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Autore: _ayachan_    11/01/2009    6 recensioni
Ed è solo perché sono un'inguaribile ritardataria che i regali di Natale iniziano a presentarsi al pubblico nel giorno della Befana! Le shot più disparate che mi sono state richieste come regalo più o meno sano di mente, AU, what if, spinoff e tutto ciò che mi balzava in testa. Filo comune: sono tutti regali, naturalmente.
All'interno: una fic che ha partecipato al contest sull'erotismo, e la prima classificata al contest sulla pazzia, ovviamente segnalate.
Capitolo 6:
JiraTsu, per Leti.
Purtroppo è leggermente angst, nonostante la cosa non piaccia neanche a me! XD
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Un po' tutti
Note: Alternate Universe (AU), Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Natale-7 Elisa

A Elisa, aka Gweiddi at Ecate
(ma non so quanto a lungo terrà questo nick),
perché credo che non scriverò mai altro che prevede tanto Itachi.
Quindi voglio dedicare questa storia tutta a te.




Questa fanfiction si è classificata prima al Contest sulla Pazzia indetto da akane_val.











Un passo di troppo





Labile è il confine che separa genio e follia.
Fino a che punto l’anormalità è straordinaria, e quando diventa pericolosa?
Dove finisce il sogno e iniziano le allucinazioni?
Esiste un luogo, una linea, un piano, in cui
il genio diventa folle?






Fugaku Uchiha aveva sempre saputo che suo figlio Itachi era un genio.
Non aveva bisogno di vedere i suoi voti all’Accademia o sentire i pareri entusiastici degli insegnanti, a lui bastava ricordare che a due anni Itachi già leggeva, e senza che nessuno glielo avesse insegnato.

«Itachi, vai a giocare con gli altri bambini»
«Perché?»

Fugaku era orgoglioso di quel suo erede tanto speciale, erede che lo aveva già superato e si sarebbe spinto ben oltre i suoi limiti, ed era convinto che finalmente avrebbe riportato la casata agli antichi fasti.
Era il genio di Konoha, suo figlio. Era il genio degli Uchiha.
Aveva un grande destino.

«Stai ancora studiando, Itachi?»
«Domani ho l’esame, papà»
«Sono dieci ore che studi...»
«Esatto»
«...»
«Quando esci, chiudi la porta»

A sette anni Itachi si era diplomato con il massimo dei voti, sbalordendo la comunità tutta.
A otto era diventato Jounin, e la sua leggenda era cresciuta.
A tredici era già capitano degli Anbu.
E, oltre che il capitano della squadra più letale di Konoha, era anche la spia degli Uchiha tra i fedeli all’Hokage e al Consiglio.

«Tu sei importante, Itachi. Sei la nostra arma segreta»
«Io farò ciò che devo»
«Lo so. Sei il mio orgoglio...»


* * *


Alla fine era successo ciò che tutti temevano.
Il quartiere degli Uchiha era nato quasi in sordina, senza troppo clamore, ed era stato circondato da mura bianche e anonime. L’Hokage e il Consiglio avevano disposto che tutti gli Uchiha vivessero in un angolo insignificante di Konoha, lontano dai centri nevralgici della città, lontano dalla parete degli Hokage e dal loro potere, e loro avevano dovuto adeguarsi senza opporsi. Perché, anche se erano i discendenti di uno dei fondatori del villaggio, non erano mai stati davvero parte di Konoha.
Gli Uchiha avevano un grande orgoglio.
Principi.
Doveri.
Morale.
Gli Uchiha erano severi soprattutto con sé stessi, ma quando erano nel giusto sapevano essere spietati con i nemici, chiunque essi fossero.
E, dal momento che chiunque era fuori dal clan, era fuori da LORO, gli altri abitanti di Konoha erano tutti potenziali nemici.
Non si facevano illusioni, gli Uchiha.
Erano soli.
Erano i discendenti di Madara Uchiha, il suo sangue amaro scorreva nelle loro vene, e il rancore non si diluiva con gli anni.
Non importava che fossero stati rinchiusi.
Non importava nemmeno che gli Anbu si aggirassero quotidianamente lungo i confini del quartiere.
E anche se erano stati estromessi dal Consiglio, questo era assolutamente irrilevante.
Perché gli Uchiha avevano già iniziato a muoversi, e presto, molto presto, avrebbero riportato la bilancia in equilibrio.
Grazie al loro piccolo, importantissimo genio.


