Disclaimer:
I personaggi di Lady
Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di
Ryoko Ikeda.
VI
– 26 Marzo 1775
Aveva
passato in
rassegna uno a uno i colori che avevano dipinto il suo cuore nel corso
di
quella strana notte, alcuni lasciando segni tenui, altri imprimendo
solchi
profondi, fino a graffiarle l'anima. Il risultato assomigliava a uno
dei quadri
di quel Fragonard tanto in voga a Parigi negli ultimi tempi. Un
paesaggio dai
contorni sfumati, indefiniti, dove la bellezza dei colori predominava
sul disegno
rubandogli la scena.
Bianco.
La sensazione di armonia scaturita dalla
genuinità delle immagini dei genitori di lui evocate con
tanta delicatezza da
Marie, un acquerello senza tempo che le aveva parlato di persone
semplici e
autentiche.
Verde,
come il fastidio provato nell'apprendere
di tale Sophie, che bramava il suo amico mentre lei fino a poc'anzi ne
ignorava
persino l'esistenza. Gelosia? E' questo il nome che avrebbe dovuto dare
al
sentimento strisciante che le si era insinuato dentro?
Giallo,
il senso di tradimento e di rabbia cieca
verso Hortence. C'era davvero stato un tempo in cui lei avrebbe voluto
fare del
suo amico il proprio amante? Proprio lei, quella che sentiva
più affine, quella
con cui riusciva - se non a confidarsi - ad avere un dialogo che
andasse oltre
la superficie, non le aveva mai fatto intendere nulla. Quando era
successo? Se
lo sarebbe preso senza farne parola se non fosse intervenuto il
matrimonio che
il padre aveva combinato per lei? Come se fosse scritto da qualche
parte che bisognasse
chiedere il permesso a lei per avvicinarsi a lui. Lui che non era suo.
Oppure
si? Perché doveva ammettere con se stessa che ad averlo
saputo avrebbe fatto di
tutto per tenerla lontana, per mettere tra loro quanta più
distanza possibile.
E non avrebbe esitato a rinfacciarle qualunque sguardo o gesto equivoco
avesse
osato rivolgergli. Ma non sarebbe stata sincera sulle proprie
motivazioni, le
avrebbe derubricate camuffandole coi panni delle buone intenzioni di
chi,
affezionato ad entrambi, avesse solo l'obiettivo di proteggerli dalle
conseguenze di un gesto sconsiderato. Ora invece, nella solitudine
della
propria stanza, non poteva mentire a se stessa. Gelosia. Di nuovo.
L'avrebbe
allontanata per gelosia, né più né
meno.
Rosso,
come rosso è il sangue che aveva preso a
scorrere più veloce fino a farla avvampare in viso, fino a
farle contrarre il
ventre in uno spasmo languido quanto violento, quando aveva scoperto
che lui la
voleva. Quasi che il desiderio di lui l'avesse raggiunta e contagiata
nella carne
trovandovi un'inaspettata corrispondenza e si fosse propagato in ogni
fibra del
suo essere. Lui che non cedeva alle lusinghe delle altre
perché voleva lei. Si
era sentita potente. E debole. Debole come le gambe divenute molli che
non
l'avevano più sorretta; debole perché si era
percepita del tutto vulnerabile di
fronte al sentimento di lui che l'aveva trovata senza difese da
opporre, pronta
a lasciarsene travolgere.
Ancora
rosso.
Come il pericolo insito nella sua stessa reazione inappropriata.
Avrebbe dovuto
sentirsi tradita da lui, che aveva travestito l'amore coi panni
dell'amicizia,
ingannandola. Avrebbe dovuto essere arrabbiata con se stessa,
perché i segni
c'erano tutti perché lei li leggesse, ma aveva ogni volta
distolto lo sguardo,
non aveva avuto il coraggio di guardarli per ciò che erano.
Segni di un amore
inconfessabile. Sarebbe stata una reazione più adeguata e
meno pericolosa di
questa strana vibrazione che le faceva battere forte il cuore in un
ritmo
impazzito e incontrollabile.
Blu.
