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Autore: _A m a l i a_    04/06/2015    4 recensioni
Milano, Seconda guerra mondiale.
Una storia d'amore più forte del tempo. Più forte della guerra e delle proibizioni.
Clarissa è la giovane figlia di un sostenitore del partito fascista. Cesare è l'uomo di cui s'innamora. Un uomo che combatte la dittatura e mette a repentaglio la propria vita per salvare quella degli altri. Un eroe silenzioso.
La loro storia cammina di pari passo con la disperazione, con la morte e cresce nascosta dagli occhi indiscreti di chi non potrebbe accettarla.
***
Dal 13esimo capitolo:
«Prometti di gridarmi che mi ami e che il suono delle tue parole mi arrivi anche sopra gli spari e lo scoppio delle bombe. Prometti di custodire una parte della mia vita nella tua, così che saprò che non ti lascerai mai morire, per non uccidere anche me.»
Genere: Drammatico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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Come d’autunno le foglie




~ prima parte ~



 
 
14.

1946

Vennero a prenderla due di loro, in una rispettabile auto nera. Gemma si offrì di accompagnarla, chiedendole insistentemente di lasciala venire con lei, ma Clarissa la pregò di farla andare sola.

Il viaggio non fu lungo. E per sua fortuna i due uomini non erano di molte parole. Uno di loro accese l’ autoradio e malgrado la musica giungesse ad intermittenza, fu felice fosse l’unico suono a riempire l’attesa.

Non aveva ricevuto nessuna informazione.

Non sapeva i loro nomi, non sapeva il nome del paese verso cui erano diretti, non conosceva le dinamiche della situazione. Qualcuno le parlò di una località di lago, ma non aggiunse molto di più.

Guardò oltre il finestrino, durante tutto il tempo, con le mani appoggiate alla borsetta, fingendosi una di quelle donne americane dall’aspetto valoroso ed impenetrabile, che i rotocalchi amavano sfoderare in prima pagina.

Solo quando si accorse di uno spiraglio di lago, avvertì la certezza di essere prossima all’arrivo.


Così fu. La macchina si fermò al municipio del primo paesino che incontrarono. Furono cortesi nell’aprirle la portiera della macchina e farle strada. Una volta entrati un’ uomo, con una lunga barba nera, le chiese i documenti e si soffermò a leggerli.

«E’ il suo compleanno oggi, signorina Marchesi?» chiese, squadrandola. Il suo tono era mortificato.

Clarissa annuì. Era stata Gemma a ricordarglielo quella stessa mattina.

«Mi rincresce debba passarlo in questo modo.» parlò, di nuovo, l’uomo. «Se lo avessimo saputo, probabilmente avremmo stabilito l’incontro in un giorno diverso.»

«Non fa differenza.» rispose distaccata. Avrebbe solo voluto si concludesse tutto con rapidità. Si sforzò comunque di sorridere, per il pensiero gentile. «Grazie.» disse, sottovoce.

Venne accompagnata in una stanza, priva di finestre, con due lampade a parete. Si sedette su una delle sedie ad un lato del tavolo centrale e guardò l’altra sedia, davanti a lei. Le sue mani si strinsero forti, in un gesto involontario, che in qualche modo riusciva a darle sollievo.

 
Poco dopo, entrò.

Scortato da due partigiani. Il più basso tra i due, fu l’unico a parlarle.

«Rimarremo fuori, signorina Marchesi. Ma la conversazione verrà ascoltata da quegli apparecchi che vede appesi al muro.» si girò e agli angoli vide due specie di megafoni. Annuì. «Le basterà richiedere un intervento ed entreremo subito.»
 

Tra i giochi d’ombra che la stanza creava, lo vide divincolarsi dalla presa dei partigiani e andare a sedersi di fronte a lei.

«Non richiederà un bel niente, giovanotto. Lasciateci in pace.» 

