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Autore: zappolo70    05/06/2015    17 recensioni
ATTENZIONE: storia già pubblicata fino al capitolo VII ora completata (12 capitoli). Si avvisa che TUTTI i capitoli sono stati rimaneggiati e sono stati aggiunti riferimenti temporali per aiutare a seguire più agevolmente il dispiegarsi della storia.
La storia propone un what if inusuale e grande come una casa. Una rilettura personale della storia di Oscar e Andrè che mantiene grossomodo l’ossatura della storia e l’evoluzione temporale, anche se non fedelmente per esigenze narrative, stravolgendone però l’interpretazione alla luce di un presupposto nuovo.
Buona lettura a chi vorrà cimentarsi.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

VI – 26 Marzo 1775

Aveva passato in rassegna uno a uno i colori che avevano dipinto il suo cuore nel corso di quella strana notte, alcuni lasciando segni tenui, altri imprimendo solchi profondi, fino a graffiarle l'anima. Il risultato assomigliava a uno dei quadri di quel Fragonard tanto in voga a Parigi negli ultimi tempi. Un paesaggio dai contorni sfumati, indefiniti, dove la bellezza dei colori predominava sul disegno rubandogli la scena.

Bianco. La sensazione di armonia scaturita dalla genuinità delle immagini dei genitori di lui evocate con tanta delicatezza da Marie, un acquerello senza tempo che le aveva parlato di persone semplici e autentiche.

Verde, come il fastidio provato nell'apprendere di tale Sophie, che bramava il suo amico mentre lei fino a poc'anzi ne ignorava persino l'esistenza. Gelosia? E' questo il nome che avrebbe dovuto dare al sentimento strisciante che le si era insinuato dentro?

Giallo, il senso di tradimento e di rabbia cieca verso Hortence. C'era davvero stato un tempo in cui lei avrebbe voluto fare del suo amico il proprio amante? Proprio lei, quella che sentiva più affine, quella con cui riusciva - se non a confidarsi - ad avere un dialogo che andasse oltre la superficie, non le aveva mai fatto intendere nulla. Quando era successo? Se lo sarebbe preso senza farne parola se non fosse intervenuto il matrimonio che il padre aveva combinato per lei? Come se fosse scritto da qualche parte che bisognasse chiedere il permesso a lei per avvicinarsi a lui. Lui che non era suo. Oppure si? Perché doveva ammettere con se stessa che ad averlo saputo avrebbe fatto di tutto per tenerla lontana, per mettere tra loro quanta più distanza possibile. E non avrebbe esitato a rinfacciarle qualunque sguardo o gesto equivoco avesse osato rivolgergli. Ma non sarebbe stata sincera sulle proprie motivazioni, le avrebbe derubricate camuffandole coi panni delle buone intenzioni di chi, affezionato ad entrambi, avesse solo l'obiettivo di proteggerli dalle conseguenze di un gesto sconsiderato. Ora invece, nella solitudine della propria stanza, non poteva mentire a se stessa. Gelosia. Di nuovo. L'avrebbe allontanata per gelosia, né più né meno.

Rosso, come rosso è il sangue che aveva preso a scorrere più veloce fino a farla avvampare in viso, fino a farle contrarre il ventre in uno spasmo languido quanto violento, quando aveva scoperto che lui la voleva. Quasi che il desiderio di lui l'avesse raggiunta e contagiata nella carne trovandovi un'inaspettata corrispondenza e si fosse propagato in ogni fibra del suo essere. Lui che non cedeva alle lusinghe delle altre perché voleva lei. Si era sentita potente. E debole. Debole come le gambe divenute molli che non l'avevano più sorretta; debole perché si era percepita del tutto vulnerabile di fronte al sentimento di lui che l'aveva trovata senza difese da opporre, pronta a lasciarsene travolgere.