Come la naturalezza e l'innocenza delle
immagini che avevano preso a scorrerle davanti agli occhi scandendo i
richiami
di Marie alla loro vita insieme ai tempi della loro formazione. Le ore
di
studio col precettore, intervallate da altre dedicate all'apprendimento
dell'uso
delle armi, gli allenamenti, le corse a cavallo che si trasformavano
ogni volta
in gare a chi arrivava primo. E poi ancora le marachelle, le
conseguenti
punizioni di cui spesso si faceva carico lui, prendendosi tutte le
colpe, e lei
che poi gli portava di nascosto la sua parte di dolce, per
ringraziarlo, perché
a parole le riusciva difficile, facendogli credere di averla rubata
dalle
cucine anziché avervi rinunciato, unico modo per indurlo ad
accettare. Al
ricordo le si riempì il cuore di tenerezza, un sorriso a
incresparle il viso
ancora umido di pianto. Pensava che forse non si poteva chiamare ancora
amore
allora, ma che ci assomigliava già molto.
Grigio,
come la tristezza che le avevano
trasmesso le lacrime di Marie e la presa di coscienza che lo stesso
sentimento
può rendere qualcuno ebbro di felicità e gettare
altri nello sconforto. Grigia
tristezza perché, anche volendolo, non avrebbe saputo
recarle alcun conforto.
Non avrebbe potuto confutare l'infondatezza delle sue paure ora che,
suo malgrado,
si ritrovava a condividerle. Paura per la naturalezza e la forza con
cui
reazioni illogiche avevano soppiantato ogni ragione, imponendosi e
piegando il
corpo a brividi sconosciuti.
E
poi il nero. Il
nero che si ciba di tutti gli altri colori, privandoli della luce e
annientandoli, come il buio inghiotte la luce del giorno. Come la paura
sorda
che ha cancellato in un battito di ciglia tutte le altre emozioni. La
paura di
perderlo nella maniera più funesta. La paura nel riconoscere
che la battaglia
tra il nero e il rosso non ha
un esito scontato, perché il rosso
non si lascerà fagocitare senza opporre resistenza e
userà il suo calore innato
per dissuadere l'altro dalle proprie intenzioni. Paura per la
consapevolezza
che il rosso avrebbe trovato in lei un alleato condiscendente, mentre
il nero
avrebbe durato fatica a convincerla.
Tre
colpi decisi alla
porta interruppero all'improvviso il travaglio delle sue riflessioni.
«Oscar,
sei pronta?».
La
risposta si era fatta
attendere, mentre lei cercava di ritrovare la voce senza sapere cosa
dire.
«Oscar,
sei lì?».
Lei
si era imposta di
ostentare una calma che non provava nella speranza che il tono non la
tradisse.
«Sono
quasi pronta
Andrè, precedimi pure a far colazione, ti
raggiungerò tra un attimo».
«D'accordo.
Mi sa tanto
che il Bordeaux non ha fatto sconti neppure a te!».
Lo
sentì allontanarsi
ridacchiando e pensò di aver guadagnato appena qualche
minuto. Non poteva più
procrastinare oltre il momento in cui avrebbe dovuto affrontare il suo
sguardo
alla luce di una nuova verità. Con passo fintamente sicuro
aveva imboccato la
scalinata, concentrandosi sul ritmo del proprio incedere nel tentativo
di
congelare i propri pensieri e ammansire il battito del cuore fuori
controllo.
Lo
aveva trovato seduto al grande tavolo che troneggiava nelle cucine,
occupava lo stesso posto a cui era seduta Nanny fino a poche ore prima.
Tornare
in quel luogo, insieme a lei muto testimone della notte appena
trascorsa,
pregna di emozioni, le aveva fatto uno strano effetto. Non sembrava
neppure più
la stessa stanza, inondata com’era di luce naturale che
filtrava dalle ampie
finestre, così come erano cambiati gli attori ora che il
locale brulicava di
inservienti che si avvicendavano in un vai e vieni senza sosta. Pareva
non
essere rimasta nemmeno una lontana eco delle confidenze che vi erano
state
scambiate. Scrutò le superfici dei piani di lavoro,
finché un particolare
catturò la sua attenzione. Una tazza ormai vuota faceva
ancora bella mostra di
sé in un angolino appartato, rivendicando a sé
una realtà che Oscar sperava
ancora di poter ricacciare nell'illusoria dimensione di un sogno.
