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Autore: _A m a l i a_    12/06/2015    3 recensioni
Milano, Seconda guerra mondiale.
Una storia d'amore più forte del tempo. Più forte della guerra e delle proibizioni.
Clarissa è la giovane figlia di un sostenitore del partito fascista. Cesare è l'uomo di cui s'innamora. Un uomo che combatte la dittatura e mette a repentaglio la propria vita per salvare quella degli altri. Un eroe silenzioso.
La loro storia cammina di pari passo con la disperazione, con la morte e cresce nascosta dagli occhi indiscreti di chi non potrebbe accettarla.
***
Dal 13esimo capitolo:
«Prometti di gridarmi che mi ami e che il suono delle tue parole mi arrivi anche sopra gli spari e lo scoppio delle bombe. Prometti di custodire una parte della mia vita nella tua, così che saprò che non ti lascerai mai morire, per non uccidere anche me.»
Genere: Drammatico, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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Come foglie d’autunno




~ prima parte ~





 
15.

Febbraio, 1945

La nudità non l’aveva mai imbarazzata, conosceva il suo corpo, le sue forme, i suoi particolari. Eppure non conosceva il corpo di nessun altro al mondo ed era forse questo ad intimorirla.

Cesare aveva lasciato che fossero le sue mani a scoprirlo dei vestiti, serrandole i polsi solo per rallentare la sua curiosità, la smania di un desiderio nuovo. E le parole che le aveva rivolto nel sentirla agitata, Clarissa non le avrebbe mai scordate; mentre implorava al suo corpo di non reagire in quel modo, di non tremare, di non fremere ad ogni suo tocco, di mostrare la stessa audacia che mostravano i suoi occhi.

Le aveva scostato la biancheria chiara e si era fatto spazio dentro di lei, cercando il suo sguardo, soppesando ogni movimento. Si allontanava ed entrava con lentezza quasi crudele, mentre la mano di Clarissa si aggrappava alla pelle della sua spalla, forte dapprima e poi sempre più leggera, come se le sottili dita concentrassero le uniche energie che le rimanevano. Si era chiesta che cosa provasse lui in quei momenti. Come poteva rimanere così lucido, mentre lei perdeva ogni controllo?

Quando il suo movimento era accelerato, le si era avvicinato ancora di più, aveva appoggiato le labbra alle sue, aperte in un grido muto pieno di sospiri. Di gemiti inarrestabili. Ma aveva scelto di tenere gli occhi aperti per guardare la piccola Clarissa farsi donna, sotto la morsa del suo corpo. 

Era stato annientante. Lento, interminabile. Rapido, inaspettato. 

Forse era stato anche doloroso, ma di un dolore di cui solo ora, Clarissa, scopriva l’esistenza. Un piacevole dolore che da quel momento non avrebbe mai smesso di desiderare.
 


Nelle sue fantasie non aveva mai fatto l’amore con Cesare. Non lo aveva mai privato delle sue camice, di quell’aria saggia e antica. Non era dunque preparata al corpo che le giaceva accanto.

Si mise a percorrere le linee della muscolatura, che sotto la sua mano pallida mostravano una carnagione ancora più scura di quanto avrebbe immaginato. Con la stessa mano percorse il torace e scese fino a disegnare un cerchio intorno all’ombelico, avanzò ancora più giù. Fu Cesare a fermargliela, portandola sulla sua bocca e baciandone le dita.

In penombra i suoi occhi sembravano quasi serrati. Lo sentì sorridere.

Rimasero lì, rintanati tra le mura della casa di Cesare. Tra quello che rimaneva di quelle mura. Vuota, silenziosa, distrutta, sembrava il luogo più romantico dell’intero pianeta. Fecero l’amore ancora e un’ altra volta ancora, senza sprecare una sola parola durante molti minuti.


 
«Lacci disfatti?» chiese stranita Clarissa, nel cuore della notte. Si girò per appoggiarsi al petto di Cesare e guardarlo negli occhi.

Lui rise. «Mi hai chiesto tu di essere sincero.»

«Lo so, ma.. lacci disfatti?» si fermò, regalandogli una buffa espressione sbigottita. «Come è possibile che la prima cosa che hai notato di me sono dei lacci disfatti?»

Cesare sorrise, di nuovo, e le carezzò la fronte. «Erano quelle scarpe nere che portavi, finivano sempre per disfarli. Mi domandavo come facessi a non accorgertene.»

