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Autore: Aleena    15/06/2015    1 recensioni
Nel regno di Lolth, ogni ottantotto anni i figli bastardi di Che'el Phish, la
Città Rossa, devono correre nell'arena. Non c'è possibilità di salvezza per i maschi, solo
una rapida morte.
Rakartha pensa che il suo sangue di femmina la salverà, ma la crudele divinità dei Drow,
Lolth, ha in serbo per lei una sorpresa che le cambierà la vita.
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Storia vincitrice dell'Oscar per il "Miglior Trucco e Acconciatura" agli Oscar EFPiani 2016
[1a classificata al contest "Sangue, Slash e Fantasy" indetto da Ynis sul forum di efp
2a classificata al contest "Of Monsters and Masters" indetto da La sposa di Ade sul forum di efp]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I fantasmi di Che'el Phish'
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CAPITOLO IV
LA CORSA



 
  Non meno di duecento schermi erano disposti lungo il perimetro della grotta di partenza, a intervalli regolari. I grandi palchi d'acciaio erano gremiti di Ilythiiri esaltati con in mano le strisce di carta delle loro scommesse. Le quotazioni dei singoli Corridori – il tempo di sopravvivenza previsto – lampeggiavano per tre secondi sotto i volti e i nomi delle vittime, ripresi in tempo reale dalla piccola telecamera che girava intorno al recinto in cui i maschi erano stati ammassati, pigiati come bestie.
Una strana mescolanza cromatica si alzava dal gruppo: la luminescenza tenue dei tatuaggi da scommessa. Governava il giallo, forte e pulsante, che copriva l’intera superficie del corpo di più di tre quarti dei Corridori.
Saranno i primi a morire aveva pensato Rakarth, vedendoli, spiccano come fari. Beh, non devono divertire nessuno d’importante, no?
Erano le scommesse del popolino, quelli che dovevano morire in fretta per non frustrare troppo le femmine nobili.
Il pensiero di essere scampata a quella vergogna finale inorgogliva Rakarth almeno quanto lo soddisfacevano i glifi men che vistosi che sfoggiava. Era stato un servo del suo protettore a tracciare quei segni: l’aveva chiamato fuori dall’arena d’allenamento e, con un ago che mandava un ronzio infernale, aveva cominciato a dipingere la sua pelle con il pigmento blu-argento, apparentemente senza uno schema preciso… o almeno chiaramente visibile. Aveva lavorato sul suo corpo per l’intera giornata, partendo dal viso e scendendo con ordine meticoloso fino alla pianta del piede, sotto il quale aveva tracciato una specie di “K” rovesciata.
La sua firma si era detto Rakarth.
Usava i piccoli pensieri per distrarsi dal dolore che l’ago gli procurava: minuscole punture di serpe che gli ferivano la carne ancora e ancora – mai sazie, mai soddisfatte. Rakarth tratteneva il respiro finché sentiva di non farcela più e stringeva di denti, cercando di non far uscire nemmeno un grido.
Sapeva che, se si fosse mostrato debole, gli altri non avrebbero esitato un istante ad affossarlo. Eppure invidiava quelli che, intorno a lui, gridavano a pieni polmoni la loro rabbia impotente. Quella notte sarebbero stati puniti dalla sua squadra – e da lui stesso, se avesse avuto la forza di muoversi – ma in quel momento erano liberi di sfogarsi.
Ne avevano effettivamente pestato uno fino a rompergli una gamba, poi. Yeurl l’avrebbe volentieri ucciso, ma Rakarth l’aveva fermato prima che li mettesse nei guai.
«Se lo ammazzi noi veniamo frustati e lui scampa la corsa. No, lascialo così… non togliergli la gioia di venir braccato e fatto a pezzi per primo, da sveglio.» aveva detto lei e Khalan aveva ridacchiato, punzecchiando la gamba sanguinante della vittima.
Era stato un bel diversivo, senza dubbio, ma non era servito a sfogare la tensione che cresceva di ora in ora, minacciando di esplodere in una furia omicida che a stento restava confinata nell’arena. Rakarth stesso era stato aggredito nei corridoi da un maschio che non ricordava di aver mai conosciuto. L’aveva sbattuto a terra e aveva cominciato a tempestargli il petto di pugni finché Rakarth, accecata dalla rabbia, si era trovata a cavalcioni di un corpo senza vita, intenta a mischiare scatola cranica e cervello con la polvere del pavimento.