Senza
proferire parola aveva preso il posto che era stato di
Therése,
accanto a lui. Ne aveva osservato il profilo regolare mentre era
intento a
spalmare il burro su una fetta di pane tostato, senza ancora incontrare
i suoi
occhi, poi era stato lui ad intercettare il suo sguardo. Si fissarono
per un
lungo momento in cui si concesse di perdersi in quel verde che ora
sapeva non
vedere altre che lei. Lui di contro si sentì disorientato da
quell'indugiare
più del necessario.
«Si,
lo so, lo so, oggi non sono bello come al solito. Guarda che
però
anche tu non scherzi, hai certe occhiaie! La prossima volta mi sa che
è meglio
se ci fermiamo alla prima bottiglia».
Lei non aveva replicato, ma un sorriso involontario le aveva incurvato
un
angolo della bocca.
«Oscar, tu finisci con calma, io intanto vado a sellare i
cavalli».
Gli
aveva restituito un cenno affermativo mentre aveva continuato a
sorseggiare il tè. Non appena la porta si era richiusa
dietro di lui, si
accorse di un capannello di cameriere impegnate in un chiacchiericcio
serrato
mentre asciugavano le stoviglie con dei canovacci. Le pareva che le
mani e le
bocche si muovessero all'unisono in un ritmo frenetico. Non poteva
sentire cosa
dicessero perché avevano usato l'accortezza di parlare
sottovoce, ma non riuscì
a fare a meno di domandarsi se tra loro ci fosse anche quella Sophie e
se tutto
quel parlottare potesse riguardare lui. Aveva tergiversato rigirando la
tazza
ormai vuota tra le mani, osservando ora l'una ora l'altra nella
speranza di
cogliere un indizio. Infine aveva desistito e si era alzata avviandosi
verso le
stalle. Aveva già imboccato l'uscio quando aveva udito un
rumore di cocci in
frantumi. Poi una voce imperiosa si era innalzata sopra le altre
costringendola
a fermarsi in ascolto dietro il battente chiuso.
«Sophie!
Quante volte ti ho detto che devi fare più
attenzione?».
E
fu il giallo della gelosia che le fece tirare un
poco la porta a
sé, aprendo un pertugio attraverso il quale poterla cercare
con lo sguardo.
La
voleva vedere.
«Io...mi
dispiace
Gerard, non volevo, io.…».
La
individuò nel suo
fare contrito, sembrava mortificata e teneva lo sguardo basso sul
grembiule
immacolato che stropicciava nervosamente con le mani. Una folta
capigliatura
rosso rame era raccolta sotto la cuffia da cui sfuggivano ciocche
ondulate ad
accarezzarle le guance rosse di vergogna. Era molto giovane e minuta,
pensò che
le arrivava si e no alle spalle, ma diversamente da lei aveva forme
morbide,
generose. Alzò il viso per dire qualcosa senza trovare le
parole. Aveva occhi
grandi e scuri come la notte. Non sapeva cosa si fosse aspettata Oscar,
ma ora
che l'aveva vista le pareva soltanto una ragazza come tante, coi suoi
sogni di
ragazza che le parve ingiustamente crudele colpevolizzare.
«E'
mai possibile che tu
non capisca più nulla ogni volta che lo vedi? Eppure
dovresti averlo capito
oramai che quello lì vola alto! Se poi si vola troppo alto,
quando si cade ci
si fa molto male. E quello è destinato a cadere! Faresti
meglio a guardare
altrove Sophie, dai retta a uno stupido».
Nero.
Come la paura. Inequivocabili le parole
di Gerard, lasciavano intendere che i sentimenti di Andrè
non erano un mistero
per nessuno e la chiosa finale era suonata come un monito per lei e una
condanna per lui.
Se
ne era andata Oscar
col cuore in tumulto e un senso di angoscia che le attanagliava le
viscere.
Aveva attraversato a grandi passi l'ampio spiazzo erboso; era giunta
quasi a
metà quando aveva sentito chiamare il proprio nome da una
voce che non durò
fatica a riconoscere.
