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Autore: _browns eyes_    16/06/2015    3 recensioni
E se non ci riuscisse, come diamine facevo a crescerla da solo? E se sbaglio qualcosa, e se non cresce nel modo che desiderava e la deludessi. Chiusi gli occhi per calmarmi, soprattutto per non piangere, ma non funzionò perché appena li riaprii una lacrima sfuggì al mio controllo.
Mi fermai ormai non ero nulla, mi voltai la fissavo vuoto. Lei si avvicinò a me lentamente e mi abbracciò ed io scoppiai a piangere. Come diavolo facevo a crescere una bambina da solo?
Ero semplicemente terrorizzato.
**
“Come? Dammi almeno un motivo!”
“C’è il tuo sposo, fatti aiutare da lui! Io mi tiro fuori”
“Perché? Adesso che eravamo diventati amici”
“è questo il punto! Noi non saremo mai amici!” urlai, facendola sobbalzare
“Perché fai così?”
“Non ti voglio intorno sapendo che non sei più mia. Non ti voglio intorno sapendo che non ti posso baciare e farti diventare mia! Ma soprattutto non ti voglio intorno sapendo che Sheyleen ha intorno sua madre e che non si ricordi di lei. Perché sei tu la madre!” sbraitai in lacrime, lei mi guardò sbalordita.
**
Spero che vi piaccia :)
Enjoy it :)
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Louis Tomlinson, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 23:

Nobody said it would be easy
Oh, it’s such a shame for us to part
Nobody said it would be easy
No one ever said it would be so hard
I’m going back to the start
(The Scientist by Coldplay)

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Restai in quel luogo per tutta la notte con le braccia appoggiate sul volante e lo sguardo perso al chiarore della luna. Ero troppo stanca e distrutta per poter guidare fino a casa. Mi strinsi la giacca e caddi nelle braccia di Morfeo dopo poche ore. Mi risvegliai intontita la mattina verso la sei. Riprendendo le forze, ingranai la marcia e me ne andai da lì. Alla fine Louis non era nulla per me, tranne il padre di Sheyleen e i ragazzo che mi piaceva, eppure lui aveva deciso di andare avanti nonostante tutto; e anch’io dovevo farlo per il mio bene e quello del mio futuro matrimonio. Dovevo solo innamorarmi di Dylan di nuovo. Ci sarei riuscita. Infondo lui era un ragazzo meraviglioso.

Una decina di minuti dopo arrivai di fronte al mio palazzo e, spegnendo tutto e scendendo dalla macchina, ci entrai. Non avevo voglia di prendere l’ascensore poiché avevo bisogno di schiarirmi un po’ la mente. Così, nonostante la stanchezza, salii ogni singolo gradino fino al terzo piano dell’edificio. Salutai i pochi lavoratori mattinieri a causa del fatto che dovevano andare fuori città, e tra poche ore io sarò come loro. Avevo anche un’importante riunione quella mattina, ora che ci riflettevo. Sospirai e, parandomi davanti alla porta del mio appartamento, l’aprii delicatamente senza fare alcun rumore. Allo stesso modo nel chiuderla. Qualcosa attirò la mia attenzione: Dylan era sdraiato sul divano addormentato. Dal braccio penzolante si notava il telecomando nero sul punto di cadere per terra. Sul mio viso si dipinse un sorriso addolcito e con passo felpato mi recai da lui. Gli tolsi quell’oggetto e istintivamente ritrasse la mano, ponendola sul suo stomaco. Mi sedetti nel piccolo spazio presente e mi fermai a contemplarlo: il suo viso poco rilassato visto che la sua fronte era leggermente corrugata, una piccola fessura tra le sue labbra rosee da cui uscivano respiri profondi, sulle sue guance un lieve rossore fino al livello del naso. I suoi capelli marroni erano tutti spettinati e il ciuffo alzato sempre perfetto in quel momento era abbassato e gli tagliavano l’occhio sinistro chiuso. Sorrisi e glielo spostai con delicatezza. Poi gli carezzai la guancia un paio di volte, facendolo quasi svegliare. E fu così. Lui sbatté più volte le palpebre, mostrandomi la sua vista alquanto assonnata e confusa in un primo momento.