Ancora rosso. Come il pericolo insito nella sua stessa reazione inappropriata. Avrebbe dovuto sentirsi tradita da lui, che aveva travestito l'amore coi panni dell'amicizia, ingannandola. Avrebbe dovuto essere arrabbiata con se stessa, perché i segni c'erano tutti perché lei li leggesse, ma aveva ogni volta distolto lo sguardo, non aveva avuto il coraggio di guardarli per ciò che erano. Segni di un amore inconfessabile. Sarebbe stata una reazione più adeguata e meno pericolosa di questa strana vibrazione che le faceva battere forte il cuore in un ritmo impazzito e incontrollabile.

Blu. Come la naturalezza e l'innocenza delle immagini che avevano preso a scorrerle davanti agli occhi scandendo i richiami di Marie alla loro vita insieme ai tempi della loro formazione. Le ore di studio col precettore, intervallate da altre dedicate all'apprendimento dell'uso delle armi, gli allenamenti, le corse a cavallo che si trasformavano ogni volta in gare a chi arrivava primo. E poi ancora le marachelle, le conseguenti punizioni di cui spesso si faceva carico lui, prendendosi tutte le colpe, e lei che poi gli portava di nascosto la sua parte di dolce, per ringraziarlo, perché a parole le riusciva difficile, facendogli credere di averla rubata dalle cucine anziché avervi rinunciato, unico modo per indurlo ad accettare. Al ricordo le si riempì il cuore di tenerezza, un sorriso a incresparle il viso ancora umido di pianto. Pensava che forse non si poteva chiamare ancora amore allora, ma che ci assomigliava già molto.

Grigio, come la tristezza che le avevano trasmesso le lacrime di Marie e la presa di coscienza che lo stesso sentimento può rendere qualcuno ebbro di felicità e gettare altri nello sconforto. Grigia tristezza perché, anche volendolo, non avrebbe saputo recarle alcun conforto. Non avrebbe potuto confutare l'infondatezza delle sue paure ora che, suo malgrado, si ritrovava a condividerle. Paura per la naturalezza e la forza con cui reazioni illogiche avevano soppiantato ogni ragione, imponendosi e piegando il corpo a brividi sconosciuti.

E poi il nero. Il nero che si ciba di tutti gli altri colori, privandoli della luce e annientandoli, come il buio inghiotte la luce del giorno. Come la paura sorda che ha cancellato in un battito di ciglia tutte le altre emozioni. La paura di perderlo nella maniera più funesta. La paura nel riconoscere che la battaglia tra il nero e il rosso non ha un esito scontato, perché il rosso non si lascerà fagocitare senza opporre resistenza e userà il suo calore innato per dissuadere l'altro dalle proprie intenzioni. Paura per la consapevolezza che il rosso avrebbe trovato in lei un alleato condiscendente, mentre il nero avrebbe durato fatica a convincerla.

Tre colpi decisi alla porta interruppero all'improvviso il travaglio delle sue riflessioni.

«Oscar, sei pronta?».

La risposta si era fatta attendere, mentre lei cercava di ritrovare la voce senza sapere cosa dire.

«Oscar, sei lì?».

Lei si era imposta di ostentare una calma che non provava nella speranza che il tono non la tradisse. 

«Sono quasi pronta Andrè, precedimi pure a far colazione, ti raggiungerò tra un attimo».

«D'accordo. Mi sa tanto che il Bordeaux non ha fatto sconti neppure a te!».

Lo sentì allontanarsi ridacchiando e pensò di aver guadagnato appena qualche minuto. Non poteva più procrastinare oltre il momento in cui avrebbe dovuto affrontare il suo sguardo alla luce di una nuova verità. Con passo fintamente sicuro aveva imboccato la scalinata, concentrandosi sul ritmo del proprio incedere nel tentativo di congelare i propri pensieri e ammansire il battito del cuore fuori controllo.