«Itachi, mi sembri stanco»
Al suono della voce paterna, Itachi alzò gli occhi dai sandali che stava allacciando e fissò Fugaku con il solito sguardo assente.
«E’ una tua impressione» rispose atono, e tornò a chinare il capo per finire di vestirsi.
«Sai che devi uscire in missione solo al meglio delle forze» replicò Fugaku, accigliandosi appena. «Non puoi permetterti fallimenti, o un calo delle prestazioni»
«Lo so» Itachi si alzò in piedi, e sistemò la fibbia del marsupio sull’addome. «C’è altro?» chiese, con una fugace occhiata.
Fugaku ingoiò il sospiro che voleva uscirgli dalla gola, e invece scosse la testa. «Vai. E fatti onore»
Itachi annuì, senza ringraziare, e gli voltò la schiena per uscire.
La porta si aprì, le sue spalle grandi si delinearono per un istante nel sole intenso del pomeriggio, e poi Fugaku le vide scomparire in un silenzio così perfetto e così freddo da mettere i brividi.
Una mano si posò morbida sul suo braccio, e una donna dai capelli mori e lo sguardo preoccupato cercò i suoi occhi, riportando il calore nell’aria.
«Va tutto bene?» domandò esitante.
«Mi sembrava stanco» rispose lui, passandosi una mano sulle tempie. «Ma probabilmente non riesco nemmeno a immaginare fino a che punto si spinga la sua resistenza...»
«Siamo i suoi genitori» sussurrò la donna, stringendo leggermente il suo braccio. «E’ naturale che ci preoccupiamo»
«Probabilmente hai ragione. Sono solo... non lo so...»
Fugaku fissò la porta per un lungo istante con sguardo assente, e si trovò ad accarezzare i capelli della moglie senza nemmeno accorgersene.
Sospirò e scosse la testa.
«Torniamo dentro; Sasuke ha già la sua merenda?» chiese, voltando la schiena all’ingresso.
Ma se il corpo poteva girarsi e allontanarsi, la mente non poteva altrettanto; e rimase fissa sulle spalle che si erano allontanate, fredde e silenziose, e che mai, mai una volta avevano smesso di essere rivolte a lui.

Itachi era il genio della famiglia.
Itachi era la loro speranza.
Itachi aveva un destino.
Fugaku pensava di conoscerlo.