-Brooke- mugugnò qualcosa, passandosi i polsi sopra gli occhi.
-Hey, buongiorno amore- lo salutai come se nulla fosse. Invece, nella mia mente, i ricordi facevano a pugni per imporsi al mio autocontrollo.
-Dove sei stata?- domandò, tirandosi su con la schiena e sedendosi.
-Sono qui ora, giusto?- rigirai la domanda con un piccolo sorriso.
-Sei incorreggibile- commentò, scuotendo la testa divertito. -Mi sono preoccupato. Cavolo hai un cellulare, una chiamata non ti costa nulla- mi rimproverò.
-Mi dispiace- risposi, assumendo una faccia da cucciolo. Lui sospirò e decise di lasciar perdere. Mi attirò a sé e mi concedette un tenero bacio. Li adoravo e mi mandavano sempre fuori di testa. Andando avanti di questo passo, il piano potrebbe realmente funzionare: lui è l’amore fatto in persona. Ricambiai molto volentieri, avvicinandomi con il corpo e facendolo aderire con il suo. Lui portò la mano sulla mia guancia per approfondirlo. Durò qualche secondo e sembrava di essere in paradiso. La mia mente si liberò completamente da quel brutto ricordo, invece il mio cuore stava urlando disperatamente il nome di Louis. Non l’avrei ascoltato. L’avrei semplicemente ignorato. Si staccò e mi sorriso gentilmente.
-La prossima volta, ti prego, avvisami se stai fuori tutta la notte. Almeno eviterò di disturbare polizia-
-Hai chiamato la polizia?-
chiesi, stupefatta.
-Ho cercato, ma ho sbagliato numero e ho telefonato ad un ristorante chiamato “The Police”- ammise, grattandosi la nuca imbarazzato. Assimilai quelle parole e scoppiai in una fragorosa risata. -E ha risposo una che si chiamava Polizia a quanto pare- aggiunse, aumentando il mio divertimento.
-Va bene- lo accontentai
-A proposito, dato che c’ero ho riservato un tavolo tutto per noi per stasera. Ci andiamo, vero?-
-Mh.. perché no?-
risi, ricevendo un altro bacio.
Restammo per un’altra ora a coccolarci quando quella sveglia assordante ci segnalò che erano le sette ed era ora di alzarci. Svogliatamente le prestammo ascolto. Lui si diresse verso il bagno visto che sapeva che, una volta in cui ci entravano Paige e Queen, avrebbe fatto tardi. Invece io mi diressi nella camera degli ospiti per assicurarmi del benessere di mia figlia. 

L’aprii lentamente e la chiusi nello stesso modo. Mi approssimai verso il letto e l’osservai in quello stato dormiente. Era sempre dolcissima, però fui in grado di intravedere del bagnato sulla sua guancia. Mi rattristai, capendo che la scorsa notte aveva pianto ed io ero lontana da lei. Oramai Sheyleen era mia figlia e dovevo essere una mamma perfetta, dandole tutto l’amore e sicurezza possibile. La scossi leggermente per svegliarla.
-Tesoro, alzati- le sussurrai, dolcemente. Lei fece dei strani versi e si coprì il viso con il lenzuolo. -Questa scena l’ho già vissuta- commentai, ridacchiando. Era tipico di mio nipote quando non voleva andare a scuola. -Shey, andiamo-
-Cinque minuti- si lamentò, affondando la sua faccia nel morbido cuscino bianco. Alzai gli occhi al cielo e, posando la mano sulla sua schiena, la mossi lievemente.
-Andiamo! Se no non riusciamo a fare colazione-
-Da Ian?-
domandò con una vocina dolce, anche se da quel cuscino l’effetto voluto non era uscito molto bene. Risi.