Aveva trasportato il cadavere fino a una delle tante aperture che davano sulle fornaci della terra, che scorrevano rosse e calde diversi chilometri sotto di loro, e l’aveva osservato cadere. Non avrebbe subito una punizione per colpa di un maledetto suicida! Se anche qualcuno aveva visto, non aveva parlato… liberandola dalla seccatura di far volare altri cadaveri nel cuore della terra.
Il boato della folla riportò Rakarth al presente. All’unisono, l’intera arena voltò le teste verso la grotta principale, dalla quale la delegazione delle nuove sacerdotesse faceva il suo ingresso. Ventuno femmine perfette, abbigliate in strette tute nere e armate fino ai denti stavano in piedi su antiche portantine rituali, sorrette da due schiavi ciascuna. Intorno a loro danzavano cristalli fluttuanti multicolore, così traboccanti di potere da sembrare fragili e plastiche sacche pulsanti.
Gli altoparlanti diffondevano un canto di guerra rimasto immutato dai tempi della Fondazione di Che’el Phish, quando ancora i Mondi non erano stati unificati. Aveva note barbare e feroci che sapevano infondere coraggio ai carnefici e terrorizzare le vittime; le neo-sacerdotesse ne gridavano le parole con fervore, gli occhi rossi accesi di una luce folle e gioiosa. Dietro Rakarth, qualcuno cominciò a tremare violentemente, e l’eco della sua paura parve contagiare il gruppo come un’onda nefasta.
Iettatore del cazzo! Pensò lo jaluk, toccandosi quei maledetti arnesi che gli pendevano fra le gambe.
Una delle otto Grandi sacerdotesse che sedevano sul palco d’onore lanciò un grido e tutto tacque. Gli schermi si riempirono dell’effige sacra della Dea Ragno, crudele e feroce, e una sua immagine venne proiettata perfino sui Corridori – il ritratto di Lolth nella sua forma aracnoidea che tesseva una ragnatela attorno alla gabbia, catturandoli.
Perfino tra la folla ci fu chi esalò un grido strozzato, vedendola: era così dannatamente reale che Rakarth si trovò a cercare di farsi scudo di chiunque gli fosse al fianco pur di sfuggire alle Sue zampe, ai Suoi mille occhi voraci…
«Si dia il via alla corsa!» tuonarono all’unisono le Gran sacerdotesse. I recinti metallici si aprirono di scatto liberando la folla, che spingeva per fuggire.
I più fortunati morirono subito, schiacciati dai piedi nudi delle vittime terrorizzate in fuga.
Rakarth spinse a terra due maschi con un colpo violento, scivolando oltre le chiazze di sangue fresco. Davanti a lui, circondata dagli spalti delle tribune come da un orrendo mostro metallico dalle mille teste, si apriva la gola di una grotta, riflessa a intermittenza dagli schermi che inquadravano ora il massacro che si lasciava dietro, ora la via di fuga davanti alle vittime.
Rakarth non aveva bisogno di guardare quelle immagini: i rumori liquidi e le grida strozzate alle sue spalle gli davano un’idea piuttosto precisa di cosa stesse accadendo. Le femmine lanciavano incantesimi e proiettili quasi all’unisono, cercando di abbattere più vittime possibili. Ogni volta che una di loro atterrava un maschio, lanciava un urlo di vittoria e otteneva un piccolo glifo sotto la sua foto, proiettata sulla grande parete nera alle spalle delle Sacerdotesse.
Dietro di me.
Qualcuno spinse Rakarth da una parte, distogliendolo dai pensieri di morte che si stava lasciando alle spalle. Le gambe allenate risposero al fiotto d’adrenalina che gli fece pompare il cuore più velocemente e lo portarono avanti, ancora e ancora, verso l’incerta sicurezza dei tunnel.
Poi l’orlo della grotta l’avvolse, cancellando come per magia le grida esultanti della folla. L’aria umida della caverna, coperta di piante contorte e funghi giganti, era umida e stantia, così calda da mozzare il respiro. Il soffitto era basso in maniera opprimente e dalla volta pendevano, come occhi maligni, le piccole telecamere fluttuanti che li avevano seguiti da quando erano entrati, nudi, nell’arena.
Rakarth si guardò intorno, continuando ad avanzare in linea retta per diversi passi prima di tentare una svolta a sinistra. Il terreno, in lieve pendenza e coperto da ciottoli affilati come rasoi, sembrava volerlo guidare verso una fra le tante imboccature dei tunnel che si aprivano da quella prima grotta-anticamera.
Un labirinto!
