La gente intorno a lui gridava insulti contro l'accusato, ma quello non si faceva intimidire: non piangeva, non implorava pietà, se ne stava solo lì, rassegnato, aspettando con nobiltà la sua fine.
Quindi Carlo Martello diede il segnale al boia di procedere: quello prese un palo di legno con la punta acuminata e strappò gli abiti lerci dell'uomo. Solo dopo un po' Rin si rese conto di ciò che stava per accadere, e fu troppo tardi per distogliere lo sguardo: l'uomo venne trafitto da dietro, dalla parte del corpo con cui aveva commesso il suo peccato e così lacerato letteralmente a metà. Le sue urla erano così terribili e animalesche che, per tutta la procedura, la folle rimase in silenzio, congelata. Quando il palo raggiunse la testa e infine morì, dopo qualche altro singulto, il boia accese un fuoco e iniziò a bruciarlo.
Le fiamme lambivano il cielo, eppure, nonostante tutta la luce che emanavano non pareva a Rin altro che buio: tutta la sua vita era stata segnata da buio e luce; ogni momento di felicità e speranza era avvenuto con la luce: il coltello con cui si era salvato la vita era stato come illuminato dalla luce della Luna inesistente, quando era stato accolto per la prima volta da Giuliana e Aru, la casa era illuminata, ogni volta che aveva posseduto Aru o era stato posseduto da quello era avvenuta alla luce del sole, sotto la finestra della sartoria, quando aveva salvato il garzone Lucio dal suo linciaggio, tutto aveva conquistato la giusta atmosfera proprio grazie alla candela accesa dal ragazzo, spentasi poco dopo dal vento. Ogni cosa bella della sua vita era stata dominata dalla luce, e lui ringraziava Dio per questo; al contrario ogni volta in cui aveva subito del male, era successo al buio, a partire dal tentato omicidio di sua madre, la morte del fratellino, il vagare per le strade per tre giorni e tre notti senza cibo né riparo. E anche questa condanna gli sembrava quanto più nera potesse essere, anche se il fuoco cercava di farsi strada nelle tenebre.
A un tratto Aru allungò una mano a stringere forte le sue dita. Il suo volto era sconvolto, i lineamenti contratti e gli occhi gelati in un'espressione di orrore e paura. Eppure stava stringendo la mano del suo Diavolo; nonostante si sentisse in colpa per ciò che provava, stava aggrappato alle sue dita come se fossero l'ultima possibilità di salvarsi. Rin avrebbe voluto abbracciarlo, ma di certo non avrebbe fatto una cosa così stupida all'interno di una folla così esaltata dall'odore della carne bruciata e del sangue appena sparso. Quindi si limitò a stringere a sua volta la mano di Aru, sperando che nessuno dei due cadesse al suolo.
****
Quella notte, nella sartoria, alla debole luce della candela che Aru teneva sempre a portata di mano, il giovane dai capelli bruciati dal Diavolo e quello dagli occhi toccati dalle dita celesti del Signore fecero l'amore. Il primo tentava di consolare l'altro, di placare le sue paure con i suoi tocchi sicuri, l'altro tremava, diceva che stavano commettendo peccato, che sarebbero morti nello stesso modo atroce del conte. Pianse persino, cosa che non era mai accaduta da che Rin lo conosceva: mai una lacrima aveva bagnato quelle bianche guance, neppure di dolore o di rabbia. Il suo volto gelido si era completamente sciolto, pareva perduto e spezzato, sconvolto.
Rin, mentre usciva da lui, si chinò per baciarlo, ma lui si ritrasse, voltando il viso. Il giovane tentò nuovamente, ma nemmeno questa volta ci riuscì; quindi Aru gli disse, con il fiato rotto per il troppo ansimare: «Questa è l'ultima volta, Rin».
«Lo hai detto tante volte, ma ce n'è stata sempre una seguente».
«Questa volta non ce ne sarà».
Rin si alzò di scatto, quindi chiese: «Forse che ciò che è successo oggi ti ha a tal punto spaventato?»
«Non voglio morire in quel modo...»
«Nemmeno io, e non moriremo così. Io lo impedirò» disse risoluto.
«Quello... quello che facciamo è peccato, è innaturale, è un morbo incurabile» rispose, volgendo lo sguardo altrove, come faceva sempre quando era in imbarazzo.
«Credi davvero sia tanto male? Ti distrugge così tanto?»