«Madamigella
Oscar,
com'è che quello sfaccendato di mio nipote non è
con voi? Non ditemi che è
rimasto a letto perché è la volta buona che gli
faccio assaggiare il mestolo di
prima mattina!».
Le
aveva parlato con le
mani sui fianchi che le davano un'aria più buffa che
minacciosa, mentre alle
sue spalle svolazzava un ampio lenzuolo accuratamente fissato al filo
teso che
conferiva un che di teatrale alla scena. Non era rimasto nulla del tono
grave e
ansioso di poche ora prima, eppure l'espressione degli occhi mal si
accordava
con la voce squillante e le battute di spirito che generosamente le
aveva
offerto nel tentativo di apparire quella di sempre. Oscar si era
domandata
quante volte Marie avesse dovuto dissimulare la propria angoscia a loro
beneficio, e il grigio della tristezza la colse
nuovamente.
«No
Nanny, a dire il
vero Andrè sta già preparando i cavalli. Sono io
piuttosto che stamattina non
riuscivo a staccarmi dalla tua deliziosa confettura di fichi. Non
dovresti
farla tanto buona, o prima o poi mancherò ai miei doveri pur
di finirla in una
volta sola!».
Dissimulò
a sua volta in
uno sforzo supremo con l’intento di regalare alla povera
donna una parvenza di
serenità. Poi l’aveva salutata con un cenno della
mano e si era incamminata
nuovamente.
Aveva trovato l'enorme portone spalancato con la luce che colpiva
violenta ogni
cosa all'interno facendo sembrare il manto dei cavalli, già
strigliati a
dovere, ancora più lucido. Lui era chino a controllare lo
zoccolo anteriore
sinistro del suo baio, le maniche arrotolate fino a metà
braccio, la giacca di
fustagno marrone appesa a un chiodo che sporgeva da una delle travi
basse che
sostengono il fienile. Si era girato nel percepire la presenza di lei
sulla
soglia, ma era stato costretto a ripararsi gli occhi con la mano.
Dall'interno
l'effetto della luce risultava opposto, disegnava Oscar come una sagoma
nera e
slanciata che si stagliava contro la cornice accecante della porta a
doppia
altezza.
«Sei
tu Oscar? Ho quasi
finito. Caesar è già pronto. Ho dovuto sostituire
il ferro anteriore sinistro
ad Alexander perché era troppo consumato, rischiava di
perderlo. Ancora due
minuti e sono da te».
«Fai
con calma Andrè, ti
aspetto qui».
Lo
aveva guardato armeggiare
abilmente con gli attrezzi da
maniscalco. Aveva osservato i muscoli degli avambracci tendersi nel
maneggiare
la tenaglia tira chiodi e poi quella da pareggio. Rosso.
Aveva finito il
lavoro in pochi movimenti fluidi e decisi, si era rialzato e aveva
gratificato
il cavallo accarezzandone la mascella ripetutamente, sussurrando parole
che lei
non era riuscita a carpire ma che Alexander sembrò
apprezzare, poiché avvicinò
il muso alla spalla del suo cavaliere e poi prese a strusciare la
guancia
contro la sua come un gatto che facesse le fusa. Blu.
Nella
girandola dei suoi
colori lui era proprio così, rosso e blu,
era forza, sicurezza e
desiderio, ma anche calma, pace e armonia. In lui il rosso
e il blu
erano colori comprimari in perfetto equilibrio.
Le
venne incontro coi
due cavalli ai lati che lo seguivano al passo, le porse le redini di
Caesar e
le loro mani si sfiorarono in un breve contatto che la fece sussultare,
lasciando lui perplesso.
«Andrè,
abbiamo fatto
tardi stamattina, forza, cerchiamo di recuperare».
Lui
stava ancora
montando in sella che lei aveva già spronato Caesar al
galoppo lasciandolo un
po’ indietro e pensando che avrebbe avuto bisogno di stare da
sola a schiarirsi
le idee, piuttosto che dover affrontare una giornata a Versailles, per
di più
insieme a lui.
Però
si dovette
ricredere. Era sorprendente come il suo senso del dovere riuscisse ad
imporsi
su tutto il resto e a renderle quasi facile calarsi totalmente nel
proprio
ruolo. Rimanere concentrata nell'adempimento dei propri compiti aveva
rappresentato una parentesi di sospensione preziosa, una distrazione
temporanea
concessa al suo cuore stanco.