Rakarth l’assecondò per svoltare, all’ultimo istante, in un tunnel stretto che si apriva a mezzo metro d’altezza dal suolo. Strisciando sulle ginocchia, percorse il tunnel per almeno tre metri prima di rendersi conto che era un vicolo cieco. Una trappola. Allora si acquattò ancora di più e, ignorando il bruciore allo sterno, si avvicinò alla pallida luminescenza dell’imboccatura. Sporse la testa quel minimo che gli occorreva per guardare sotto di sé senza che i suoi tatuaggi rivelassero la sua presenza.
Tre femmine scivolavano furtive fra gli alberi, le armi strette fra le mani. Una di loro – stupida idiota! – stringeva fra le dita una frusta al plasma, le cui estremità erano simili a serpi vive, pronte a balzare. Quell’aggeggio emanava una luce così vivida da penalizzare gli occhi sensibili, senza dubbio. Le altre due le stavano lontane, lanciandole occhiate disgustate senza però avvertirla del pericolo. Rakarth, col cuore a mille, attese, pregando la Dea di concedergli l’occasione.
Un rumore secco, l’eco di uno sparo in una caverna. Al limite del campo visivo di Rakarth due figure si mossero, correndo in direzioni opposte. Le due femmine, più vicine all’altro lato della grotta, si lanciarono all’inseguimento di un maschio dalla pelle marchiata di rosso mentre l’idiota con la frusta corse verso Rakarth, cercando di prenderne un’altro. Rakarth attese, richiamando alla mente le parole arcane della lingua magica. Raccolse una scheggia affilata e si ferì l’indice, facendo uscire sangue denso e nero con il quale tracciò spire e lettere sul braccio e sul petto. Poi, con uno scatto feroce, abbandonò la precaria sicurezza del rifugio e si gettò all’inseguimento della femmina con la frusta.
La stupida sacerdotessa non si accorse di Rakarth finché lei non gli fu addosso. Le strinse la bocca in una morsa di ferro e torse finché non sentì le ossa del volto frantumarsi. Il suo corpo, ora protetto da un velo di aura color acciaio, respinse le due coltellate che la sacerdotessa agonizzante gli indirizzò – poi l’arma le sfuggì di mano, finendo vicina al ginocchio di Rakarth, che recuperò la frusta e l’avvolse intorno al collo nero e esile della sacerdotessa. Strinse fin quando non vide il bianco degli occhi e ancora, sfogando su quel corpo ormai privo di vita tutta la rabbia che l’avvelenava dal giorno in cui aveva lasciato l’ala femminile.
«Whol ib'ahalii de' Lolth!» sputò nella lingua natia, dedicando quel sangue alla Dea. Sorrideva ora, le mani macchiate di rosso ormai prive della difesa dell’incanto.
Qualcosa di gelido scivolò fulmineo alla gola esposta di Rakarth, che sollevò la testa di scatto, ferendosi. Accanto a lui, l’arma in mano, c’era Shinzâr, una delle femmine con cui Rakartha era cresciuta. Era lei a sorridere, adesso.
«Hai davvero osato tanto, Rak.» le disse lei in tono confidenziale, lo stesso che usava un tempo, quando voleva sparlare delle compagne o delle maestre.
«Faccio quello che Lolth vuole. Come te.» le rispose Rakarth, modulando la voce a una calma forzata. Il petto si abbassava lento ma gli occhi dovevano tradire la sua agitazione, saettando rapidi da una parte all’altra della grotta, come in cerca di una via di fuga.
«Già. Non era granché. Poco male, no?» Shinzâr  le si avvicinò quel tanto che bastava per cominciare ad afferrare le armi.
È sempre stata una dannatissima ingorda! Pensò Rakarth, cercando di trattenere un sorriso. Doveva mostrarsi spaventata, senza speranza.
Lentamente, le dita si muovevano a tracciare nella polvere del suolo un simbolo spigoloso, nascoste dal dubbio riparo del suo piede.
«Ti ringrazio di avermi procurato tutte queste belle armi, Rak. Ma ora devi morire, lo sai vero?» continuò Shinzâr, caricando il movimento. Rakarth sporse ancor più il corpo nudo, spostandosi in modo che l’altra potesse osservare cos’aveva in mezzo alle gambe. Funzionò. La mano della femmina si fermò appena in tempo, facendo spillare solo poche gocce di sangue. Lei sorrise, gli occhi carichi di malizia, curiosità e di quel desiderio che non doveva aver soddisfatto poi molto, dopo i Generali.
«Cos’è quello sguardo? Avresti voluto farti un giro?» disse Rakarth, laido, cercando di tirar fuori il suo miglior tono virile.