Lo aveva trovato seduto al grande tavolo che troneggiava nelle cucine, occupava lo stesso posto a cui era seduta Nanny fino a poche ore prima. Tornare in quel luogo, insieme a lei muto testimone della notte appena trascorsa, pregna di emozioni, le aveva fatto uno strano effetto. Non sembrava neppure più la stessa stanza, inondata com’era di luce naturale che filtrava dalle ampie finestre, così come erano cambiati gli attori ora che il locale brulicava di inservienti che si avvicendavano in un vai e vieni senza sosta. Pareva non essere rimasta nemmeno una lontana eco delle confidenze che vi erano state scambiate. Scrutò le superfici dei piani di lavoro, finché un particolare catturò la sua attenzione. Una tazza ormai vuota faceva ancora bella mostra di sé in un angolino appartato, rivendicando a sé una realtà che Oscar sperava ancora di poter ricacciare nell'illusoria dimensione di un sogno.

Senza proferire parola aveva preso il posto che era stato di Therése, accanto a lui. Ne aveva osservato il profilo regolare mentre era intento a spalmare il burro su una fetta di pane tostato, senza ancora incontrare i suoi occhi, poi era stato lui ad intercettare il suo sguardo. Si fissarono per un lungo momento in cui si concesse di perdersi in quel verde che ora sapeva non vedere altre che lei. Lui di contro si sentì disorientato da quell'indugiare più del necessario.

«Si, lo so, lo so, oggi non sono bello come al solito. Guarda che però anche tu non scherzi, hai certe occhiaie! La prossima volta mi sa che è meglio se ci fermiamo alla prima bottiglia».
Lei non aveva replicato, ma un sorriso involontario le aveva incurvato un angolo della bocca.
«Oscar, tu finisci con calma, io intanto vado a sellare i cavalli».

Gli aveva restituito un cenno affermativo mentre aveva continuato a sorseggiare il tè. Non appena la porta si era richiusa dietro di lui, si accorse di un capannello di cameriere impegnate in un chiacchiericcio serrato mentre asciugavano le stoviglie con dei canovacci. Le pareva che le mani e le bocche si muovessero all'unisono in un ritmo frenetico. Non poteva sentire cosa dicessero perché avevano usato l'accortezza di parlare sottovoce, ma non riuscì a fare a meno di domandarsi se tra loro ci fosse anche quella Sophie e se tutto quel parlottare potesse riguardare lui. Aveva tergiversato rigirando la tazza ormai vuota tra le mani, osservando ora l'una ora l'altra nella speranza di cogliere un indizio. Infine aveva desistito e si era alzata avviandosi verso le stalle. Aveva già imboccato l'uscio quando aveva udito un rumore di cocci in frantumi. Poi una voce imperiosa si era innalzata sopra le altre costringendola a fermarsi in ascolto dietro il battente chiuso.

«Sophie! Quante volte ti ho detto che devi fare più attenzione?».

E fu il giallo della gelosia che le fece tirare un poco la porta a sé, aprendo un pertugio attraverso il quale poterla cercare con lo sguardo.

La voleva vedere.

«Io...mi dispiace Gerard, non volevo, io.…».

La individuò nel suo fare contrito, sembrava mortificata e teneva lo sguardo basso sul grembiule immacolato che stropicciava nervosamente con le mani. Una folta capigliatura rosso rame era raccolta sotto la cuffia da cui sfuggivano ciocche ondulate ad accarezzarle le guance rosse di vergogna. Era molto giovane e minuta, pensò che le arrivava si e no alle spalle, ma diversamente da lei aveva forme morbide, generose. Alzò il viso per dire qualcosa senza trovare le parole. Aveva occhi grandi e scuri come la notte. Non sapeva cosa si fosse aspettata Oscar, ma ora che l'aveva vista le pareva soltanto una ragazza come tante, coi suoi sogni di ragazza che le parve ingiustamente crudele colpevolizzare.

«E' mai possibile che tu non capisca più nulla ogni volta che lo vedi? Eppure dovresti averlo capito oramai che quello lì vola alto! Se poi si vola troppo alto, quando si cade ci si fa molto male. E quello è destinato a cadere! Faresti meglio a guardare altrove Sophie, dai retta a uno stupido».

Nero. Come la paura. Inequivocabili le parole di Gerard, lasciavano intendere che i sentimenti di Andrè non erano un mistero per nessuno e la chiosa finale era suonata come un monito per lei e una condanna per lui.