Clarissa respirò e prese le forze per guardarlo in faccia. «Papà.» disse, quasi naturalmente.

Lui emise uno strano suono, come un brontolio e tentò di sorriderle, ma il suo volto non ci riuscì. «Guardati. Ti sei fatta donna in così pochi mesi?»

Non ebbe il coraggio di parlare. Che cosa avrebbe dovuto dire? Che parole si dovrebbero pronunciare in incontri come quelli?

«Vai mai a piangere sulla tomba di tua nonna?» chiese, di soppianto, il padre. Il suo tono era formale e superiore. Come lo era sempre stato.

Respira.

«O su quella di tua madre?»

Respira.

«Devo aspettarmi che non andrai nemmeno sulla mia.» rise, agitato. «Ad ogni modo, ti risulterebbe complicato, dal momento che non credo vorranno darmi nessuna sepoltura.»

Si accorse solo ora del suo viso scavato; un viso per il quale si sarebbe persino potuto provare umiltà. Cercò di non fissarlo negli occhi, per paura di arrivare a provarla. «Quando… quando sarà?»

«Domani, nel pomeriggio. Se ne occuperà un plotone di quindici partigiani. Uno a testa. Ci disporranno sulla banchina del lago e ci spareranno in fronte.»

La freddezza con cui glielo diceva, le fece scorrere un brivido lungo l’intero corpo.

«Sei felice di sapere che sia già domani?» le domandò.

Clarissa lo guardò allibita. Avrebbe giocato al suo stesso gioco. «Non ho tue notizie da quasi un anno. Credevo fosse già successo.»

«Ed eri felice?» insistette.

«Papà, ho perso Denise, ho perso mamma, ho perso i miei amici…pensi non possa sopportare di perdere anche te?»

I suoi occhi la guardavano con fermezza. «Hai perso quel tuo disgraziato.» sputò, all’improvviso. «Coraggio, aggiungi anche lui alla lista.»

Respira. «E’ quello che avresti voluto, vero? Che lo perdessi. L’hai fatto incarcerare solo per la gioia di rubare l’ultimo accenno di felicità che mi rimaneva nella vita.» sorrise, mentre le lacrime minacciavano di offuscarle la vista. «Ma che scempio sarebbe stato! Che offesa alla tua morale.. sapermi felice.»


Aveva deciso d’ incontrare il padre, non appena le era stata recapitata una lettera in cui le veniva spiegato – molto velatamente – ciò che gli sarebbe successo.

Lei, del bisogno di vendetta che spingeva i partigiani e le milioni di persone che chiedevano a gran voce la morte di quanti più fascisti riuscissero a trovare, lei di tutto questo non voleva sapere nulla. Quasi la spaventava immaginare che fosse necessario altro sangue per ripulire il ricordo del sangue che era scorso in passato, ma per il resto aveva egoisticamente deciso di rimanere all’oscuro di tutto.

Si era limitata ad un’ unica decisione che l’aveva portata lì, davanti a suo padre. A parlare dell’uomo che lui stesso le aveva strappato.


«Sei così stupida da non capire che se non avessi fatto niente, a quest’ora saresti morta.» le disse, lui.

Clarissa si passò un fazzoletto chiaro al lato degli occhi e gli rivolse un sorriso desolato. «E ora, papà, che cosa sono? Sono forse viva?»

«E’ assurdo che tu lo chieda ad un condannato a morte.»

Non parlarono per lunghi minuti, né ebbero il coraggio di guardarsi. Clarissa alzò lo sguardo solo quando sentì i singhiozzi del padre. Era la prima volta che lo vedeva piangere. Le lacrime cadevano con naturalezza e il suo viso contratto, sembrava quasi il viso di un bambino. Puro, pulito.

Mai le si era mostrato come si mostrava ora.

Pianse insieme a lui e con rammarico si accorse di come quello fosse il loro primo e unico legame.