-Si, ma ti devi alzare- patteggiai, incrociando le braccia al petto. La piccola si stiracchiò e mi concesse un piccolo sorriso.
-Ho voglia di pancakes- commentò, massaggiandosi il pancino.
-Sinceramente anch’io. Ian li fa?- le chiesi. Lei confermò con un piccolo sorriso e si buttò tra le mie braccia. Rimasi un po’ interdetta, ma ricambiai lo stesso quella stretta.
-Grazie, Brooks- mormorò al mio orecchio.
-Figurati, piccola- conclusi, lasciandole un leggero bacio sulla nuca. In seguito, ci alzammo e ci preparammo per le rispettive giornate. Sheyleen indossò la sua uniforme dell’asilo, anche se avevo constatato che era l’unica pulita; all’opposto io mi ero messa dei vestiti eleganti per la riunione con i negoziatori. Entrambe giungemmo poi il salone principale, in cui vi erano Dylan, Tina e Paige. Queste ultime erano sdraiate sul divano devastate.
-Odio la mattina- si lagnò Paige, tirando un calcio al bracciolo del divano. Dylan si trattenne dal ridere come noi due. Scossi la testa e, prendendo le ultime cose, li salutammo alla solita maniera. E fu così che alle sette e quarantacinque del mattino, Sheyleen ed io stavamo marciando verso il bar desiderato per una buonissima colazione. Infondo la giornata sarebbe stata lunga e intensa.
 

*Louis*
Non mi sentivo affatto bene in quella mattinata, però non potevo abbandonare il mio piano così presto. Dovevo resistere. Mancava poco e poi non pensavo più a nulla per le prossime due settimane. In quel momento quella casa era completamente vuota, dato che i ragazzi erano ritornati alle proprie abitazioni per riposare un po’ e mia madre stava dormendo nella stanza degli ospiti. Invece io ero con le cuffie alle orecchie, seduto sul letto e con lo sguardo perso. Ripensai intensamente alla serata precedente: di come avevo rotto definitivamente da lei, delle sue suppliche, che mi distruggevano progressivamente. Avevo dovuto perché il mio bene era vincolato da lei. Sospirai e, innalzando il volto, vidi quella valigia nera richiamarmi. Infondo mi spettava farla, ma non così presto. Mi distolsi da quella posizione per afferrarla. La tirai giù con quella poca forza, che avevo, e cercavo di non produrre nessun rumore. Non volevo svegliare mia madre, la quale era estremamente stanca. L’appoggiai sul letto e l’aprii per farle prendere un po’ d’aria. Nel frattempo mi sedetti alla scrivania, rigirandomi un piccolo fogliettino tra le mani. Aveva sempre detto di utilizzarlo in caso di bisogno. Ne era realmente necessario? O meglio ero così disperato da chiamarlo? Impugnai il mio iphone e la musica assordante si trasformò in un fastidioso “tu”. Proseguì per circa quattro volte quel suono. “Tipico” esclamai deluso. Stavo per chiudere la chiamata, quando una voce femminile e quasi sorpresa rispose. M’infusi coraggio e gli replicai. Ebbene si, ero talmente malato da chiedergli aiuto.
 

*Brooke*
Fu inutile dire che quella assemblea ebbe un gran successo. Gli imprenditori erano rimasti entusiasti di quella progettazione di case completamente ecologiche nei pressi dei grandi parchi londinesi tanto da offrire una bella somma per avviarlo. Anche il mio capo mi fece le congratulazioni. Insomma ero abbastanza soddisfatta del mio lavoro. Uscimmo da quella sala conferenze e, salutandoli e ringraziandoli per la loro bontà, mi recai nel mio studio insieme ai miei due assistenti.
-Non posso credere che abbiano accettato- esultò euforico Carl
-Pendevano dalle tue labbra, Brooks- ridacchiò Noemi. Sia io che il ragazzo la imitammo.
-Non è vero- mi difesi, prendendo la mia borsa.