Se ne era andata Oscar col cuore in tumulto e un senso di angoscia che le attanagliava le viscere. Aveva attraversato a grandi passi l'ampio spiazzo erboso; era giunta quasi a metà quando aveva sentito chiamare il proprio nome da una voce che non durò fatica a riconoscere.

«Madamigella Oscar, com'è che quello sfaccendato di mio nipote non è con voi? Non ditemi che è rimasto a letto perché è la volta buona che gli faccio assaggiare il mestolo di prima mattina!».

Le aveva parlato con le mani sui fianchi che le davano un'aria più buffa che minacciosa, mentre alle sue spalle svolazzava un ampio lenzuolo accuratamente fissato al filo teso che conferiva un che di teatrale alla scena. Non era rimasto nulla del tono grave e ansioso di poche ora prima, eppure l'espressione degli occhi mal si accordava con la voce squillante e le battute di spirito che generosamente le aveva offerto nel tentativo di apparire quella di sempre. Oscar si era domandata quante volte Marie avesse dovuto dissimulare la propria angoscia a loro beneficio, e il grigio della tristezza la colse nuovamente.

«No Nanny, a dire il vero Andrè sta già preparando i cavalli. Sono io piuttosto che stamattina non riuscivo a staccarmi dalla tua deliziosa confettura di fichi. Non dovresti farla tanto buona, o prima o poi mancherò ai miei doveri pur di finirla in una volta sola!».

Dissimulò a sua volta in uno sforzo supremo con l’intento di regalare alla povera donna una parvenza di serenità. Poi l’aveva salutata con un cenno della mano e si era incamminata nuovamente.
Aveva trovato l'enorme portone spalancato con la luce che colpiva violenta ogni cosa all'interno facendo sembrare il manto dei cavalli, già strigliati a dovere, ancora più lucido. Lui era chino a controllare lo zoccolo anteriore sinistro del suo baio, le maniche arrotolate fino a metà braccio, la giacca di fustagno marrone appesa a un chiodo che sporgeva da una delle travi basse che sostengono il fienile. Si era girato nel percepire la presenza di lei sulla soglia, ma era stato costretto a ripararsi gli occhi con la mano. Dall'interno l'effetto della luce risultava opposto, disegnava Oscar come una sagoma nera e slanciata che si stagliava contro la cornice accecante della porta a doppia altezza.

«Sei tu Oscar? Ho quasi finito. Caesar è già pronto. Ho dovuto sostituire il ferro anteriore sinistro ad Alexander perché era troppo consumato, rischiava di perderlo. Ancora due minuti e sono da te».

«Fai con calma Andrè, ti aspetto qui».

Lo aveva guardato  armeggiare abilmente con gli attrezzi da maniscalco. Aveva osservato i muscoli degli avambracci tendersi nel maneggiare la tenaglia tira chiodi e poi quella da pareggio. Rosso. Aveva finito il lavoro in pochi movimenti fluidi e decisi, si era rialzato e aveva gratificato il cavallo accarezzandone la mascella ripetutamente, sussurrando parole che lei non era riuscita a carpire ma che Alexander sembrò apprezzare, poiché avvicinò il muso alla spalla del suo cavaliere e poi prese a strusciare la guancia contro la sua come un gatto che facesse le fusa. Blu.

Nella girandola dei suoi colori lui era proprio così, rosso e blu, era forza, sicurezza e desiderio, ma anche calma, pace e armonia. In lui il rosso e il blu erano colori comprimari in perfetto equilibrio.

Le venne incontro coi due cavalli ai lati che lo seguivano al passo, le porse le redini di Caesar e le loro mani si sfiorarono in un breve contatto che la fece sussultare, lasciando lui perplesso.

«Andrè, abbiamo fatto tardi stamattina, forza, cerchiamo di recuperare».

Lui stava ancora montando in sella che lei aveva già spronato Caesar al galoppo lasciandolo un po’ indietro e pensando che avrebbe avuto bisogno di stare da sola a schiarirsi le idee, piuttosto che dover affrontare una giornata a Versailles, per di più insieme a lui.