La notte in cui Itachi tornò coperto di sangue, il cielo era illuminato a giorno dai lampi.
La pioggia non aveva ancora iniziato a scrosciare, ma un vento freddo e imprevedibile scuoteva le fronde degli alberi e sibilava tra i tetti delle case.
Fugaku e Mikoto erano andati a dormire da poche ore, eppure nessuno dei due riusciva a chiudere occhio; Sasuke era nella sua stanza, presumibilmente addormentato, ma se un tuono lo avesse svegliato Mikoto sarebbe dovuta andare a controllarlo, perché non si sarebbe mai abbassato a mostrare la sua paura dei temporali al padre. E non sapeva che anche Fugaku, da bambino, si era nascosto spesso sotto le coperte per non vedere i lampi.
Ma i suoi erano altri tempi, tutto un altro mondo, rifletté. Ora ciò che faceva paura era ben altro. E quando il tuono fece vibrare i vetri delle finestre, si limitò a sussultare per la sorpresa.
Mikoto scostò le lenzuola, sospirando piano.
«Vado da Sasuke» mormorò sentendolo muoversi.
Fugaku grugnì in risposta, rotolando su un fianco e chiudendo gli occhi.
Strano. Aveva superato la fobia dei temporali anni e anni prima, ma quella notte continuava a sentirsi nervoso. Si girava e rigirava sul materasso, pensava a sei cose diverse e non arrivava a nessuna conclusione, e sentiva lo stomaco gorgogliare sottovoce, ma non per la fame.
Al terzo tuono, si arrese. Gettò indietro le lenzuola, e fece scendere i piedi dal letto con un’occhiata cupa ai lampi che si intravedevano tra le persiane. Infilò le pantofole sul tappeto e si alzò in piedi, stringendo le braccia al petto in un brivido di freddo.
Itachi era ancora in missione insieme agli Anbu, nel paese del Vento. Secondo le previsioni non sarebbe tornato prima dell’indomani. Non aveva ragione di pensare a lui, nessuna ragione. Per questo, quando si trovò a camminare lungo il corridoio che portava all’ingresso, Fugaku si disse che lo faceva per sgranchirsi le gambe.
Il debole fruscio delle pantofole sul legno lo accompagnava lungo il tragitto, insieme ai gemiti del vento e ai tuoni lontani. Poi, soffuso, ai rumori della notte si aggiunse anche il ticchettio della pioggia.
Un altro fremito gli scosse le spalle.
Si stava sgranchendo le gambe. Solo sgranchendo le gambe.
Arrivò in vista dell’ingresso.
Un lampo improvviso illuminò l’atrio, e le chiazze d’acqua sul parquet liscio.
Un tuono rombò fin nel suo stomaco, mormorando cupo insieme al battito del suo cuore.
La sagoma china sullo stipite alzò gli occhi scarlatti e incontrò i suoi, neri e sbarrati.
Poi un altro lampo. E lo sharingan scomparve, e le spalle bagnate di Itachi si piegarono in avanti, verso il pavimento.
«Mikoto!» chiamò Fugaku, riscuotendosi dal torpore e muovendosi verso di lui.
Itachi cadde in ginocchio, lasciando l’impronta insanguinata della mano sullo stipite bagnato. Una folata di vento portò in casa gli spruzzi della pioggia e scosse i capelli fradici sulle sue spalle, ma Fugaku arrivò a sostenerlo prima che si accasciasse completamente.
«Ferite da taglio» sussurrò lui, perfetto e impeccabile anche in quelle condizioni. «Contusioni... Forse un dito rotto. Non è grave»
«Questo lascialo decidere a me» lo zittì Fugaku, adagiandolo a terra e strappando la maglia sul suo petto.
Alla luce irregolare dei lampi vide le ecchimosi sul torace e il gonfiore delle ferite ancora fresche, il cui sangue si mescolava all’acqua e si condensava in gocce rosate. Corrugò la fronte, ampliando lo strappo, e si rese conto che, come diceva Itachi, non era davvero grave; doveva essere rimasto stordito dalla perdita di sangue, più che altro.
«Mikoto!» chiamò di nuovo, e poi scostò il coprifronte dal suo viso gonfio, spingendo indietro la frangia.
«Come ti senti?» chiese, e la sua voce quasi fu soffocata da un nuovo tuono, e la pioggia ticchettò contro le sue guance, trasportata dal vento.
«Stanco» rispose Itachi, ad occhi chiusi.
«Cosa è successo?»
«Un’imboscata, sulla strada del ritorno. Siamo stati colti di sorpresa»
«Gli altri Anbu?»
«Vivi»
Fugaku annuì, confortato.
«Ti sei comportato bene»
Itachi non rispose, e Fugaku pensò si fosse addormentato. Alzò lo sguardo verso il corridoio, alla ricerca di Mikoto, ma nel buio della stanza intravide solo le sagome dei soprammobili.
«...Sarà davvero così?» mormorò all’improvviso Itachi.
Fugaku riabbassò gli occhi e lo vide che fissava il soffitto, livido, i tratti morbidi del viso resi acuti dalla luce cruda dei lampi.
«E’ davvero quello che devo fare?» continuò lui, e nella sua voce vibrò una nota incerta, qualcosa difficile a definirsi. «Combattere con gli shinobi di Konoha, rischiare la vita per loro... Quanto ancora durerà? Quanto andrà avanti questa farsa?»
I tratti di Fugaku si indurirono prima che rispondesse.
«Abbiamo bisogno di altro tempo» disse piano. «Non molto, ma ancora un po’. E tu sei la nostra arma segreta, Itachi. E’ importante che tu non ceda»
«Perché?» negli occhi di Itachi passò un lampo di rabbia. «Perché devo fingere, ingannarli, diventare loro amico e poi ucciderli?»
«Non devi essere loro amico» lo interruppe Fugaku. «Devi solo conquistare la loro fiducia»
«E restare impassibile, vero?» domandò Itachi, amaro. «Devo solo ingannarli. E poi distruggerli» un sorriso di scherno gli tirò le labbra pallide, e non fu più bello e giovane, ma molto più vecchio e crudele. «Sono la vostra arma e nient’altro, è questo che sono, no?»
«Itachi, sei stanco e ferito...»
«Sì. Hai ragione» lo interruppe, asciutto. «Sono stanco»
E Fugaku capì che non c’era altro da dire, e fu sollevato quando Mikoto finalmente li raggiunse.