 
«Nella mia intera vita, ho maturato ogni scelta pensando esclusivamente a te, bambina mia. E non me ne pento.» il suo tono di voce era insolito, come se non gli appartenesse.

«Non ti ho mai chiesto di fare scelte pensando a me.» gli rispose Clarissa e furono le ultime parole che gli rivolse. «Mi sarei accontentata di sapere che, qualche volta, mi pensavi.»
 


Tornando a casa avrebbe di nuovo guardato il lago e pensato a suo padre; l’ ufficiale fascista che sarebbe caduto davanti alle sue sponde.

Realizzando con grande consapevolezza che un altro piccolo pezzo, dentro di lei, sarebbe sparito. Per una volta ancora, sarebbe stata un po’ meno Clarissa e per una volta ancora, avrebbe dovuto cedere parte delle sue forze per far fronte al dolore. Una sensazione che odiava e verso la quale non sarebbe mai riuscita ad abituarsi.
 
 


Uno dei giorni seguenti, nella pace del suo studio, Lorenzo Silvatti le versò del the caldo, mischiando due zollette di zucchero e della vaniglia, come piaceva a lei.

C’era sempre una bizzarra confusione di fogli sulla scrivania di legno dell’avvocato e con il passare delle settimane trascorse là dentro, Clarissa notava con piacere che i piccoli regali che gli portava in segno di ringraziamento per esserle a fianco, come amico ancor prima di avvocato, venivano da lui conservati con cura, in mezzo al gran disordine.

«E’ una buona notizia.» commentò Lorenzo, appoggiandole una mano sulla spalla.

«Si.» rispose lei, ancora un po’ confusa, ma sorrise notando il suo viso felice.

Lorenzo aveva ottenuto che la procura di Milano stabilisse un ‘piano di ricerca dispersi’ in cui figurava – sopra molti altri -  il nome di Cesare Poggi. La sua storia, il suo appoggio alla Resistenza a discapito della propria vita, sarebbe stata resa nota. Le radio ne avrebbero parlato, alcune conoscenze di Lorenzo ne avrebbero dedicato righe sulle testate principali. Le acque si sarebbero finalmente smosse.

E se ancora si trovava in Italia, qualcuno non avrebbe tardato a farne arrivare informazioni.
 


Le informazioni arrivarono, ma furono le più inaspettate.
 


«Cosa diavolo mi stai dicendo?»

«Clarissa, mi dispiace.»

«Non ti dispiacere. Non c’è nulla di cui dispiacersi. Sono solo stupide dicerie, completamente false.» camminava agitata intorno al suo piccolo studio. «Non ha senso che tu perda tempo a riferirmele.»

Nel vederla in quello stato, Lorenzo soppesò i tempi, prima di infierire ancora di più. «Ho parlato io stesso con la sorella di Anita Damasco e mi ha riconfermato quanto mi aveva detto l’avvocato della donna.» si fermò e poi sputò, ancora una volta, quelle parole. «Lei e Cesare si sono sposati in...»

Clarissa scosse la testa. «No.» lo interruppe.

«Si sono sposati in data 17 maggio 1928. La data e il luogo di nascita coincidono con quelli di Cesare, persino la caratteristiche del suo aspetto fisico che ha rilasciato la sorella della moglie.»

Avrebbe voluto gridare e se non fosse bastato avrebbe pianto, tanta era la rabbia che provava. «Non esiste nessuna moglie. Sono io la moglie di Cesare.» nel pronunciare quella frase avvertì con timore, la vana illusione che l’ accompagnava.

«Per quanto vorrei poterti dare ragione, non ci sono prove che legalizzano la vostra unione. Mentre l’ avvocato della signora Damasco sostiene di averle.» sospirò.

«E’… è completamente insensato… è… Voglio dire, ci sono un milione di cose che non quadrano.» rifletté, lottando contro la confusione nella sua mente. «La carta d’identità! Io ho la carta d’identità di Cesare e lì non risulta come spostato.»