-Oh no? Carl?- convocò l’altro aiutante per confermare le sue parole. Risi nuovamente e li salutai. Infondo la mia giornata era finita. Dovevo solo fare delle fotocopie prima di timbrare. Così, salutando anche Karol, giunsi al primo piano accanto alla macchina. Tirai fuori i documenti ed ero pronta per riuscire nella mia missione, se non fosse per quel stupido oggetto, che non voleva contribuire. Sbuffai e, legandomi i miei capelli castani in una coda di cavallo, mi abbassai per capire cosa c’era che non andava.
-Oh, hai fatto conoscenza con Milady- una voce ironica assalii le mie orecchie. Accennai una lieve risata e mi alzai. Notai la figura di un ragazzo in tiro: era giovane; alto; abbastanza magrolino, ma lo smoking nero lo faceva più muscoloso; aveva i capelli castani chiari ricci e due occhi nocciola; e sulle guance si intravedevano delle fossette. Mi sembrava quasi Harry se non fosse per i suoi occhi scuri.
-Come scusa?- non fui in grado di trattenere per me la risata.
-Milady. La chiamiamo così perché fa i capricci e molto spesso non vuole collaborare- mi spiegò, avvicinandosi e indicandola.
-Oh, ora ho capito- risi, seguita da lui. Il ragazzo diede qualche colpetto e, provocando un piccolo rumore, fu soddisfatto.
-Ecco, così va meglio- esclamò, incrociando le braccia.
-Grazie- gli dissi, tentando ancora a fare le fotocopie. Questa volta ci riuscii. Mi voltai verso di lui, che mi sorrise alzò in alto i pollici. Non l’avevo mai visto da quelle parti, sebbene io fossi in quella azienda da poco tempo. Comunque dovevo ammettere che era stato davvero gentile.
-Sono Fabien- si presentò, allungando la mano, che strinsi molto volentieri.
-Brooke- ricambiai.
-Oh, lo so chi sei. Mio padre non fa altro che parlare di te-
-Tuo padre?-
cercai una spiegazione, la quale non tardò ad arrivare. Lui mi sorrise nuovamente.
-Si, Carl Hoon- sussultai a quel nome perché non pensavo che Carl, il mio assistente, avesse un figlio di quell’età. Insomma avevo visto una foto e c’erano dei bimbi piccoli e non un adolescente, anche carino. Poi non si assomigliavano per nulla. -Scioccata? Beh, se mi concedi un caffè, ci potremmo conoscere meglio-
-Che ci stai provando, ragazzino?- lo presi in giro.
-No, mi piace solo incontrare persone nuove- si giustificò, stringendosi le spalle. -E poi la fidanzata ce l’ho- aggiunse con un tono alludente ad altro. Scoppiai a ridere e gli regalai un piccolo pugno sul braccio. Mi fece la linguaccia. Era molto buffo e dovevo ammetterlo. Un suono catturò le nostre attenzioni e notai che la fotocopiatrice aveva concluso il suo compito. Riporsi il materiale nella mia grande borsa e fissai Fabien indecisa sul cosa farsi, ma alla fine sorrisi. Cominciai a incamminarmi verso gli ascensori e, vedendo che non mi seguiva, mi voltai. Lui era rimasto a fissarmi interdetto.
-Allora questo caffè?- obiettai, facendogli spuntare un sorriso sulle labbra. Mi raggiunse e insieme andammo nella caffetteria. 
