Disclaimer:
I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono
proprietà esclusiva
di Ryoko Ikeda.
VII
– 27 Marzo – 8 Aprile 1775
I
giorni seguenti furono i più duri di sempre, nemmeno
lontanamente paragonabili al più sfiancante degli
addestramenti, nonostante
l’atteggiamento nell’affrontarli fu proprio quello
della disciplina più ferrea.
Dovette fare appello a tutta la propria forza di volontà per
mettere a tacere
le ragioni del cuore e far sì che prevalessero quelle della
ragione. Fu
indicibilmente difficile trovare l’equilibrio perfetto fra
le azioni,
divenute orfane di qualunque contatto fisico, e le parole, che dovevano
farla
sembrare quella di sempre agli occhi del mondo, soprattutto ai suoi.
Si
era ritrovata ad anelare la solitudine delle proprie
stanze dove soltanto la notte, come un pesante sipario che segni la
fine dello spettacolo,
le concedeva di non dover nascondere l’infinita tristezza che
la scavava
dentro, lasciandola svuotata.
Ma
ogni nuovo risveglio si accompagnava all’inizio di un
nuovo atto, imponendole la recita di un ruolo assegnatole dal
più crudele dei
drammaturghi. E l’attore accusava la pesantezza degli abiti
di scena, quando
rispondeva alle battute ficcanti di lui forzando un sorriso, quando
insieme
svuotavano un bicchiere di troppo nell’intimità
raccolta del salottino e i
pensieri andavano dove l’autocontrollo proibiva, quando
prendeva le redini
dalle sue mani senza sfiorarle, quando incrociava il verde dei suoi
occhi e
nelle sfumature cupe non era più l’amicizia di un
tempo quella che vedeva
riflessa.
Come
un funambolo, si era sentita costantemente in bilico
sopra il baratro, consapevole che la più piccola distrazione
sarebbe bastata a
minare l’equilibrio precario e che la caduta non avrebbe
lasciato scampo.
Curioso
come all'esterno la vita si ostinasse a
proseguire inesorabile nella sua scadenzata quotidianità,
mentre all'interno si
imponeva una narrazione completamente diversa, dominata dalle tinte
fosche dei
suoi tormenti che stridevano con l'apparente leggerezza
dell'ordinarietà.
Come
quel giorno quando, come ogni mattina, era seduta al
solito tavolo della cucina con lui e come al solito lo aveva guardato
imburrare
una generosa fetta di pane abbrustolito, mentre lei intingeva la sua,
spalmata
della solita confettura di fichi, nella tazza di tè fumante
che come
di consueto Marie
le aveva preparato.
Tutto
come sempre, eppure niente era come prima.
Nanny
dava loro le spalle e in punta di
piedi armeggiava con due tazzine di fine ceramica che stava cercando di
riporre
sul ripiano più alto della scansia affinché non
si rischiasse di urtarle e
farle cadere.
«Ah
Madamigella, quasi dimenticavo! Vostra sorella
Hortence ha mandato ad avvertire che verrà in visita domani. Vostra
madre mi ha riferito che si
tratterrà giusto il tempo di affidarci Loulou che
lascerà qui a palazzo un
paio di giorni mentre lei accompagnerà il signor Conte in un
breve viaggio
d'affari nei suoi possedimenti in Borgogna. Ha espresso il desiderio di
incontrarvi. Dice che è da troppo tempo che non fate due
chiacchiere voi due».
Hortence.
Fare due chiacchiere con Hortence. Trattenne una risata
amara. Alla domanda di rito - come sta’ la mia sorellina? -
avrebbe forse
dovuto rispondere secondo il copione? Avrebbe dovuto ignorare l'altra
domanda,
quella che le bruciava dentro? Mordersi la lingua e non chiederle
quand’è che
le era venuta l'idea di portarsi a letto Andrè? Soprattutto,
se ne poteva
davvero parlare al passato? Oppure non avrebbe disdegnato una parentesi
extraconiugale con lui? Le battute esplicite con cui era solita
metterlo in
imbarazzo erano fini a stesse, un gioco innocente frutto della sua
ironia
innata, o celavano ben altro significato? Un invito malcelato?
Una
conversazione utopistica che non sarebbe mai potuta
avvenire, ma non avrebbe desiderato averne una diversa. Avrebbe
preferito
sottrarvisi piuttosto. E tenere Andrè lontano da
lei.