Era stanco, Itachi.
Stanco stanco stanco.
Aveva un destino.
Era un ragazzo.
Era un genio.

Ma dove stava di preciso la linea da NON oltrepassare?


Poco dopo Shisui fu trovato morto nei pressi del fiume.
E Itachi divenne il primo sospettato.

*

Fugaku Uchiha non sapeva più chi fosse suo figlio.
L’aveva sempre capito a fatica, ma ultimamente non riusciva proprio a parlargli, se non nel tono formale di uno shinobi a un suo subordinato. Le poche volte che aveva cercato un dialogo con lui si era visto rispondere a monosillabi e occhiate spaventosamente neutre, e ben presto si era arreso e aveva iniziato a sorvegliarlo, più che guardarlo.
Mikoto era seriamente preoccupata per entrambi, e anche se le faceva piacere vedere che ora Fugaku prestava più attenzione a Sasuke, sapeva che non era così che dovevano andare le cose.
Fugaku non doveva dire a Sasuke di non imitare suo fratello.
Fugaku doveva fidarsi di Itachi.
Fugaku aveva sempre adorato Itachi.
Provò a parlarne al marito, una sera, mentre aspettavano di addormentarsi a letto. Ma lui si rinchiuse nel suo guscio e rispose soltanto che Itachi conosceva il suo dovere.
«Itachi è troppo importante»
Così importante che non gli staccava gli occhi di dosso.


«Sei stato in missione?»
«Sì»
«E’ andata bene?»
«Sì»
«E poi sei tornato dall’Hokage?»
«Papà, devo andare, ho una convocazione»


«Hai scoperto qualcosa di interessante durante la riunione?»
«Niente»
«Come sarebbe a dire niente?»
«Niente. E ora posso andare nella mia stanza? Sono stanco»


«Itachi, così non va. I membri del clan iniziano a non fidarsi di te»
«Non capisco...»
«Sì che capisci! Smettila di essere così impassibile! Reagisci! Fa’ qualcosa, di’ qualcosa, qualunque cosa!»
«E cosa dovrei dire?»


Cosa doveva dire?
Con quali parole avrebbe riconquistato la fiducia degli Uchiha?
C’era qualcosa che poteva riuscirci, qualcosa che sarebbe passato sopra le occhiate fredde e i discorsi smozzicati, qualcosa che lo avrebbe reso il vecchio, affidabile, geniale Itachi?
Fugaku voleva crederci.
Ne aveva un bisogno disperato.