Però si dovette ricredere. Era sorprendente come il suo senso del dovere riuscisse ad imporsi su tutto il resto e a renderle quasi facile calarsi totalmente nel proprio ruolo. Rimanere concentrata nell'adempimento dei propri compiti aveva rappresentato una parentesi di sospensione preziosa, una distrazione temporanea concessa al suo cuore stanco.

Ma il cielo si era fatto liquido di striature rosse, arancioni e gialle come pennellate che un pittore distratto aveva steso in maniera bizzarra, lasciando che si sovrapponessero in mille sfumature calde e indistinguibili che si stagliavano sul blu della tela. Assomigliava al garbuglio dei suoi colori di cui non riusciva a venire a capo, e preannunciava la fine della tregua. Era tempo di tornare a casa.
Il ritmo del ritorno era stato un ritmo lento, scandito da poche parole e silenzi densi. Varcarono infine i cancelli della tenuta fino a raggiungere le stalle. Prima di affidargli Caesar, aveva recuperato la voluminosa cartella di cuoio portadocumenti sciogliendo le cinghie cui l'aveva assicurata.

«Oscar, vuoi che venga da te dopo cena?».

«Non stasera Andrè. Ho ancora del lavoro da sbrigare, più che altro rapporti da redigere».

Aveva fatto cenno al pesante involto che teneva sottobraccio.

«Penso che chiederò a Nanny di portarmi la cena in camera, vorrei terminare il prima possibile e concedermi una buona notte di riposo. Dopo ieri sera credo ne avresti bisogno anche tu».

«Questa è un'ammissione della tua vulnerabilità al Bordeaux!».

Aveva riso di cuore lui, anche per scacciare quella punta di delusione che aveva sentito pungere al rifiuto di lei, seppure ben motivato.

«D'accordo. Ci vediamo domani mattina allora».

Lei si era accorta dell'ombra fugace che per un attimo aveva attraversato il suo sguardo. Le era dispiaciuto essere stata costretta ad escluderlo, ma si sentiva allo stesso tempo compiaciuta dalla sua reazione.

Gli aveva sorriso con gratitudine prima di girare i tacchi diretta ai propri appartamenti.
Si era tolta giusto la giacca, le calze e gli stivali impolverati, che come sempre qualcuno avrebbe avuto cura di farle trovare lustri l'indomani, prima di sdraiarsi sul letto. Aveva avuto la lucidità di portarsi a casa un plico di documenti raffazzonati a caso dal suo ufficio e crearsi così un pretesto credibile per restare sola.

Le gambe incrociate all'altezza delle caviglie, le mani dietro la testa e gli occhi chiusi che in realtà avevano ripreso a scrutare nel caleidoscopio dei suoi colori.

Pensò a quanto paradossalmente la conversazione tra Marie e Therése le fosse stata fatale. Le loro parole l’avevano inconsapevolmente forzata a dare un nome a sensazioni conosciute da tempo, sulle quali si era sempre guardata bene dal soffermarsi, sospendendo il giudizio. Non era stata noncuranza la sua, piuttosto la percezione istintiva di un pericolo dai contorni indefiniti che l’aveva ogni volta prevenuta dall’addentrarsi troppo in quelle emozioni che scaturivano repentine e prepotenti alla vicinanza di lui.

Le aveva sbrigativamente liquidate come i capricci di un corpo che manifestava oramai la propria natura in barba alle attitudini maschili che lei opponeva, divenute del tutto inefficaci a negarla.
Ma questa definizione risultava ora più che mai inadeguata. Il loro rapporto, sviscerato in maniera tanto accurata da Nanny, parlava di molto altro che non una mera attrazione fisica.
Raccontava di un rapporto simbiotico in cui le rispettive caratteristiche, finanche contrapposte, fungevano da collante in una dinamica di compensazione continua, che portava ciascuno a prendere dall’altro ciò che a lui difettava, mantenendo entrambi in equilibrio, rendendosi reciprocamente indispensabili.