 

*Louis*
Stavo riponendo alcuni vestiti in quel borsone. Non avevo bisogno di tanti cambi in quelle settimane di svago. Dopo la mia telefonata, avevo comunicato a Simon la mia decisione ed era stato molto cortese nell’accettarla e rispettarla, raccomandandomi solo di essere puntuale per il tour e di studiare la scaletta non appena me la mandavano. Era l’ora di pranzo e la casa pullulava di persone. Ero a conoscenza del fatto che sarebbe stato meglio fare la valigia quando non c’era nessuno, eppure non riuscivo più a resistere. Percepivo di essere soffocato sempre di più da quelle pareti colorate. Dovevo cambiare aria al più presto. Ero vicino alla scrivania quando bussarono alla porta. Spalancai gli occhi e, come un flash, nascosi quella sacca sotto il letto prima che Harry riuscisse ad entrare. Tirai un sospiro di sollievo perché non volevo che loro lo sapessero. Almeno non ora. Secondo il mio piano era più facile dirlo attraverso uno stupido bigliettino, che a parole. Poi con il primo metodo, io ero già lontano e loro non potevano impedirlo. Harry entrò e sfoggiò un piccolo sorriso, al quale ricambiai.
-Sotto è pronto- mi comunicò. Annuii.
-Certo, arrivo. Devo solo finire di fare una cosa-
-Stai bene?-
mi domandò su due piedi, bloccandomi. Spalancai di poco gli occhi e sbattei più volte le palpebre, sorpreso.
-Si, o meglio, come al solito.. perché?-
-Tua madre ci ha detto che sei tornato a casa piangendo e.. insomma.. ci siamo preoccupati-
mi mise al corrente. -Mi sono preoccupato- aggiunse, scrutandomi da capo a piedi.
-Sto bene. Ieri ho dovuto risolvere una cosa e..-
mi fermai da solo nel constatare quell’espressione disillusa.
-Certo, non mi devi dare spiegazioni. Io te l’ho chiesto per capire se avevi bisogno del nostro aiuto, ma a quanto pare no-
-Harry-
lo richiamai, gentilmente.
-Scusa- mi disse solamente, dandomi le spalle. -Appena hai finito scendi. Stiamo aspettando solo te-
-Hazza, io..-
-Non devi confidarti per forza se non vuoi-
mi consolò con un piccolo sorriso amaro e malinconico. -Io e i ragazzi ne abbiamo parlato stamattina sai- cominciò. -Noi ci siamo per ogni cosa, e questo lo sai, ma non ti stresseremo più. Sarai tu a cercarci. Anche se dubito che lo farai- proseguì, scuotendo la testa.
-Non puoi dire così- mormorai.
-Non possiamo obbligarti a sputare fuori la verità. Non siamo così meschini da farlo-
-Non ho detto questo-
ribattei, alzando di poco la voce.
-Lo so, te lo sto dicendo io- mi appoggiò.
-Non capisco cosa vuoi sentirti dire- affermai, guardando da un’altra parte. -Che sto di merda e che peggioro sempre di più? O che ieri ho rivisto Brooke e, dopo averla lasciata, confessando tutto, sto ancora peggio? Dimmelo, Harry! Così ti accontento e non vedo più la tua palese delusione nei miei confronti- urlai, perdendo leggermente il controllo.
-Lou- sussurrò, meravigliato.
-Sai cosa, ho cambiato idea. Non ho più fame- conclusi, avvicinandomi a lui e spingendolo fuori dalla stanza. Serrando la porta, mi accosciai a terra e nascosi il mio viso ferito tra le mie ginocchia. Non avevo bisogno che ci si mettesse anche lui. Avevo retto fin troppo espressioni deluse e ferite in quei giorni ed ero giunto al limite. Mi sollevai e di fretta e furia, tentai di terminare quella stupida valigia. Prima me ne sarei andato e prima sarebbe stato meglio per tutti. Almeno non avevano più uno psicopatico a cui badare ed io potevo ritrovare me stesso. Buttai alla rinfusa tutte le cose con quelle lacrime, le quali stavano popolando sul mio viso e schiacciavano progressivamente il mio autocontrollo. Aprii ogni singolo cassetto, che poteva essermi utile, e, afferrando le cuffie, sbattei il piede contro il letto. Imprecai nella mia mente, finendo quella scenata col sdraiarmi sul pavimento freddo. Ansimavo e posai le mani sui miei occhi gonfi.