«No, ma il Diavolo tenta sempre con cose che noi uomini possiamo desiderare».
«Quindi mi desideri quanto io desidero te».
«Tu sei il mio Diavolo».
Rin, a quelle parole, scosse la testa, irritato: era sempre stato chiamato Diavolo per via dei suoi capelli, sentirsi chiamare così dalla persona che amava per la seconda volta, lo fece adirare.
«Tu desideri me o il mio corpo?» chiese allora, fissandolo dritto negli occhi.
«Io non lo so» rispose. Ma quando tentò di volgere nuovamente il viso verso un punto imprecisato della stanza per evitare il suo sguardo, Rin gli afferrò forte il volto e lo costrinse a incrociare i suoi occhi.
«Io entrambe le cose. Ma non perché sei un uomo, ma perché sei tu. T'amo perché sei tu, semplicemente tu» e, dopo queste parole, uscì dalla stanza, sbattendo la porta.
****
Da due giorni ormai Aru non gli rivolgeva la parola, e da due giorni Rin si sentiva morire. Era peggio di quando aveva smesso di sentire il respiro di suo fratello, peggio della lama tra le dita sottili e callose di sua madre, peggio di tutto. Una lancia dolorosa si era infilata nel suo ventre e lo stava percorrendo tutto, fino a raggiungere il cuore. Era adirato con Aru per tutto ciò che non gli aveva detto, ed era adirato con se stesso per ciò che invece gli aveva confessato. Come spiegargli che non aveva mai sentito attrazione per nessuno? Come spiegargli che per lui era come il fratello che aveva perso? Come?
Non comprendeva, semplicemente. E lui era troppo orgoglioso forse per ripetere ciò che gli aveva detto due notti prima. Eppure, nonostante tutto, le urla del conte di Acerra erano ancora troppo impresse nella sua mente per non capire perché Arunte fosse così spaventato. Non poteva forzarlo ancora, non poteva costringerlo, ma il suo corpo ne sentiva la mancanza e a mala pena riusciva a trattenersi dall'obbligarlo a entrare nella sartoria e fargli ciò che desiderava.
Si evitavano palesemente, e anche Giuliana se ne accorse: la terza volta che Rin tornò dal magazzino con la stoffa sbagliata perché non si era prima consultato con Aru su cosa avrebbe dovuto prelevare, la donna perse la pazienza e li rinchiuse, come fossero due bambini, nella sartoria dicendo: «Io ho bisogno delle tue dita, Arunte, e delle tue braccia, Rinaldo. Ma se le braccia e le dita fanno cose diverse, tanto vale che me le amputi entrambe. Chiaritevi e, solo quando l'avrete fatto, uscite. Non voglio litigi inutili dentro questa casa, sono stata chiara?» e, detto ciò, uscì dalla porta.
La luce del sole non filtrava, quella volta, attraverso i vetri e non illuminava gli occhi celesti di Arunte come faceva di solito. Le nuvole scure lo coprivano e la stanza era semi-buia. Passò quasi mezz'ora prima che uno dei due iniziasse a parlare, e toccò a Rinaldo prendere per primo la parola: «Giuliana ci ha detto di chiarire, quindi chiariamo».
«Io non ho niente da dire».
«Io ho già detto tutto» rispose Rin, e, vedendo che l'altro non dava segni di voler parlare, aggiunse: «Credi che non abbia paura anche io, che io sia in qualche modo immune da tutto ciò? Credi forse che l'esecuzione di tre giorni fa non mi abbia sconvolto, o che non tema anche io l'Inferno?»
«A volte lo penso».
«Bene, ti sbagli. Io ho paura di tutto ciò, e tanta. Ma visto che ho già commesso abbastanza male, da piccolo, non credo che qualcuno potrebbe mai impedirmi di finire la vita sulla Terra in modo violento e di continuarla, nell'aldilà, come dannato».
«E tu, che dici di amarmi, non temi per me, invece?»
«Certo, ogni giorno».
«E allora lasciami in pace» rispose, guardando in basso.
L'altro si passò una mano fra i capelli: «Sei sicuro che, facendo ciò che mi chiedi, tu sarai felice?»
«Non lo sarò, ma forse mi salverò».
Rinaldo si sentì tutto d'un tratto egoista: come aveva potuto evitare di pensare ad Arunte? Lui che aveva sempre sostenuto di amarlo, come faceva a non rendersi conto di ciò che gli aveva causato?
«Ti lascerò in pace, ma promettimi che non smetterai di parlarmi, questo almeno, te ne prego» chiese, con il volto scuro.
«Lo farò. T'amo Rin, solo ora, e poi mai più».
«T'amo anche io, Aru, ora e per sempre» rispose.
****