Erano la riflessività e la calma di lui a mitigare l’impulsività e l’irruenza di lei riuscendo a prevenirne l’avventatezza, e viceversa era l’impetuosità dell’una a scuotere la pacatezza dell’altro, presentandogli la realtà coi toni accesi della passione che metteva in ogni cosa, e rendendogli praticamente impossibile non sposarne le cause e combatterne le battaglie.

C’era solo una parola adeguata a sintetizzare tutto quanto loro riuscivano ad essere insieme, una parola scomoda che nello spettro dei colori raccoglie tutta la gamma dei rossi. Amore. Amore profondo e leale, amore irruento e passionale.

Ma questa notte lei si era scoperta “il peggior nemico del suo migliore amico”, la spada di Damocle che pendeva sulla sua testa.

Ancora una volta Marie l’aveva stupita per la profondità con cui era in grado di sondare l’animo delle persone a lei care, il suo piccolo mondo di affetti che dimostrava di saper leggere come un libro aperto.

Se Oscar avesse almeno potuto trovare qualcosa da obiettare al suo personale ritratto del Generale, non sarebbe stata assalita dall’angoscia più nera e dalla paura paralizzante che l’aveva inchiodata là, in quell’anfratto nascosto, incapace di qualsiasi movimento.

Ma il Generale era esattamente così come lei l’aveva dipinto, anch’egli non riconducibile a una sintetica monocromia.

E come Marie, anche lei aveva di che essergli grata. Le aveva regalato una vita indubbiamente molto più libera - seppure ancora tenuta all’osservanza delle convenzioni sociali - di quella destinata alle altre donne. In virtù del proprio ruolo aveva potuto rapportarsi e confrontarsi con gli uomini al loro stesso livello.

Aveva potuto esplorare il mondo nel modo a lei più congeniale, libera da busti, corsetti e crinoline, libera di arrampicarsi sugli alberi, di sentire la sabbia fine delle spiagge di Arras sotto i piedi, libera di esagerare col vino, di frequentare le bettole veraci di Parigi, libera di avere un uomo al suo fianco per una vita intera, libera di vivere l’intimità in un rapporto costruito intorno alla confidenza del “tu”, quando era “voi” per tutti gli altri, sua madre compresa. E chi, come Marie insieme a tante, giudicava una costrizione il suo indossare le fasce, non aveva capito proprio nulla: c’avessero provato loro ad andare a cavallo senza e avrebbero finalmente capito quale fosse il sollievo e quale la tortura.

Le aveva risparmiato l’abominio di andare in sposa appena più che bambina, come era stato per le sue sorelle, a un uomo che avrebbe probabilmente avuto il doppio dei suoi anni e a cui avrebbe dovuto concedersi nell’intimità del talamo nuziale senza peraltro abbandonare la forma di cortesia, che le pareva un’assurdità al solo pensiero. Ché se la ricordava bene l’espressione ferita delle sue sorelle il giorno dopo le nozze, e il loro stoico e rassegnato mutismo che trasudava dolore e delusione. Non c’era dubbio che avessero derubricato il sesso coi rispettivi mariti dal pur corto elenco delle gioie femminili, relegandolo piuttosto alla voce “dovere coniugale”.

Dietro l’imprescindibile espressione austera, suo padre era anche capace di atti generosi e affatto impersonali, come quando le aveva regalato Caesar il giorno del suo tredicesimo compleanno, allora poco più che un puledro allo stato brado. Ma aveva capito come lei gli avesse messo gli occhi addosso e aveva chiesto in segreto ad Andrè di domarlo, per conservare intatta la sorpresa. Quella volta avrebbe voluto abbracciarlo forte, anziché limitarsi al contegno di un

«Vi ringrazio tanto, padre».

cui era seguito un cenno d’assenso da parte sua.