«Stai uscendo?»
Di nuovo nell’atrio, di nuovo Itachi chino sui sandali. Ma questa volta non si disturbò ad alzare lo sguardo, e si limitò ad annuire in risposta.
«Dove vai?»
Itachi scrollò le spalle.
«Dove vai?» ripeté Fugaku, fermo dietro di lui.
«Voglio allenarmi» ribatté Itachi sistemando l’ultimo laccio e alzandosi in piedi.
Finalmente si voltò e fronteggiò Fugaku, ma se avesse continuato a mostrargli le spalle, nulla sarebbe cambiato comunque; perché i suoi occhi, semplicemente, non erano lì.
«Dove?»
«Nella foresta. Vuoi farmi seguire?»
«Non dire sciocchezze» Fugaku fece un cenno irritato.
«Sciocchezze?» replicò Itachi, e un sorriso strano gli incurvò un angolo della bocca. «Non sarebbe la prima volta che mi sorvegliate»
«Cosa?» Fugaku si accigliò, turbato. «Sorvegliato? Non ne sapevo nulla... come... Ne sei sicuro? Assolutamente sicuro? Ed erano Uchiha?»
«Da quando dubiti delle mie capacità?» rispose Itachi, freddo. «Passi per la fiducia e la stima, ma ora anche le capacità? Erano Uchiha. Ed erano lì per me. Ma forse qualcuno ha iniziato a lasciarti ai margini... Forse non sono l’unico da tenere sotto controllo»
Fugaku si irrigidì, e strinse i pugni sotto le maniche del kimono.
«Quando sei diventato così?» chiese, in un mormorio carico di amarezza. «Una volta eri diverso, Itachi. Eri la mia speranza, eri il genio del clan... avresti potuto diventare il nostro capo e nessuno avrebbe fiatato»
«Dillo, papà» Itachi lo fissò, lo inchiodò anche senza bisogno di sharingan, e Fugaku sentì le parole piombare nello stomaco come macigni. «C’è ancora una cosa che ero, non è così?»
Silenzio.
Silenzio e ancora silenzio.
Un silenzio colmo di pensieri, di grida che nessuno avrebbe mai sentito.
E l’unica frase che uscì dalle labbra di Itachi.
«Una volta ero tuo figlio»
Fugaku chiuse gli occhi, e senza volerlo distolse il capo.
Itachi sorrise, senza la minima allegria, e gli voltò la schiena.
«Vado ad allenarmi» ripeté, raggiungendo la porta. «Ci vediamo stasera»
E Fugaku, di nuovo, lo vide allontanarsi in silenzio, e restò immobile mentre Itachi se ne andava; restò immobile, immobile, immobile, senza dirgli che no, non avrebbe mai smesso di essere suo figlio.


Quella sera, Itachi tornò per l’ultima volta.


*


Sasuke era vivo?
Era tornato?
Itachi lo aveva trovato?

E Mikoto?
Mikoto era lì con lui, la sentiva, eccola...

Il dolore al petto era troppo, era lancinante, era al di là delle sue possibilità. E il sangue continuava a scorrere, gli offuscava la vista, gli faceva salire conati di vomito dallo stomaco, gli toglieva le ultime briciole di respiro.

Mikoto.
Mikoto era...

E sopra, ecco Itachi, e la sua spada corta, e gli schizzi di sangue sul suo viso, e quegli occhi, quei maledetti, orribili occhi spenti, quegli occhi che un tempo erano il suo orgoglio e ora erano scarlatti, maledetti, quegli occhi che grondavano sangue...
Fugaku aprì la bocca per chiamarlo, per dire qualcosa, forse, ma non ne uscì alcun suono.
Sentiva il corpo di Mikoto sotto di sé, ancora caldo, ma sapeva che il suo cuore aveva già smesso di battere, ed era più di quanto potesse sopportare.

Non avrebbe mai smesso di essere suo figlio.

«Ora non ha più importanza che tu ti fidi. In fondo, facevi bene a dubitare»
La voce di Itachi lo raggiunse da una distanza spaventosa, roca, profonda, molto più profonda di quanto ricordasse.
Dov’era il bambino che aveva visto crescere?
Dov’era il suo adorato, piccolo genio?
«Mi sarebbe piaciuto che le cose andassero diversamente...»
Fugaku boccheggiò. Voleva rispondere. Doveva dirgli che non era tutto perduto, che poteva ancora salvarsi, che poteva... che doveva... che aveva un destino...
Ma poi, vide le sue lacrime.
E quando la spada calò, una voce lontana riecheggiò nelle sue orecchie, la voce di un bambino, questa volta, la piccola voce di Sasuke che scomparve e diventò quella di un piccolo, geniale e adorato Itachi...

E allora seppe che il genio degli Uchiha aveva fatto un passo di troppo.