Ma
il cielo si era fatto
liquido di striature rosse, arancioni e gialle come pennellate che un
pittore
distratto aveva steso in maniera bizzarra, lasciando che si
sovrapponessero in
mille sfumature calde e indistinguibili che si stagliavano sul blu
della tela.
Assomigliava al garbuglio dei suoi colori di cui non riusciva a venire
a capo,
e preannunciava la fine della tregua. Era tempo di tornare a casa.
Il ritmo del ritorno era stato un ritmo lento, scandito da poche parole
e
silenzi densi. Varcarono infine i cancelli della tenuta fino a
raggiungere le
stalle. Prima di affidargli Caesar, aveva recuperato la voluminosa
cartella di
cuoio portadocumenti sciogliendo le cinghie cui l'aveva assicurata.
«Oscar,
vuoi che venga
da te dopo cena?».
«Non
stasera Andrè. Ho
ancora del lavoro da sbrigare, più che altro rapporti da
redigere».
Aveva
fatto cenno al
pesante involto che teneva sottobraccio.
«Penso
che chiederò a
Nanny di portarmi la cena in camera, vorrei terminare il prima
possibile e
concedermi una buona notte di riposo. Dopo ieri sera credo ne avresti
bisogno
anche tu».
«Questa
è un'ammissione
della tua vulnerabilità al Bordeaux!».
Aveva
riso di cuore lui,
anche per scacciare quella punta di delusione che aveva sentito pungere
al
rifiuto di lei, seppure ben motivato.
«D'accordo.
Ci vediamo
domani mattina allora».
Lei
si era accorta
dell'ombra fugace che per un attimo aveva attraversato il suo sguardo.
Le era
dispiaciuto essere stata costretta ad escluderlo, ma si sentiva allo
stesso
tempo compiaciuta dalla sua reazione.
Gli
aveva sorriso con
gratitudine prima di girare i tacchi diretta ai propri appartamenti.
Si era tolta giusto la giacca, le calze e gli stivali impolverati, che
come
sempre qualcuno avrebbe avuto cura di farle trovare lustri l'indomani,
prima di
sdraiarsi sul letto. Aveva avuto la lucidità di portarsi a
casa un plico di
documenti raffazzonati a caso dal suo ufficio e crearsi così
un pretesto
credibile per restare sola.
Le
gambe incrociate
all'altezza delle caviglie, le mani dietro la testa e gli occhi chiusi
che in
realtà avevano ripreso a scrutare nel caleidoscopio dei suoi
colori.
Pensò
a quanto
paradossalmente la conversazione tra Marie e Therése le
fosse stata fatale. Le
loro parole l’avevano inconsapevolmente forzata a dare un
nome a sensazioni
conosciute da tempo, sulle quali si era sempre guardata bene dal
soffermarsi,
sospendendo il giudizio. Non era stata noncuranza la sua, piuttosto la
percezione istintiva di un pericolo dai contorni indefiniti che
l’aveva ogni
volta prevenuta dall’addentrarsi troppo in quelle emozioni
che scaturivano
repentine e prepotenti alla vicinanza di lui.
Le
aveva sbrigativamente
liquidate come i capricci di un corpo che manifestava oramai la propria
natura
in barba alle attitudini maschili che lei opponeva, divenute del tutto
inefficaci a negarla.
Ma questa definizione risultava ora più che mai inadeguata.
Il loro rapporto,
sviscerato in maniera tanto accurata da Nanny, parlava di molto altro
che non
una mera attrazione fisica.
Raccontava di un rapporto simbiotico in cui le rispettive
caratteristiche,
finanche contrapposte, fungevano da collante in una dinamica di
compensazione
continua, che portava ciascuno a prendere dall’altro
ciò che a lui difettava,
mantenendo entrambi in equilibrio, rendendosi reciprocamente
indispensabili.