-Non è possibile!- mi lamentai tra di me. -Oh, fanculo, cazzo. Fanculo a tutti- continuai, maledicendo nessuno in particolare. -Cosa cazzo ho fatto per meritarmelo? Dimmi cosa ho fatto! Rendete partecipe anche me della mia schifosa vita!- sbottai contro il soffitto. -Fatelo! Almeno per una volta in questi anni di sofferenza capisco una buona volta il motivo!- mi portai le mani ai capelli e me li strattonai di poco. -Avrò mai un attimo di pace in questa agonia?- finii, battendo un pugno sul petto e piangendo in silenzio. Oramai ero morto. Non ero più sicuro che ero in grado di riprendermi. Questa sensazione di vuoto e oppressione si stava allargando sempre di più e non c’era modo per fermarla. Bloccarla. Annientarla. “Ti prego, basta” supplicai nella mia mente, cedendo il volto a terra e socchiudendo gli occhi, cadendo tra le braccia di Morfeo.

*Brooke*
-La vuoi smettere?- mi spazientii a quella cristallina risata di Fabien. Gli avevo raccontato un piccolo scherzo che mia sorella mi aveva fatto da piccola e lui non smise più di ridere. Roteai gli occhi e schioccai la lingua al palato per fargli intendere il mio disappunto; eppure persistette per altri cinque minuti, prima di asciugarsi le lacrime.
-Mi fa male la pancia- si lamentò, massaggiandosi il suo punto dolente. Alzai le spalle e gli feci la linguaccia.
-Povero piccolo-
-Hey, non sono piccolo-
continuò con la lamentela.
-Avrai si o no diciotto anni. Per me sei piccolo- obiettai, annuendo con la testa, mentre assunse un’espressione sadica.
-In realtà ne ho ventiquattro- rivelò, sorseggiando la sua bevanda tranquillamente. Sbarrai gli occhi.
-Che?- urlai, cedendomi la mascella dallo stupore. Tutti quei clienti di Starbucks si voltano verso di noi confusi. Avevamo cambiato locale perché secondo lui le pietanze della nostra caffetteria erano disgustose, aggiungendo poi il fatto che voleva un milk-shake al cioccolato e quindi eccoci qua. Fabien li intimò a dissentire da quella conversazione e tutti seguirono il suo consiglio. -Non posso credere che tu abbia la mia età-
-Significa che li porto bene- si pavoneggiò. Scossi la testa e gli lanciai una briciola di cookie condiviso. -Poi tu ne hai ventitré, non ventiquattro-
-Li compio tra un paio di giorni- ammisi, grattandomi la nuca.
-Davvero? Cosa farai di bello? Voglio essere invitato, sappilo- scoppiai a ridere a tutte quelle parole e lui si unì a me.
-Non penso di festeggiarlo. Insomma, ho il lavoro, un matrimonio alle porte e una figlia a cui badare. Non riesco a farci entrare anche la mia festa di compleanno. Sarà per la prossima volta- -Figlia? Sei mamma?- mi domandò, interdetto.
-Già. Si chiama Sheyleen e ha quattro anni- risposi con un timido sorriso.
-Seriamente? Che bello- si congratulò, strofinando la sua mani tra i miei capelli. -Sai, anche la mia fidanzata vorrebbe un figlio. Io le ho detto che mi sembrava un po’ troppo presto, ma non era molto convinta. Ora ogni volta che lo facciamo, ho terrore che potrebbe capire realmente- confessò con una punta di imbarazzo.