«Se avessi saputo prima che eri uno jaluk avrei tentato. Ho sempre voluto metterti sotto, Rak.» disse Shinzâr girandosi appena per guardarlo in volto. Per sfidarla.
Il coltello si spostò quel tanto che bastava perché Rakarth potesse muoversi senza rischiare di ammazzarsi da solo. La lama aprì uno squarcio profondo sulla mascella del maschio, lasciandosi dietro una scia di pungente gelo. Rakarth spostò un ginocchio verso la pancia dell’altra, spingendola lontana da lui. Lei gridò, offesa e infuriata, e la sua voce coprì l’invocazione magica di Rakarth.
Lame di roccia sorsero dal terreno davanti alla mano protesa dello jaluk, saettando come fossero vive. Dilaniarono la carne di Shinzâr senza trovare alcuna resistenza e poi le si avvolsero intorno, inglobandola assieme alla non-sacerdotessa morta. Nel giro di qualche secondo solo due cumuli di terra irregolare e alcune armi sparse segnavano il luogo in cui si era svolto il combattimento.
«Stupida puttana!» disse lo jaluk, sputando – e la sua voce era quella di Rakartha, morbida e sensuale.
Raccolse in fretta le armi e riprese la sua corsa folle, scivolando attraverso tunnel scelti arbitrariamente. Evitava le grida e il buio, preferendo passaggi silenziosi in cui i funghi luminescenti le permettessero di mimetizzarsi. Lanciava preghiere alla Dea ogni volta che svoltava un angolo e, ben presto, cominciò a pensare di essere entrata nelle Sue grazie, data la fortuna che stava avendo. Non incontrò che pochi maschi disarmati, che finì a colpi di frusta o con il coltello – come una sacerdotessa. Dedicava il loro sangue a Lolth e scappava oltre, convinto che nessuno avrebbe battuto una pista che, evidentemente, una Cacciatrice stava già percorrendo.
Fu quando una luce vermiglia si riflesse alla fine di un tunnel che Rakarth cominciò a pensare alla superficie. Quelle gallerie sarebbero verosimilmente potute sbucare da qualche parte… un luogo in cui avrebbe potuto nascondersi e riposare. Il petto si alzava frenetico, i polmoni dolevano per il bisogno di ossigeno in quell’aria umida. Era coperto di sudore e aveva i muscoli in fiamme, le ferite che gli bruciavano. Con un fiotto di speranza si costrinse ad avanzare a ritmo sostenuto solo per trovarsi fermo col cuore in gola, davanti a un fiume di lava che scorreva a meno di dieci metri da lui.
La delusione riempì d’amaro la sua bocca, dandogli la nausea. Il calore lo stordiva come mai aveva fatto, facendo pulsare il sangue nelle orecchie a un ritmo che lo assordava.
Rimase a fissare il fiume vermiglio e pensò che non sarebbe stato male, che finire in un rivolo color sangue o col sangue che scorreva a rivoli non era poi tanto diverso. Era quella, la vera libertà?
Non ebbe il tempo di rispondere che qualcuno lo afferrò alle spalle, tirandolo indietro. Il coltello gli cadde di mano, perdendosi nel fiume incandescente con un tonfo sordo che invase la mente di Rakarth, estraniandolo dalla realtà. Cercò di lottare ma un altro paio di mani gli serrarono le gambe, facendolo crollare a terra. Corde di ferro gli si avvolsero intorno, immobilizzandolo, e prima che potesse anche solo realizzare di essere fottuto si trovò a scivolare sul terreno, ferendosi il fianco.
I due lo trasportarono per alcuni metri, fino all’ennesimo tunnel. Lo depositarono alla bocca del passaggio e lo spinsero rudemente. Rakarth precipitò per alcuni secondi prima di incontrare una superficie fredda e metallica. Il buio lo circondava, impedendogli di capire dove o cosa fosse. Cercò di muovere le mani per creare un globo di luce, ma non gli fu possibile… e comunque, con la bocca bendata non poteva fare molto. Allora aspettò, preparandosi a lunghi giorni di agonia prima di una morte per stenti.
Lasciò che il buio lo avvolgesse e trattenne una bestemmia alla sua Dea, che lo aveva guidato a una fine tremenda solo per il proprio divertimento. E forse lei lo sentì, perché tante piccole creature presero a strisciare sul suo corpo inerme.
I ragni dei Lolth sono venuti per la mia carne pensò, mentre sentiva uno di loro morderlo al collo.
Sperò che facessero in fretta.  


 
 
  
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