Erano
la riflessività e
la calma di lui a mitigare l’impulsività e
l’irruenza di lei riuscendo a
prevenirne l’avventatezza, e viceversa era
l’impetuosità dell’una a scuotere la
pacatezza dell’altro, presentandogli la realtà coi
toni accesi della passione
che metteva in ogni cosa, e rendendogli praticamente impossibile non
sposarne le
cause e combatterne le battaglie.
C’era
solo una parola
adeguata a sintetizzare tutto quanto loro riuscivano ad essere insieme,
una
parola scomoda che nello spettro dei colori raccoglie tutta la gamma
dei rossi.
Amore. Amore profondo e leale, amore irruento e passionale.
Ma
questa notte lei si
era scoperta “il peggior nemico del suo migliore
amico”, la spada di Damocle
che pendeva sulla sua testa.
Ancora
una volta Marie
l’aveva stupita per la profondità con cui era in
grado di sondare l’animo delle
persone a lei care, il suo piccolo mondo di affetti che dimostrava di
saper
leggere come un libro aperto.
Se
Oscar avesse almeno
potuto trovare qualcosa da obiettare al suo personale ritratto del
Generale,
non sarebbe stata assalita dall’angoscia più nera
e dalla paura paralizzante
che l’aveva inchiodata là, in
quell’anfratto nascosto, incapace di qualsiasi
movimento.
Ma
il Generale era
esattamente così come lei l’aveva dipinto,
anch’egli non riconducibile a una
sintetica monocromia.
E
come Marie, anche lei
aveva di che essergli grata. Le aveva regalato una vita indubbiamente
molto più
libera - seppure ancora tenuta all’osservanza delle
convenzioni sociali - di
quella destinata alle altre donne. In virtù del proprio
ruolo aveva potuto
rapportarsi e confrontarsi con gli uomini al loro stesso livello.
Aveva
potuto esplorare
il mondo nel modo a lei più congeniale, libera da busti,
corsetti e crinoline,
libera di arrampicarsi sugli alberi, di sentire la sabbia fine delle
spiagge di
Arras sotto i piedi, libera di esagerare col vino, di frequentare le
bettole
veraci di Parigi, libera di avere un uomo al suo fianco per una vita
intera,
libera di vivere l’intimità in un rapporto
costruito intorno alla confidenza
del “tu”, quando era “voi” per
tutti gli altri, sua madre compresa. E chi, come
Marie insieme a tante, giudicava una costrizione il suo indossare le
fasce, non
aveva capito proprio nulla: c’avessero provato loro ad andare
a cavallo senza e
avrebbero finalmente capito quale fosse il sollievo e quale la tortura.
Le
aveva risparmiato
l’abominio di andare in sposa appena più che
bambina, come era stato per le sue
sorelle, a un uomo che avrebbe probabilmente avuto il doppio dei suoi
anni e a
cui avrebbe dovuto concedersi nell’intimità del
talamo nuziale senza peraltro
abbandonare la forma di cortesia, che le pareva
un’assurdità al solo pensiero.
Ché se la ricordava bene l’espressione ferita
delle sue sorelle il giorno dopo
le nozze, e il loro stoico e rassegnato mutismo che trasudava dolore e
delusione. Non c’era dubbio che avessero derubricato il sesso
coi rispettivi
mariti dal pur corto elenco delle gioie femminili, relegandolo
piuttosto alla
voce “dovere coniugale”.
Dietro
l’imprescindibile
espressione austera, suo padre era anche capace di atti generosi e
affatto impersonali,
come quando le aveva regalato Caesar il giorno del suo tredicesimo
compleanno,
allora poco più che un puledro allo stato brado. Ma aveva
capito come lei gli
avesse messo gli occhi addosso e aveva chiesto in segreto ad
Andrè di domarlo,
per conservare intatta la sorpresa. Quella volta avrebbe voluto
abbracciarlo
forte, anziché limitarsi al contegno di un
«Vi
ringrazio tanto,
padre».
cui
era seguito un cenno
d’assenso da parte sua.
Ma
c’era anche tutto il
resto. C’era la sua fede cieca nei valori e nel codice
militare, che anteponeva
a qualsiasi altra cosa e a cui aveva dedicato la sua intera esistenza.