* * *




La luce del sole era accecante, in quel primo pomeriggio di luglio.
Le foglie degli alberi brillavano più intense che mai, rigogliose e scosse da una brezza leggera e tiepida, e nel cielo sgombro volavano le rondini a caccia di insetti. Il ronzio delle cicale era pressoché assordante, ma attutito dalla cappa di calore, e le infermiere in pausa si sventolavano stancamente con piccoli ventagli di carta, grondando sudore. Non c’era un solo centimetro di stoffa che non sembrasse decisamente troppo, quel giorno. E quando l’uomo in completo nero fece la sua comparsa lungo il vialetto, molti pensarono a un’allucinazione.
Era un ragazzo alto, con i capelli scuri e lunghi trattenuti in una coda bassa. Vestiva elegante, pur senza eccedere, e camminava con un portamento invidiabile. Le infermiere che ebbero la fortuna di vederlo passare a pochi metri furono avvolte dal suo profumo fresco, e tutto ciò che riuscirono a fare fu rimpiangere che i suoi occhi fossero nascosti dagli occhiali da sole. Sicuramente dovevano essere splendidi, ne erano certe.
L’uomo oltrepassò tutte le panchine senza mai rallentare, senza nemmeno una goccia di sudore sulla fronte, finché non raggiunse l’ingresso del grande complesso ottocentesco che si ergeva al centro del giardino.
Non perse tempo ad ammirarne colonne e stucchi, e invece salì i pochi gradini che lo separavano dal portone in vetro e dall’aria condizionata, e lasciò che le porte scorressero silenziose al suo arrivo.
Una folata di aria quasi gelida lo fece rabbrividire nel completo, e l’improvvisa penombra lo spinse a togliere gli occhiali scuri, rivelando occhi neri e bordati da ciglia lunghe.
Si guardò attorno, fermo a pochi passi dalla porta, e incrociò gli sguardi delle ragazze alla reception e di una donna seduta in attesa.
«Oh, ha bisogno di aiuto?» chiese una voce all’improvviso, al suo fianco, e voltandosi l’uomo vide quella che, dal cartellino appeso al camice, si fregiava del nome e del titolo di ‘Sakura Haruno, Medico psichiatra’. Aveva un colore di capelli alquanto discutibile, qualcosa a metà tra il chewing-gum appena scartato e la peggior colorazione stinta della storia delle colorazioni, ma l’uomo sorvolò con eleganza.
«Sono Itachi Uchiha» disse, pacato. «Non mi pare di averla mai vista prima, dottoressa Haruno. Immagino sia nuova»
«Oh, sì, in effetti... appena laureata» arrossì lei, scostando dietro l’orecchio una ciocca di capelli. «Viene spesso qui?»
«Sì» rispose lui, distogliendo lo sguardo e puntandolo sulle scale che salivano ai piani superiori. «Vuole accompagnarmi di sopra?» propose cortesemente, senza dilungarsi in spiegazioni.
«Oh, io veramente...» mormorò lei nervosa, e gettò uno sguardo disperato alle ragazze alla reception.
«Ino e Tenten saranno liete di dirle che so perfettamente dove devo andare» la anticipò Itachi, controllando distrattamente l’ora. «Le chiedo di accompagnarmi perché è prevista la presenza di almeno un medico, tuttavia, mi creda, ormai potrei anche muovermi da solo per tutta la clinica»
Sakura deglutì, nervosa, ma vide le ragazze alla reception farle dei cenni inequivocabili, e allora annuì brevemente.
«Va bene...» mormorò, e Itachi si mosse ancor prima che l’eco dell’ultima sillaba scemasse.
La dottoressa dovette quasi corrergli dietro fino alle scale, rischiando di inciampare nelle scarpe troppo strette, e lo raggiunse solo all’altezza del terzo gradino.
«Allora, ehm, signor Uchiha...» iniziò, sfoderando un sorriso impacciato. «Lei è stato qui molto a lungo?»
Lui le lanciò un’occhiata obliqua. «Credo che abbia frainteso. Io non sono mai stato un paziente»
«Oh, no, certo che no!» arrossì Sakura, maledicendosi mentalmente. «Intendevo... ecco...»
«Ho passato molte ore tra questi corridoi» le venne in soccorso lui, mentre raggiungevano il primo pianerottolo e attaccavano la seconda rampa di scale. «Ma soltanto in visita»
«Oh, certo, ora capisco...» mormorò lei, ancora imbarazzata. «Mi deve scusare... Sono arrivata a malapena tre giorni fa, so giusto dove sono i bagni... Ma non credo che la cosa la interessi, mi perdoni!» scosse la testa, confusa. Nessuno le aveva detto che trattare con la gente fosse tanto complicato, da medico.
Itachi le gettò un’occhiata neutra e proseguì, senza aggiungere altro.
«Ehm, mi scusi, a che piano stiamo salendo?» si azzardò a chiedere lei, quando arrivarono alla targhetta che indicava il primo.
«Terzo» rispose lui, e negli occhi della ragazza brillò un lampo di comprensione: al terzo piano c’erano i pazienti a lunga degenza, molto lunga, quindi era ragionevole che quell’uomo sapesse tanto bene come muoversi.
Inaspettatamente, Itachi riprese a parlare.
«E’ per mio padre» spiegò.
«Oh» riuscì a dire lei, e poi le parole le si seccarono in gola.
«Il suo nome è Fugaku Uchiha»
«Ah!» esclamò Sakura, portandosi una mano alla bocca, e Itachi le sorrise appena.
«Immaginavo che lo avesse sentito nominare»
«No, ecco... è solo che...» balbettò lei, avvampando per l’ennesima volta.