-Grazie per avermi reso partecipe alla tua vita sessuale- commentai, ridendoci su. -Ma ciononostante, sono certa che sarai un fantastico padre. Non importa l’età. Lo sarai-
-Come tu un’ottima madre-
-Speriamo-
ribattei, guardando davanti a me. In quel momento passò una chioma dorata familiare. Ella era in compagnia di un’altra ragazza. Erano Megan e Lottie. Quest’ultima aveva uno sguardo afflitto, assente. Per un secondo mi passò per la mente l’immagine malinconica di Louis dell’altra sera e ciò mi fece rattristare sul colpo. Lui non meritava tutta quella sofferenza. Anzi, necessitava il meglio. Era un ragazzo solare, vivace, sempre con il suo splendido sorriso sul volto; e l’espressione triste e cupa non gli donava per nulla. Tuttavia, ognuno di noi aveva sempre un momento negativo nella vita. Speravo solo che il suo durasse realmente poco. Abbassai la testa e mi ricordai dei tre anni precedenti. Aveva ragione: ero io principalmente la causa del suo malessere. Tutto era iniziato con il mio incidente e la perdita di memoria. Quindi aveva fatto bene ad allontanarmi, ma il mio cuore non accettava. Avevo un bisogno assurdo di lui; delle sue parole di conforto; dei suoi tocchi leggeri e delicati; dei suo meravigliosi abbracci e di quel profumo annebbiante e rassicurante, infondendomi ogni volta coraggio e benessere con me stessa. Purtroppo, dovevo rispettare la sua decisione: dovevo, solo, riuscire conviverci e lui sarebbe stato meglio.
Da quei pensieri mi risvegliò Fabien, schioccandomi le dita di fronte a me. Mi ripresi completamente, passandomi anche una mano sugli occhi per eliminare quelle piccole lacrime solitarie.

-Stai bene?-
-Certo. Ora però devo andare. Ci vediamo domani, ok? Vieni in ufficio con tuo padre. Ti accetteremo molto volentieri nella nostra squadra-
dissi, sorridendogli. Lui rise.
-Lavorare con mio padre non mi entusiasma molto- commentò divertito.
-Ma ci sarò io- conclusi, regalandogli un occhiolino e salutandolo con un bacio a guancia. Lui ridacchiò nuovamente e mi guardò andar via. 

Mi diressi velocemente in macchina visto che erano le tre e se non mi fossi sbrigata, sarei stata in ritardo nel recuperare Sheyleen all’asilo. Ci arrivai in una quindicina di minuti e restai ad aspettare per i minuti successivi finché i grandi portoni si spalancarono e i diversi bimbi uscirono. Scesi dall’auto e feci un segno a Sheyleen per farmi subito riconoscere. Fu così e si allargò un piccolo sorriso sul suo dolce viso. Corse da me e le diedi un piccolo bacio sulla guancia. Lei ricambiò molto volentieri e ritornammo a casa, dove ci stemmo tutto il giorno a giocherellare un po’ e a guardare dei film, finché Dylan e Paige non ritornarono in casa. Io cominciai a prepararmi per la magica serata che mi attendeva. Sarebbe stata magica se non fosse per quella mancanza e tristezza per Louis. Dovevo dimenticarmelo e basta. Ma ci sarei riuscita realmente?


*Louis*
Erano le dieci di sera oramai e avevo un po’ di pace. Presi il borsone e il resto dell’occorrente. Girai cautamente la chiave per sbloccare la porta e uscirne dopo tutto quel pomeriggio devastante. Per un attimo fui accecato dalla luce proveniente dalla stanza degli ospiti. Inizialmente avevo pensato che fosse Zayn giacché aveva l'irritante abitudine di lasciare le luci accese ovunque. Quando mi avvicinai, non facendo alcun rumore, costatai invece la presenza di mia madre addormentata con Lottie tra le braccia. Mi paralizzai a quella dolce scena considerando il fatto che la ragazza non le aveva rivolto parole per un lungo periodo, e sorrisi intenerito. O forse più malinconico: me ne stavo andando senza aver avvertito. Appoggiai per qualche secondo la borsa a terra ed entrai nella stanza. Non sapevo esattamente cosa stessi facendo, tuttavia mi cedetti trasportare dall’istinto. A prossimità del letto spensi l’abat jour e regalai a loro un piccolo bacio sulla guancia. Fortunatamente per me, non si svegliarono.
-Mi dispiace per tutto, mamma- sussurrai, mordendomi il labbro inferiore e congedandomi in fretta. Se fossi rimasto un altro po’, avrei di sicuro cambiato idea. E non potevo farlo!