«A
dire il vero per domani avevo pensato che io e Andrè
avremmo potuto andare al fiume ad allenarci. E' da molto tempo che non
mi
veniva concessa una giornata libera dagli impegni a Versailles e
preferirei non
rinunciarvi. Ma se conosco bene mia sorella, il suo "non trattenersi a
lungo" significa che quando saremo di ritorno lei non sarà
nemmeno a metà
del rendiconto dettagliato che obbligherà nostra madre a
farle di qualunque
pettegolezzo o aneddoto abbia avuto luogo a Corte. Sono sicura che
avremo modo
di incontrarci comunque».
In
realtà aveva sperato ripartisse prima del loro ritorno,
anche se il pretesto appena accampato non era affatto una
possibilità da
escludere: la loquacità di Hortence era davvero
proverbiale.
Invece
Andrè l'aveva guardata perplesso, perché lui di
quel
programma per il giorno seguente non era stato messo a parte e gli
parve quanto
meno inusuale che lei non l'avesse consultato. Di regola, decidevano di
comune
accordo come trascorrere le rare giornate libere da impegni, avanzando
ciascuno la propria proposta. Gli era sembrata piuttosto una
decisione
estemporanea e repentina, come se avesse voluto trovare una scusa per
evitare
Hortence. Si diede dello stupido non appena il pensiero aveva preso
forma nella
sua mente: di tutte le sorelle, Hortence era l'unica con cui Oscar
aveva un
legame profondo. I modi diretti e il senso dell'umorismo con cui
riusciva
sempre a sdrammatizzare qualunque situazione era un incastro perfetto
con lo
spirito pratico e la concretezza di Oscar che con lei si trovava a suo
agio.
Osservandola mentre erano insieme la vedeva perdere a poco a poco la
sua
compassata rigidità, lasciando presto il posto a una
rilassatezza che sfociava
in risate aperte che le battute di Hortence riuscivano a
strapparle.
Doveva
essersi semplicemente dimenticata di informarlo, o
forse era addirittura convinta di averlo fatto. Ultimamente aveva
lavorato
a ritmi decisamente sostenuti, un momento di
défaillance ci poteva stare
tutto.
Ma
spesso la percezione giusta arriva dall'istinto. Non si
era sbagliato Andrè, si era trattato puramente di
un escamotage, un banale
espediente che si sarebbe rivelato gravido di conseguenze.
Non
avrebbe potuto prevederlo Oscar che un sotterfugio
partorito sui due piedi per evitare un confronto indesiderato avrebbe
cambiato
la loro vita per sempre e stravolto la sua per la seconda volta in una
manciata
di giorni.
L'indomani
avevano accolto ignari il primo tepore primaverile
come il migliore degli auspici, mentre conducevano i loro cavalli al
piccolo
trotto in direzione della radura attigua al fiume. E senza ombra di
dubbio il
luogo aveva un che di paradisiaco con la luce radiosa che filtrava tra
le
fronde folte degli alberi come spade di luce e accarezzava la
superficie
dell'acqua rifrangendosi in mille riverberi luccicanti.
Eppure
per tutto il tempo non l'aveva abbandonata un senso di
inquietudine, come un infausto presentimento che le aveva costretto i
sensi in
allerta. Le fu presto chiara l'origine di questa sensazione di pericolo
quando,
al primo battibecco scherzosamente provocatorio, lui aveva risposto
insinuante
accompagnando le parole con lo sguardo che aveva deliberatamente
lasciato
indugiare sulle sue gambe nude per metà. Era arrossita lei,
non potendone più
ignorare il significato recondito nascosto sotto toni scanzonati.
Era
stato allora che aveva preso coscienza che il pericolo
stava proprio nel trovarsi lì, in quello scorcio idilliaco,
lontano da tutto e
da tutti, soli. Allora le venne il dubbio che la furbizia con cui aveva
scansato
la sorella e di cui si era tanto compiaciuta con se stessa, fosse in
realtà
l'idiozia più grande che avesse potuto commettere.
Poi
tutto andò storto. Come quando si spiega a un bambino che
una certa cosa non la si deve fare perché è
pericolosa e si infarcisce la
spiegazione con tutti i perché e i per come e lui assicura
di aver capito,
giura che non lo farà, che si comporterà bene,
croce sul cuore, ma poi il gusto
del proibito prende sempre il sopravvento e lui non resiste alla
curiosità di
verificare di persona se è veramente come gli hanno detto, e
finisce
puntualmente col cedere alla tentazione di toccare con mano.