Ma c’era anche tutto il resto. C’era la sua fede cieca nei valori e nel codice militare, che anteponeva a qualsiasi altra cosa e a cui aveva dedicato la sua intera esistenza. E c’era l’orgoglio smisurato per il proprio casato che avrebbe fatto di tutto per onorare, fiero che appartenesse a quella parte della nobiltà più in vista a corte e presso i Sovrani. Rispettoso del rango e convinto sostenitore della divisione della società in classi che distinguevano, esattamente come nell’esercito, chi contava da chi ricopriva una posizione subalterna, come era giusto che fosse, giacché non si poteva concepire un mondo dove tutti comandassero o viceversa dove tutti fossero alla pari senza che nessuno fosse investito del potere di tenere le redini.

Anche lei non aveva avuto dubbi: il generale gli avrebbe fatto pagare con la vita l’affronto se si fosse preso sua figlia di nascosto, in casa sua, senza averne il titolo, tradendo il rapporto di lealtà tra servo e padrone che vorrebbe quest’ultimo magnanimo fintanto che l’altro rimanesse entro i confini ben delimitati del proprio ruolo determinato alla nascita.

E probabilmente avrebbe riservato la stessa sorte anche a lei, carne della sua carne, non avrebbe esitato a sacrificarla sull’altare dei propri principi.

Sentì la gola secca, il battito accelerato e solo allora si accorse che le proprie mani avevano artigliato il lenzuolo in una morsa stretta da far male. Si sentiva come un fascio di nervi teso fino allo spasimo. Si alzò e prese a camminare nervosamente a piedi scalzi fino a infilare la porta senza neppure rendersene conto. L’orologio a pendolo posto a decorazione del mezzanino segnava le quattro del mattino. Non aveva una meta. Voleva solo vagare fino a seminare i pensieri che la inseguivano.
Invece si era ritrovata davanti alla porta della camera di lui. Non aveva motivo di essere lì, non sapeva esattamente come ci fosse finita, se non che le gambe ce l’avevano portata come mosse da una memoria propria. Ma non voleva parlargli. Non avrebbe potuto. Né avrebbe potuto chiedergli consiglio, non questa volta. Avrebbe forse dovuto demandare a lui di scegliere se rischiare la vita per averla o salvarsi per morire dentro? Perché questo era il dilemma con cui lei avrebbe dovuto fare i conti quella notte, e non avrebbe augurato a nessuno di trovarsi nei suoi panni, tanto meno a lui.

Rosso o nero?

Una leggera pressione sulla maniglia e il battente si era aperto verso l'interno mentre lei era rimasta ferma sulla soglia. La vista aveva faticato ad adattarsi alla poca luce proveniente dalle braci ormai morenti nel piccolo camino che ancora emanavano deboli bagliori di un arancione soffuso e dal magro spicchio di luna che faceva capolino dietro i vetri della finestra libera dalle tende che non erano state accostate. Individuò il letto parallelo alla porta e poco distante. Ci volle qualche attimo perché la mente assimilasse in un tutt'uno i particolari che mano a mano emergevano dalla messa a fuoco lenta e progressiva. Quando infine emerse la visione d'insieme anche il cuore cambiò ritmo, colto alla sprovvista e impreparato alla scena.

Il corpo di lui era prono, abbandonato al sonno, il braccio sinistro infilato sotto al cuscino, l’avambraccio del destro che ricadeva oltre il bordo del letto con la punta delle dita che arrivava quasi a sfiorare l’assito del pavimento.

Il viso, girato di lato nella sua direzione, appariva disteso, non fosse che per una piega verticale appena accennata sopra il naso a corrugare lievemente la fronte in un’espressione concentrata, le labbra piene lievemente socchiuse spiccavano sui lineamenti regolari del volto incorniciato da riccioli ribelli del nero dell’ardesia che ricadevano disordinatamente sul guanciale di un bianco candido, rendendo il contrasto assoluto.