1306 – Perugia
Un giovane dai rossi capelli piangeva su un tumulo di terra. Urlava, batteva i pugni al suolo, adirato con il mondo, con se stesso, con il defunto e con Dio. Era morto un uomo, due giorni prima, un uomo dai neri capelli e dagli occhi celesti come il cielo primaverile, un uomo che da anni lavorava in sartoria e che era riuscito a mantenere le dita sottili e delicate come quelle di un bambino. Un drappo bianco aveva coperto il suo corpo e lui solo stava piangendo sulla sua tomba: era morto suicida, troppo angustiato da turbamenti religiosi e di carne.
Si era gettato sulla lama matricida e si era trafitto il cuore, quello stesso cuore che, il giorno precedente, lo aveva spinto a toccare e a possedere ancora una volta il corpo di un uomo. Con freddezza aveva abbandonato il mondo terreno, forse preferendo essere condannato all'Inferno per essersi tolto la vita che per aver amato e desiderato qualcuno che non poteva dargli figli, facendosi dunque chiamare sodomita.
Aveva dichiarato di amare colui che piangeva, solo, sul suo luogo di sepoltura e, ora che finalmente lo aveva dimostrato, aveva deciso di porre fine ai morsi della coscienza e alla sua vita con la stessa lama che, anni prima, la vita del suo amato aveva salvato.
E l'amato piangeva e urlava, sopra quella tomba, perché sapeva che, con l'amante, ogni ombra di luce sarebbe svanita per sempre dalla sua vita.