«E’ un nome piuttosto famoso, qui dentro» completò lui, mentre arrivavano al secondo piano e Sakura iniziava a sentire un filo di affanno. «E’ un paziente un po’ problematico»
«Ma no...» tento di dire lei. «E’ solo il tipo di patologia che...»
«La schizofrenia non è necessariamente violenta» la interruppe Itachi, laconico. «E allucinazioni e manie di persecuzione possono essere tenute a bada dai medicinali. Ma mio padre è particolarmente testardo... Mi diceva il dottor Sarutobi che la sua allucinazione è straordinariamente intensa»
«Credo... di averne sentito parlare...»
Itachi sorrise ancora, in parte sarcastico e in parte amaro. «Allora anche lei conosce ‘Konoha’? E l’Hokage, e il Consiglio, e tutti i tentativi dei perfidi ninja di distruggere lui e il suo clan?»
Sakura arrossì, annuendo impacciata.
A dire il vero conosceva anche un altro particolare, ma mai lo avrebbe introdotto lei.
«L’allucinazione di mio padre si regge sulla realtà dei suoi personaggi» proseguì Itachi, piatto, con lo stesso tono con cui avrebbe discusso dell’opportunità o meno di sostituire la Coca-cola con la Pepsi. «Il dottor Sarutobi è l’Hokage, la vecchia infermiera che lo accudisce uno dei consiglieri, i parenti e altri pazienti sono i membri del fantomatico clan... E poi, ci sono io»
Itachi si interruppe non appena arrivarono al terzo piano, e il corridoio pulito della clinica si stese davanti ai loro occhi. Sakura deglutì e riprese a camminare al suo fianco, combattuta tra il desiderio di sentirlo raccontare ancora e la paura di sapere come continuasse la storia, ma questa volta lui non le venne incontro. Fino alla terza porta non volò una mosca, e quando arrivarono alla stanza di Fugaku Uchiha, Itachi si fermò davanti all’ingresso.
«Sa chi sono io?» chiese, fissando assorto il nome sulla targhetta elegante, e Sakura capì che avrebbe continuato. «Nella sua Konoha fatta di complotti e tranelli, io sono il figlio traditore. Sono il genio del clan che impazzisce e stermina la sua intera famiglia, alleandosi con il perfido Hokage»
Suo malgrado, Itachi sorrise amaramente e guardò Sakura, che tratteneva il fiato, senza osare parlare.
«Il dottor Sarutobi non è d’accordo con me, ma personalmente sono convinto che mio padre ricordi fin troppo bene che mia madre è morta alla mia nascita» continuò lui, con tono straordinariamente pacato. «E nella sua Konoha la uccido di nuovo, davanti ai suoi occhi... Ho anche un fratello. Ma non ho mai capito bene come fosse, non c’è ogni volta»
«O-Ogni volta?» balbettò Sakura, suo malgrado.
«La sua allucinazione è complessa, ma termina sempre allo stesso modo: con la sua morte, per mano mia» spiegò Itachi, e nonostante la sua espressione si mantenesse perfettamente neutra, Sakura riuscì a sentire una nota amara, in profondità. Una nota straordinariamente amara. «Tuttavia, mio padre non muore fisicamente ogni volta. Quando ‘Konoha’ arriva alla sua fine, tutto il sogno ricomincia da capo. Io torno bambino, sono il suo adorato piccolo genio, e ogni volta che vengo a trovarlo si mostra fiero e orgoglioso di me. Poi, lentamente, la situazione degenera. Ci sono periodi in cui mi vede e urla. Ci sono state volte in cui lo hanno trovato sui gradini dell’ingresso, sotto il temporale, che parlava con un immaginario corpo steso a terra. E ci sono i momenti peggiori, quelli finali, in cui devono sedarlo perché non si faccia del male. E ogni volta, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, lui continua così. Passa dalla mia infanzia alla sua morte, e poi ricomincia, senza mai stancarsi e senza mai ricordare nulla della volta precedente»
Sakura si accorse di avere la bocca aperta e si affrettò a richiuderla, scossa.
Sapeva che esistevano pazienti del genere, lo aveva studiato e sentito raccontare mille volte. Sapeva che avevano storie anche più incredibili e crudeli, ma sentirlo ora, con le proprie orecchie, era molto peggio che leggerlo dai libri. La professoressa Tsunade le aveva sempre detto che era troppo emotiva per la specializzazione che aveva scelto.
«Io... Mi-mi dispiace...» balbettò confusa.
«Non è il caso» rispose Itachi, con un sorriso – no, una smorfia – appena accennato. «Per me è la quotidianità. E ogni volta, sarò quello che lui vorrà. Dopotutto è mio padre»
Posò la mano sulla maniglia, una mano ben curata e grande, forte, ma prima di abbassarla guardò un’ultima volta Sakura.
«Mi dispiace, devo averla annoiata» si scusò. «Per farmi perdonare, la prossima volta le offrirò un caffè»
«M-Ma no, si figuri... C-Cioè...» scattò Sakura, irrigidendosi, e Itachi scosse la testa e aprì la porta.
«Credo che ci incontreremo spesso, dottoressa» la salutò, e con quel sorriso tanto strano e quegli occhi che, nonostante tutto, erano ancora così vuoti, entrò nella stanza.
La porta si richiuse, ma attraverso le fessure dei cardini continuò ad arrivarle la sua voce attutita, insieme a un’altra simile ma più profonda.