Nonostante fosse cominciata solo da poco la primavera, si era coricato completamente nudo, solo un lembo di lenzuolo copriva parzialmente le natiche, che rimanevano per lo più esposte alla vista; come un sinuoso declivio da un versante del quale si dipartivano le lunghe leve leggermente divaricate, il ginocchio destro proiettato verso l’esterno in una flessione rilassata che accentuava al tempo stesso la curvatura del gluteo. La schiena sembrava opera di un abile scultore nella perfezione delle sue proporzioni: le spalle larghe anticipavano l’ampiezza del torace per finire poi nei fianchi stretti e ben torniti. L’immagine nel suo insieme trasmetteva una sensualità dirompente.
E il richiamo della carne diventò insostenibile. Il rosso acceso del desiderio la fece fremere fino al midollo.

«Oscar…».

Il suo nome che uscì dalla bocca di lui nel tono arrochito dal sonno e da chissà cos’altro, fu un richiamo irrinunciabile che la spinse a compiere un passo in avanti all’interno della stanza. Doveva essersi sentito così Ulisse nello sforzo sovrumano di resistere al canto ammaliatore delle sirene.

Adesso gli era così vicina da sentire il ritmo lento del suo respiro. Alzò una mano mimando una carezza immaginaria che partisse affondando nella massa scura dei capelli, per proseguire lungo le spalle a saggiare la consistenza dei muscoli, sentire il calore della pelle e poi giù a tracciare languide scie sulla schiena fino alla rotondità dei glutei possenti. Si chiese come sarebbe stato sdraiarglisi accanto, far aderire il proprio corpo al suo, pelle contro pelle, e sentirlo rispondere al suo tocco. E il rosso si fece della tonalità più intensa cui riuscisse a pensare.

Si prese il tempo necessario per raffigurarsi nella mente l’immagine di loro due insieme e le parve sublime.

Poi un rumore di passi proveniente dal corridoio la mise in allarme. Venne sopraffatta dal panico quando comprese che, chiunque fosse, si stava avvicinando proprio a quella stanza. In un barlume di lucidità riaccostò piano la porta rimanendo all’interno e spostandosi a destra lungo il muro, dalla parte opposta al senso di apertura del battente.

Questione di pochi istanti e la vide riaprirsi nuovamente, mentre lei si era portata entrambe le mani alla bocca per impedirsi di emettere suono. Non poteva vedere chi vi fosse sulla soglia, ma il suo pensiero andò immediatamente a Sophie.

Con suo grande sollievo fu invece il borbottio sommesso di Marie che udì. Evidentemente non rinunciava ancora a vegliare sul nipote come fosse ancora un bambino, il suo bambino.

«Ma guarda tu se ci si può mettere a letto in questo modo e senza chiudere la porta per giunta. Screanzato senza pudore».

Il calpestio dei passi le giunse sempre più fievole all’orecchio fino a scomparire del tutto. Il conforto dello scampato pericolo durò però solo un istante, il tempo di realizzare che se avesse ceduto alla propria tentazione, sarebbe stata una scena ben più conturbante quella che Nanny si sarebbe trovata davanti. E se poi al posto di Marie ci fosse stato il Generale? Non era poi un’ipotesi così remota, dato che qualche volta capitava che il padre fosse convocato d’urgenza nel cuore della notte e fosse quindi costretto ad andare personalmente a tirare Andrè giù dal letto affinché gli preparasse il cavallo in fretta e furia.

Riuscì quasi a vederla la faccia di suo padre alla vista di loro due nudi e allacciati come aveva rischiato di trovarli Marie.

E la paura più nera tornò per non darle scampo, per annientare qualunque anelito, qualunque gemito di piacere, seppure solo immaginato.

Il rosso doveva cedere le armi al vincitore e battere in ritirata. Non c’è colore che si possa opporre al ricatto del nero quando questo minaccia di prendersi la vita della persona più cara.
Non poteva far altro che arrendersi, rinunciare a lui, a loro e sperare di essere in grado di proteggerlo da se stesso, da lei e dal rosso che sarebbe sempre stato in agguato tra di loro.

Tornò nelle proprie stanze in un silenzio mesto.

Pensò che seppure il nero aveva dato dimostrazione della propria forza, il suo colore predominante era un altro.

  
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