Così
Oscar si era ripetuta nella mente fino allo sfinimento
che sarebbe stata attenta, misurata nei gesti e nelle parole, non si
sarebbe
concessa di scivolare, si sarebbe tenuta saldamente aggrappata alle
ragioni del
buon senso. Se lo stava ancora dicendo, e già il suo sguardo
vagava sul corpo
di lui rilucente d'acqua, trascinandosi dietro la mente che, fuorviata
e corrotta da tutti e cinque i sensi, prendeva a interrogarsi
sulla
consistenza dei muscoli tesi, sul sapore e il calore della pelle
lievemente
abbronzata. Né era riuscita ad impedirsi di ammirare il
petto ampio che si
intuiva ben disegnato sotto la camicia bagnata dalla pelle ancora umida
quando
lui era ormai tornato a un passo da lei, facendosi scoprire.
Inequivocabile il
sorriso sornione che le aveva rivolto.
Con
il senno di poi non saprebbe dire se l'invito a brandire
le armi senza altro indugio fosse stato l'estremo tentativo di restare
ancorata
all'ultimo brandello di resistenza o, al contrario, la
necessità inconfessabile
di trovarsi ancora più vicino a lui, di carpirne l'odore
inconfondibile, il
pretesto per poterlo toccare in modo fintamente fortuito. Di certo,
qualsivoglia
fosse stata la ragione all'origine, l'epilogo travalicò
qualunque intenzione.
Non
ricorda più con precisione come fosse successo, la
dinamica troppo veloce del duello le concede solo una vaga reminiscenza
di un
piede messo in fallo, del proprio braccio proteso in avanti alla
ricerca di un
appiglio, un lembo di stoffa strattonato, il buio degli occhi serrati
fino allo
spasimo, il vuoto. Poi se l'era ritrovato addosso, il suo torace
ansante contro
i suoi seni, il profumo buono dei suoi capelli sul viso, il tono
allarmato
della sua voce che invocava il suo nome come una preghiera.
Incapace
di articolare suono, gli occhi aperti ma lo sguardo
perso, lontano, come lontana era lei, rintanata in un angolo
della propria
coscienza, impegnata nell'ultimo immane sforzo di redarguire il bambino
prossimo alla disubbidienza. Quando infine era tornata in
sé, la certezza dei
suoi convincimenti si era sgretolata come un castello di sabbia
investito dalla
risacca di fronte alle labbra piene di lui così vicine. Il
respiro si era fatto
corto mentre la voce del bambino disobbediente le suggeriva di
coglierle, che
non poteva esserci niente di male a desiderare di conoscerne il sapore
almeno
una volta, che le conseguenze non potevano essere così gravi
come l'altra voce
nella sua testa voleva farle credere, e in ogni caso poi avrebbe sempre
potuto
promettere di non rifarlo mai più, poi avrebbe potuto essere
giudiziosa,
comportarsi come si deve, croce sul cuore.
E
allora le aveva sfiorate appena con le sue quelle labbra
e immediatamente aveva maledetto
quella voce di bambino
ribelle con il quale aveva condiviso per un attimo di troppo
l'ingenuità
illusoria che le sarebbe bastato assaggiarle una volta sola, una
soltanto.
Invece non era la sazietà di una mela succosa che aveva
provato, piuttosto la
smania che si sente di fronte a un cestino di lamponi, quando quasi
senza
pensarci si assapora il primo e ci si accorge che si
è arrivati all'ultimo
troppo tardi per evitarsi un gran mal di pancia. Che poi non si spiega
perché
la volta successiva il mal di pancia ce lo si ricorda benissimo, eppure
non si
riesce ad evitare la medesima conclusione (¹).
E
così aveva rinnovato il contatto in un bacio leggero, e poi
ancora e ancora. Aveva continuato finché lo aveva udito
pronunciare il proprio nome
con una voce roca che non gli aveva sentito mai, facendole aprire gli
occhi a
incontrare i suoi per scoprirli increduli e incupiti da indicibile
desiderio,
lo stesso che si scioglieva liquido in lei che gli aveva offerto la sua
bocca e
si era inebriata del sapore di quella di lui, desiderio che non le
aveva fatto
provare nessuna vergogna quando gli aveva liberato
con urgenza la
camicia dai pantaloni per poterlo finalmente toccare, le mani che
avevano
percorso prima leggere la sua schiena per poi premerselo contro, per
sentirlo
di più, per ascoltare i battiti dei loro cuori impazziti
mescolarsi in un ritmo
solo.
Quando
le disse che la voleva lo vide magnifico e si sentì
bellissima, la più bella di tutte.
Ancora
adesso non sa dove avesse trovato la forza
di fermarlo quando tutto in lei urlava perché continuasse,
perché si prendesse
lì e subito tutto ciò che voleva di lei,
perché lei avrebbe voluto tutto di
lui.