«Stai ancora studiando, Itachi?»
«Domani ho l’esame, papà»
«Sono dieci ore che studi...»

Con un inspiegabile groppo in gola, Sakura afferrò la cartella clinica nel contenitore accanto alla porta e la sfogliò rapida, stretta da un’angoscia immotivata e più profonda di quanto avesse mai provato.
Non avrebbe dovuto lasciarsi toccare così tanto dai suoi pazienti, e nemmeno dai loro familiari; la professoressa Tsunade lo ripeteva in continuazione, così come le ripeteva di scegliere pediatria, o qualcosa di simile... e lei, stupida, credeva che sarebbe stata in grado di far fronte a qualunque cosa.
Ma non quando era così.
Non quando chi si trovava davanti aveva quegli occhi... non quando si trovava a dire frasi come ‘dopotutto è mio padre’.
Non così.
Si trovò a leggere le prime pagine della cartella clinica senza quasi capire cosa si trovava davanti, e le parole sulla carta andarono a sovrapporsi a quelle di Itachi...



...Tutti i tentativi dei perfidi ninja di distruggere lui e il suo clan...

                                                                                                                                           ...Adozione nell’infanzia. Liti e cause legali
tra le famiglie che lo tenevano in affido...

...Sono convinto che mio padre ricordi fin troppo bene
                                                                    che mia madre è morta alla mia nascita...

...La moglie muore di parto...

...Sa chi sono io? Sono il genio del clan che impazzisce...

...Note: intelligenza incredibilmente pronta, qualcuno parlava di ‘genio’.








Fine.
  
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