E c’era
l’orgoglio smisurato per il proprio casato che avrebbe fatto
di tutto per
onorare, fiero che appartenesse a quella parte della nobiltà
più in vista a
corte e presso i Sovrani. Rispettoso del rango e convinto sostenitore
della
divisione della società in classi che distinguevano,
esattamente come
nell’esercito, chi contava da chi ricopriva una posizione
subalterna, come era
giusto che fosse, giacché non si poteva concepire un mondo
dove tutti
comandassero o viceversa dove tutti fossero alla pari senza che nessuno
fosse
investito del potere di tenere le redini.
Anche
lei non aveva
avuto dubbi: il generale gli avrebbe fatto pagare con la vita
l’affronto se si
fosse preso sua figlia di nascosto, in casa sua, senza averne il
titolo,
tradendo il rapporto di lealtà tra servo e padrone che
vorrebbe quest’ultimo
magnanimo fintanto che l’altro rimanesse entro i confini ben
delimitati del
proprio ruolo determinato alla nascita.
E
probabilmente avrebbe
riservato la stessa sorte anche a lei, carne della sua carne, non
avrebbe
esitato a sacrificarla sull’altare dei propri principi.
Sentì
la gola secca, il
battito accelerato e solo allora si accorse che le proprie mani avevano
artigliato il lenzuolo in una morsa stretta da far male. Si sentiva
come un
fascio di nervi teso fino allo spasimo. Si alzò e prese a
camminare
nervosamente a piedi scalzi fino a infilare la porta senza neppure
rendersene
conto. L’orologio a pendolo posto a decorazione del mezzanino
segnava le
quattro del mattino. Non aveva una meta. Voleva solo vagare fino a
seminare i
pensieri che la inseguivano.
Invece si era ritrovata davanti alla porta della camera di lui. Non
aveva
motivo di essere lì, non sapeva esattamente come ci fosse
finita, se non che le
gambe ce l’avevano portata come mosse da una memoria propria.
Ma non voleva
parlargli. Non avrebbe potuto. Né avrebbe potuto chiedergli
consiglio, non
questa volta. Avrebbe forse dovuto demandare a lui di scegliere se
rischiare la
vita per averla o salvarsi per morire dentro? Perché questo
era il dilemma con
cui lei avrebbe dovuto fare i conti quella notte, e non avrebbe
augurato a
nessuno di trovarsi nei suoi panni, tanto meno a lui.
Rosso o nero?
Una
leggera pressione
sulla maniglia e il battente si era aperto verso l'interno mentre lei
era
rimasta ferma sulla soglia. La vista aveva faticato ad adattarsi alla
poca luce
proveniente dalle braci ormai morenti nel piccolo camino che ancora
emanavano
deboli bagliori di un arancione soffuso e dal magro spicchio di luna
che faceva
capolino dietro i vetri della finestra libera dalle tende che non erano
state
accostate. Individuò il letto parallelo alla porta e poco
distante. Ci volle
qualche attimo perché la mente assimilasse in un tutt'uno i
particolari che
mano a mano emergevano dalla messa a fuoco lenta e progressiva. Quando
infine
emerse la visione d'insieme anche il cuore cambiò ritmo,
colto alla sprovvista
e impreparato alla scena.
Il
corpo di lui era
prono, abbandonato al sonno, il braccio sinistro infilato sotto al
cuscino,
l’avambraccio del destro che ricadeva oltre il bordo del
letto con la punta
delle dita che arrivava quasi a sfiorare l’assito del
pavimento.
Il
viso, girato di lato
nella sua direzione, appariva disteso, non fosse che per una piega
verticale
appena accennata sopra il naso a corrugare lievemente la fronte in
un’espressione concentrata, le labbra piene lievemente
socchiuse spiccavano sui
lineamenti regolari del volto incorniciato da riccioli ribelli del nero
dell’ardesia che ricadevano disordinatamente sul guanciale di
un bianco
candido, rendendo il contrasto assoluto.