«Avresti potuto avvertirmi, professore.»

«Si, ma vedi…in tal caso non avrei potuto sorreggerti.» disse, stringendola ancor di più. «quando puntualmente rischiavi d’ inciampare.»

Ora, Clarissa, dava un altro significato a quei lontani sguardi scuri, quasi imbronciati, e le braccia forti che la sostenevano appena un attimo prima di cadere goffamente a terra. Pensò a quelle scarpe, a dove fossero, a perché diavolo le aveva gettate via.
 


Non parlarono per lunghi minuti, poi Cesare sospirò. E fece quel che mai aveva fatto. «Ti strofinavi le dita della mano, quando aspettavamo che arrivasse il tuo tram. Non riuscivi ad evitarlo.» si fermò. «Lo fai quando sei imbarazzata e l’imbarazzo ti rende nervosa. Ma allora pensavo fosse solo per il freddo.»

Continuò. Parlare così intimamente gli costava una grande fatica, ma non per questo avrebbe smesso. «C’erano giorni in cui le tue labbra… avevano qualcosa di diverso. Erano meno chiare del solito.» Clarissa ascoltava la sua voce ad occhi chiusi. «E così ti immaginavo mentre ti toglievi agitata il rossetto, appena prima di raggiungermi.»

Senza darlo a vedere, Clarissa sorrise, avvertendo le sue gote pallide infiammarsi dalla vergogna.

«..ai nostri primi incontri ti stringevo la mano quando ti vedevo, ricordi? Nessun convenevole, nessun saluto. Solo una formale stretta di mano. Tu non mi guardavi mai negli occhi quando lo facevo, così potevo rimanere a fissarti i capelli mentre non te ne accorgevi. Ti assicuro che non c’era volta in cui non sentissi il bisogno di chinarmi a baciarli e l’istinto era così forte che per reprimerlo non potevo far altro che arrabbiarmi.»

Clarissa sentì aumentare il ritmo del suo cuore e d’istinto vi appoggiò una mano. Cesare si spostò sopra di lei, nascondendone il corpo minuto, ma la mano di Clarissa non si mosse.

«Mi arrabbiavo quando ti vedevo arrivare da lontano, mi arrabbiavo quando sbucavi fuori dal nulla, mi arrabbiavo quando parlavi e quando sorridevi. Mi arrabbiavo perché quelle parole e quei sorrisi non avrebbero dovuto far innamorare me. Io non avevo nessun merito.»

Clarissa gemette, quando entrò dentro di lei. Riavvertì di nuovo un calore offuscante.

«Guardavo i lacci disfatti,» respirò Cesare, spingendosi più profondamente. «per non guardare le dita… le labbra… i capelli.»

Le baciò le dita, le labbra e ispirò il profumo dei suoi capelli, prima di raggiungere il culmine di un piacere disarmante.



 
Si fece quasi l’alba.

«Dobbiamo andare, Clarissa.»

Lei si strinse forte a lui. Non era certa di essersi mai addormentata, in tutte quelle ore. «No. Non ancora.»

Le baciò i capelli e la sentì tremare. La piccola stufa aveva smesso di funzionare e le poche coperte non reggevano il freddo di febbraio. «Dobbiamo davvero andare, o ti ritroverò congelata tra le mia braccia.»

Sorrise e scosse la testa, certa di un’ unica cosa. «Non può succedermi nulla tra le tue braccia, Cesare. Nulla.»



 
Prima di lasciare quelle mura decrepite e spoglie, dove ancora rimbombava l’eco dei ricordi passati, Cesare le fece indossare il suo maglione scuro, passandolo oltre la piccola testa. Le maniche erano troppo lunghe e superavano le dita delle sue mani. La riscaldò stringendole le spalle e rimase a guardare i suoi occhi assonnati, pieni di amore.

«Grazie.» gli disse, guardandolo con enorme tenerezza.

Faticò a rispondere. Faticò a dire.

«Clarissa.» sospirò, come se fosse stata la parola più pesante dell’intero universo. Perdonami, amore mio.
 
 


27  febbraio, 1945

Di quel 27 febbraio poteva ricordare ancora tutto. La mente rimaneva lucida nel ripercorrere ogni aspetto della giornata, persino i più insignificanti.