«Si, ci ho pensato anche io. Ma sappiamo bene quali fossero le conoscenze di Cesare e tu stessa mi hai detto che ha procurato documenti falsi ad ognuno dei rifugiati, qualche settimana prima di abbandonare il primo rifugio.»

«E per questo dovrebbe essere falso anche la suo? Che senso può avere falsificare un documento d’identità per poi mantenere ogni dato e cambiare soltanto lo stato civile?»

«Non lo so. Sto solo cercando di capire, Clarissa. Anche io mi faccio mille domande, esattamente come te, eppure non posso evitare di dare ascolto a tutte le chiamate anonime che ho ricevuto in una sola settimana, da quando è stato pubblicato l’annuncio. E credimi, ognuna di loro sostiene quanto mi è stato detto dall’avvocato.» Lorenzo sospirò, appoggiando le mani sul tavolo, come fosse stremato da quella conversazione.

«Possibile che Cesare non ti abbia mai raccontato nulla del suo passato?» tornò a parlare, poco dopo.«Questa Anita Damasco arriva da un paesino del Piemonte, lo stesso in cui è nato Cesare e lo stesso in cui si sono sposati.» glielo disse, quasi come rimprovero. Questo la fece infuriare ancora di più.

«Smettila di ripeterlo!» gridò, Clarissa. Dentro di sé, lottava per proteggere il suo sentimento, convincendosi che Lorenzo o qualsiasi persona al suo posto, non avrebbe mai compreso quanto comprendevano lei e Cesare. Ma da sola, la capacità di lottare si esauriva persino in una ragazza forte come lei.

Per un attimo si pentì di non aver mai chiesto nulla a Cesare del suo passato, eppure questo non le bastò per dubitare di lui.

«Ascoltami Clarissa, quando dico che non è un male dar retta a queste informazioni, non intendo dire che non abbia anche io i miei sospetti. Ma, lasciandoli da parte per un momento, ho almeno la lucidità per capire che tutto questo può giocare a nostro vantaggio.» si sistemò gli occhiali tondi e la guardò risoluto. «Cesare può aver tentato di mettersi in contatto con Anita Damasco, una volta evacuato dal campo di concentramento. Forse questi signori sanno più cose di quelle che ci vogliono far credere.»

Fu incapace di replicare. Sorrise, agitata. «Aspetta, lasciami capire. Non solo affermi che l’uomo che amo, l’unica persona su questa terra per la quale trovo ancora il coraggio di aprire gli occhi la mattina, è spostato con un’altra donna.» ora il suo tono era basso, ferito. «Ma sei persino convinto che, una perfetta sconosciuta, sia la prima persona da cui andrebbe se fosse ancora vivo?»

Nell’uscire dalla piccola stanza dell’avvocato, tornò a sentirsi sola, come un tempo.
 

 
Prima di rientrare a casa passeggiò per la città senza avere una meta precisa. Il vento le scompigliava i capelli, ma asciugava le lacrime ancor prima che i passanti potessero accorgersi di loro.

Le vetrine dei negozi cominciavano a chiudere le serrande e le strade si riempivano di lavoratori d’ogni genere, smaniosi di rincasare sotto un tetto familiare.

Clarissa si sedette su una panchina, accanto ad una signora che stringeva una bambina dai capelli chiari e setosi, esattamente come i suoi. Le guardò e per un istante si chiese quale fosse la loro storia e cosa si nascondesse dietro i loro sorrisi.
 

Chi diceva che la fine di una guerra portava con sé gioia e speranza, che metteva un bando al dolore, alla morte, alle perdite?

Nella sua personale fine della guerra, lei perdeva suo padre.

Perdeva Lorenzo.

E per quanto fingesse di non pensarci, ogni singolo giorno che passava, ogni singolo minuto, perdeva un po’ di più, anche Cesare.


 
 
  
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