Nonostante
fosse
cominciata solo da poco la primavera, si era coricato completamente
nudo, solo
un lembo di lenzuolo copriva parzialmente le natiche, che rimanevano
per lo più
esposte alla vista; come un sinuoso declivio da un versante del quale
si
dipartivano le lunghe leve leggermente divaricate, il ginocchio destro
proiettato verso l’esterno in una flessione rilassata che
accentuava al tempo
stesso la curvatura del gluteo. La schiena sembrava opera di un abile
scultore
nella perfezione delle sue proporzioni: le spalle larghe anticipavano
l’ampiezza del torace per finire poi nei fianchi stretti e
ben torniti. L’immagine
nel suo insieme trasmetteva una sensualità dirompente.
E il richiamo della carne diventò insostenibile. Il rosso
acceso del
desiderio la fece fremere fino al midollo.
«Oscar…».
Il
suo nome che uscì
dalla bocca di lui nel tono arrochito dal sonno e da chissà
cos’altro, fu un
richiamo irrinunciabile che la spinse a compiere un passo in avanti
all’interno
della stanza. Doveva essersi sentito così Ulisse nello
sforzo sovrumano di
resistere al canto ammaliatore delle sirene.
Adesso
gli era così
vicina da sentire il ritmo lento del suo respiro. Alzò una
mano mimando una
carezza immaginaria che partisse affondando nella massa scura dei
capelli, per
proseguire lungo le spalle a saggiare la consistenza dei muscoli,
sentire il
calore della pelle e poi giù a tracciare languide scie sulla
schiena fino alla
rotondità dei glutei possenti. Si chiese come sarebbe stato
sdraiarglisi
accanto, far aderire il proprio corpo al suo, pelle contro pelle, e
sentirlo
rispondere al suo tocco. E il rosso si fece della
tonalità più intensa
cui riuscisse a pensare.
Si
prese il tempo
necessario per raffigurarsi nella mente l’immagine di loro
due insieme e le
parve sublime.
Poi
un rumore di passi
proveniente dal corridoio la mise in allarme. Venne sopraffatta dal
panico
quando comprese che, chiunque fosse, si stava avvicinando proprio a
quella
stanza. In un barlume di lucidità riaccostò piano
la porta rimanendo
all’interno e spostandosi a destra lungo il muro, dalla parte
opposta al senso
di apertura del battente.
Questione
di pochi
istanti e la vide riaprirsi nuovamente, mentre lei si era portata
entrambe le
mani alla bocca per impedirsi di emettere suono. Non poteva vedere chi
vi fosse
sulla soglia, ma il suo pensiero andò immediatamente a
Sophie.
Con
suo grande sollievo
fu invece il borbottio sommesso di Marie che udì.
Evidentemente non rinunciava
ancora a vegliare sul nipote come fosse ancora un bambino, il suo
bambino.
«Ma
guarda tu se ci si
può mettere a letto in questo modo e senza chiudere la porta
per giunta.
Screanzato senza pudore».
Il
calpestio dei passi
le giunse sempre più fievole all’orecchio fino a
scomparire del tutto. Il
conforto dello scampato pericolo durò però solo
un istante, il tempo di
realizzare che se avesse ceduto alla propria tentazione, sarebbe stata
una
scena ben più conturbante quella che Nanny si sarebbe
trovata davanti. E se poi
al posto di Marie ci fosse stato il Generale? Non era poi
un’ipotesi così
remota, dato che qualche volta capitava che il padre fosse convocato
d’urgenza
nel cuore della notte e fosse quindi costretto ad andare personalmente
a tirare
Andrè giù dal letto affinché gli
preparasse il cavallo in fretta e furia.
Riuscì
quasi a vederla
la faccia di suo padre alla vista di loro due nudi e allacciati come
aveva
rischiato di trovarli Marie.
E
la paura più nera
tornò per non darle scampo, per annientare qualunque
anelito, qualunque gemito
di piacere, seppure solo immaginato.
Il rosso
doveva
cedere le armi al vincitore e battere in ritirata. Non
c’è colore che si possa
opporre al ricatto del nero quando questo minaccia
di prendersi la vita
della persona più cara.
Non poteva far altro che arrendersi, rinunciare a lui, a loro e sperare
di
essere in grado di proteggerlo da se stesso, da lei e dal rosso
che
sarebbe sempre stato in agguato tra di loro.
Tornò
nelle proprie
stanze in un silenzio mesto.
Pensò
che seppure il nero
aveva dato dimostrazione della propria forza, il suo colore
predominante era un
altro.