Socchiusi la porta e, riafferrando l’oggetto, corsi giù per le scale, affacciandomi poi alla sala in cui sul divano erano strapazzati Harry e Niall, anch’essi addormentati. Era stata una giornata dura per tutti. Frugai nella tasca della felpa e vi trovai le chiavi della macchina e un piccolo bigliettino di carta. Avevo scritto giusto due righe per scusarmi e informarli della mia data del ritorno, ossia direttamente in aeroporto il venti dello stesso mese. Lo appoggiai sulla mensola, dove erano presenti anche gli affari di Harry, in modo tale che lo leggessero subito. Li degnai di alcuni minuti della mia attenzione e intesi il mio dovere non appena mi cadde una lacrima sulla guancia. -Ciao ragazzi- mormorai, uscendo dalla porta d’ingresso. Un venticello primaverile mi levò il cappuccio e mi soffiò sul viso. Respirai a pieni polmoni e, immergendomi nel paesaggio londinese notturno, mi recai alla macchina, sistemando la valigia nei sedili posteriori e caricandomi su per partire. Guidai per quasi tre ore per giungere al paesino sperduto della Gran Bretagna in cui viveva quell’uomo. La radio mi fece compagnia anche se per quella stazione passarono canzoni, le quali non favorivano affatto il miglioramento del mio umore. Anzi lo abbattevano lentamente, però non riuscii a farne a meno. Svoltai a sinistra e una serie di casette a schiera si mostrarono. Raggiunsi, secondo le indicazioni, la quarta di esse. Spensi il motore e mi appoggiai con la schiena al sedile per riacquistare la lucidità. Notai che vi era la finestra illuminata. Era davvero un buon segno? Sospirai e, munendomi di tutto ciò di cui avevo bisogno, scesi dalla macchina. A passi lenti poi mi recai verso quella porta nera traslucida, grazie anche alla fonte luminosa dei lampioni, e ci bussai un paio di volte. La figura di un uomo sulla cinquantina, calvo e con un viso assonnato però poi abbastanza sorpreso, sottolineati dai suoi occhi azzurri, si presentò alla porta. Lui non era del tutto a conoscenza di quella visita anche perché avevo parlato con la sua nuova moglie. Dovevo ammettere che era una donna davvero dolce e comprensiva. Mi aveva chiesto di non dirlo all’uomo perché voleva che fosse una sorpresa. Perciò eccomi qua a salutarlo con un sorriso educato dopo un abbandono non perdonato.

-Louis- esclamò, sbattendo un po’ le ciglia e sorridendomi ampiamente. I suoi occhi azzurri erano lucidi e questo sollevò il mio cuore pesante. Finalmente un’espressione di non pietà nei miei confronti. 

Ciao a tutti! 
Oddio non mi sembra vero. Dopo mesi e mesi di studio, finalmente estate! *^*
Ovviamente con il mio solito ritardo, vi presento il ventitreesimo capito di Remember When :D
Devo dire che è stato un parto D:
Però si può vedere i sentimenti contrastanti tra i due personaggi: Brooke, che è sempre più convinta e agguerrita nel rinnamorarsi di Dylan, invece Louis che si lascia trasportare dalla tristezza e delusione tanto che se ne va D:
Beh, da chi lo scoprirete nel prossimo capito anche se penso che abbiate già capito di chi sto parlando u.u
Poi, che dovevo dire? Ah Si! 6 recensioni per lo scorso capitolo! *^*
O mio dio! Non so che dire! Siete davvero gentilissime!
Vorrei davvero rignraziare tutte! (sia quelle che la leggono, che l'hanno messa tra preferite/seguite/ricordate, e che la recensisce) :*
Comunque, vi lascio in pace. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e mi vorrei scusare per gli eventuali errori D:
Fatemi sapere ciò che pensate e magari anche da chi è andato Louis ;) 
Grazie mille a tutte per l'attenzione :)
Alla prossima xx

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