Sua nonna l’aveva sgridata così tanto da arrivare a seguirla, per la prima volta, oltre il portone del palazzo in cui vivevano e serrarle un braccio. Sapeva che non era diretta alle lezioni di cucito, benché non sapesse dove fosse diretta. L’aveva pregata di rientrate in casa; non era prudente camminare a cielo aperto in quei giorni.

Che crudele le appariva. Nei suoi capelli grigi ben raccolti, nello scialle chiuso fino al collo e negli orecchini di perla, mentre si accorgeva della guerra, soltanto ora.

Clarissa si liberò dalla stretta e corse via, sull’ eco lontano degli insulti che le rivolgeva.

Su una cosa, però, sua nonna aveva ragione. La prudenza in quei giorni doveva essere la sua unica preoccupazione. Si respirava qualcosa di diverso nell’aria, come se la fine fosse vicina.

Sebbene la guerra avesse insegnato che la fine non si presenta mai tacita e silenziosa.

Soltanto qualche giorno prima, si era sparsa la voce dell’ennesimo mitragliamento a raso in una delle vie principali, mentre gli arei delle forze anglo-americane si muovevano sopra Milano, pronti a rispondere alle offensive fasciste.
 

L’ultima volta che lo aveva visto, tre giorni prima, aveva promesso a Cesare di non tornare al sottoscala per almeno due settimane. Nel solo pronunciare quella promessa, sapeva che non l’avrebbe rispettata: due settimane erano un infinità di tempo.

 
Attraversando piazzale Maciachini notò una fila di persone intente ad entrare in una delle mense collettive, stabilite dal Comune per il razionamento dei viveri. Una coppia attirò la sua attenzione. Il braccio dell’uomo cingeva il corpo della donna. Il suo volto sembrava stanco, assente e le sue mani erano raccolte in grembo. Intorno a loro c’erano quattro bambini, di età diverse, ma non si muovevano impazientiti dalla monotonia di quell’immensa fila, non giocavano, non si agitavano. Fissavano i loro genitori, senza dire nulla. Pensò ai Moscato, a quanto fossero potenti i loro sguardi silenziosi. Parlavano un linguaggio che solo i legami famigliari sapevano tradurre. Si ripromise di raccontarglielo una volta arrivata al sottoscala.


 
Ma qualcosa andò storto.

Attese più di un’ora il tram alla fermata, fin che un signore le si avvicinò. La guardò di sott’occhi. «In che zona sei diretta?»

Clarissa glielo disse.

«E’ dismessa da mesi quella zona.» commentò apatico. «Comunque, fossi in te cambierei idea. Qui oggi non passa nemmeno una mosca.»

«Per quale motivo?»

L’uomo rise divertito. «Per quale motivo?! Questa è bella.» disse. «In guerra esiste un solo motivo. La morte, ragazza mia. La morte.» Se ne andò scuotendo la testa e parlottando tra sé.
 

Senza indugiò, decise di farlo. Percorse quattro chilometri a piedi. Quattro lunghi chilometri in cui non aveva fatto altro che pensare a dove era diretta. Se Cesare l’avesse saputo, se l’avesse saputo l’amica Francesca che al suo contrario era così tranquilla, se sua nonna l’avesse anche solo immaginato…

 
Quando arrivò al sottoscala, lo sentì. Sentì che c’era qualcosa di diverso. Lo sentì mentre attraversava le scale. Era il suo corpo, era la sua mente, che la preparavano a quanto avrebbe visto.

Era il cuore che affannava nel trovare la prima porta spalancata; erano le mani che tremavano nel non riconoscere nessuna voce;
Era la sua bocca aperta ed erano i suoi respiri a riempire l’intero sottoscala.

Vuoto.

Le inferrate delle finestre erano state rimosse con violenza. Il tavolo gettato a terra, i piatti, i ritagli di giornale, tutto giaceva in un disordine muto. Era l’incubo che prendeva vita.

Erano le sue ginocchia che cadevano a terra;

erano le sue lacrime;

erano le sue grida;

erano i suoi implori;

ed era la fine, che non si presenta mai tacita e silenziosa.
 


Al centro di quel sottoscala, improvvisamente enorme, si chiudevano gli occhi di Clarissa Marchesi. E come si sentono le foglie, in pieno autunno, così si sentiva lei. Si staccava lenta dal ramo e scivolava verso terra.

Stremata, senza forze, senza coraggio, scivolava.
 

 

  
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