 

Note autrice:
In Italia la prima attestazione dell’uso del fuoco per punire i peccatori “contro natura” risale al 1293. In quell’anno, a Perugia, Carlo II d’Angiò, in viaggio col figlio Carlo Martello verso la corte papale di Roma, fece arrestare il conte di Acerra, verso cui provava aperta ostilità. Accusatolo di essere un sodomita (un’accusa, verosimilmente, infondata), lo fece impalare e «come un pollo il fece arrostire». In questo caso il rogo è abbinato al supplizio del palo, non è ancora considerato il metodo migliore per punire chi si macchiava del crimine “contro natura”.
Non era immaginabile l’espressione “essere omosessuale”, semmai si parlava di “chi pratica il peccato di sodomia”. Anzi, a ben vedere, non si osava nemmeno parlarne più di tanto. In generale, come mette in evidenza Michel Foucalt (il primo a occuparsi della sessualità dell’uomo medievale), l’esperienza dell’uomo omosessuale dell’Occidente moderno non è nemmeno confrontabile con chi, in altri luoghi e in altre epoche, aveva rapporti omosessuali. Indubbiamente, l’autoidentificazione ha un ruolo assai rilevante nel definire il comportamento sessuale di una persona, ma è anche chiaro che l’omosessualità come la intendiamo oggi poteva esistere anche senza un nome che la definisse. Quando gli autori medievali si riferivano alla «sodomia» intendevano riferirsi al rapporto sessuale tra maschi, non al legame affettivo omosessuale.
L’esame di alcuni processi dell’inquisizione nella Francia meridionale indica che gli imputati non avevano avuto problemi nel trovare partner sessuali, alternando senza problemi ruolo attivo e passivo. Pare dunque che la canonica distinzione attivo/passivo, cara alla cultura classica, non facesse molta presa sulla cultura occidentale dell’epoca. Del resto anche nell’ambiente cavalleresco tale distinzione non emerge mai. Potrebbe essere una conseguenza del fatto che, poiché la Chiesa comunque condannava la sodomia, chi sceglieva, a proprio rischio, di praticarla, non doveva aver presente la distinzione attivo/passivo, quanto semmai il rischio connesso con la pratica di un’attività severamente punita qualora scoperta.
Per questo motivo, nell'ultima parte, anche se ho usato lo stesso verbo al participio una volta attivo e una volta passivo per riferirsi all'uno e all'altro, non lo faccio nel senso di ruolo sessuale, ma per semplice comodità.
Quando faccio menzione della “nebbia negli occhi”, sto in realtà citando Omero: lui era solito usare quest'espressione quando un uomo stava per morire, ed è proprio questa la sensazione che prova Rinaldo vedendo la condanna del conte di Acerra.

Per quel che riguarda invece questa storia in genrale... beh, ammetto che è stato davvero bello scriverla. Il Medioevo non è uno dei miei periodi preferiti, e d'altronde il clima che c'era non è il migliore in cui si potesse vivere, ma nonostante tutto non poteva mancare in questa serie. 
L'ultimo capitolo è arrivato anche per questa seconda mini-long, tanto che posso dire di essere arrivata a metà dell'opera, anche se le prossime due saranno probabilmente ancora più difficili da scrivere, la prima perché sarà ambientata in un luogo e in un tempo che non conosco molto bene e che non ho ancora trattato a scuola (ma tranquilli, mi informerò come sempre, nella speranza di non dire troppe stupidaggini), la seconda perché il luogo dovrò inventarlo totalmente io... e scoprirete perché.
Quest'estate mi cimentrò nella terza mini-long, in cui voglio riprendere una long passata già iniziata tempo fa, ma poi lasciata morire per mancanza d'ispirazione e di tempo e perché la trama stava andando in una direzione troppo diversa da quella che mi ero immaginata. Sarà divertente, o almeno spero, e forse un poco più lunga del solito.
Inoltre voglio anticiparvi un progettino che mi ha fatto venire in mente una lettrice che ha recensito lo scorso capitolo (shironeko65), ovvero quello di fare anche una raccolta di shot, per la precisione quattro per mini-long, in cui racontare e approfondire aspetti lasciati un po' in disparte per ragioni di tempo... ma questo verrà di sicuro iniziato dopo la conclusione della serie, quindi tra un po'. In compenso mi sono iscritta ad un altro contest di Ili91 e ne approfitterò di certo per scrivere, quest'estate, la prossima mini-long che, vi anticipo, sarà ambientata in Francia.
Ringrazio infinitamente tutti quelli che hanno letto, apprezzato, recensito o inserito nelle seguite, ricordate, preferite questa storia, e chi, per la curiosità, si è pure letto la mini-long precendente, ovvero Eleutheròs - Libero . Infine ringrazio anche Ili91 che ormai è diventata un po' la madrina della serie con i suoi contest!


Un abbraccio e a presto,

Aturiel
   
 
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