Invece
si era ritrovata a guardare negli suoi occhi più
tristi di sempre, che da soli erano bastati a darle la misura della
ferita che
gli aveva inferto, del danno irreparabile cui non sapeva se sarebbe mai
stato
possibile porre rimedio. Per la seconda volta maledisse il bambino
disubbidiente che pretendeva di poter rimettere le cose a posto
semplicemente
giurando di non ripetere l'errore. Ci sarebbe voluto ben altro, il dono
della
dimenticanza per esempio, l'oblio. Roba da mitologia greca purtroppo,
nella
realtà si poteva al massimo far finta che non fosse mai
successo, che è di per
sé una contraddizione in termini perché implica
la consapevolezza di ciò che si
intende negare. Praticamente un'impresa impossibile. Ma anche l'unica
via
percorribile, per quanto strampalata.
Perciò
aveva usato il tono più imperativo di cui
fosse capace quando gli aveva imposto di rimuovere l'accaduto,
così che la
negazione avrebbe precluso qualunque spiegazione. Non avrebbero mai
potuto
parlare di qualcosa che non era mai successo.
Se
ne era andata subito dopo, al galoppo, con le lacrime
sferzate via dal vento, il cuore in frantumi e un senso di colpa che se
fosse
stato pane avrebbe potuto sfamare l'intera Parigi per secoli a venire.
Era
arrivata a palazzo all'imbrunire, constatando con allarme
e fastidio che la carrozza con lo stemma dei Blanchard sostava davanti
all'ingresso
principale. Hortence era dunque ancora lì, probabilmente
aveva rimandato la
partenza all'indomani mattina. L'aveva aspettata, e questo era un guaio.
Era
riuscita a raggiungere le proprie stanze passando
inosservata, usando l'ingresso secondario sul retro, quello
più accessibile
dalle stalle.
Doveva
trovare il modo di ricomporsi prima di andare a
bussare alla porta di Hortence, si sarebbe trattenuta il minimo
indispensabile
prima di accampare una scusa, la stanchezza, o magari un gran mal di
testa, o
entrambe, poi le avrebbe chiesto di scusarla se le riservava solo un
saluto
frettoloso, ma aveva davvero bisogno di
coricarsi.
Si
era seduta sul ciglio del letto, il cuore un tumulto di
emozioni ingovernabili, il desiderio di lui che nemmeno il senso di
colpa era
riuscito a sopire, e poi tristezza, infinita tristezza per il male che
era
riuscita a fargli, e la rabbia che le ribolliva dentro per non essere
riuscita
ad addomesticare il proprio cuore, rabbia verso il suo corpo che
l'aveva
tradita preferendo dare ascolto alla voce suadente delle proprie
pulsioni,
e la paura come ancora non l'aveva mai provata, paura di non
essere in
grado di prevedere le conseguenze del suo gesto, paura di affrontarle
senza
averne i mezzi, il terrore allo stato puro di non intravedere alcuna
soluzione.
Con
le braccia spalancate si lasciò cadere all'indietro,
simulacro di un'altra caduta, ma furono soltanto le coltri
gonfie ad
accogliere il suo peso, non la mano di lui dietro la sua nuca,
né trovò la
resistenza del suo corpo quando
si strinse
le braccia intorno
in un abbraccio orfano del suo calore.
Da
quanto tempo lui l'amava? Anni? Come era
stato possibile che fosse riuscito a reprimere i propri
sentimenti così a
lungo mentre lei era capitolata dopo appena una manciata di giorni?
Le
ombre lunghe proiettate dagli arredi sul pavimento di
marmo lucido si erano confuse e poi dissolte in una penombra diffusa
che
segnava la fine del crepuscolo e del tempo a sua disposizione.
Si
rialzò a sedere sul bordo del letto per poi dirigersi con
passo stanco verso le stanze che ospitavano la sorella. Tre tocchi
leggeri per
annunciarsi.
«Hortence...allora
non sei partita».
«Non
potevo certo andarmene senza averti nemmeno salutato. Eppure non mi
sembri
particolarmente entusiasta».
«Non
fraintendere Othénse, mi fa sempre piacere vederti. E' che
oggi sono
particolarmente stanca e ho un fastidioso mal di testa,
perciò mi scuserai se
non mi tratterrò a lungo, avremo occasioni
migliori».
«Mi
dispiace per il tuo mal di testa. Immagino abbia un nome, non
è vero?».
Hortence
la fissò con intensità senza distogliere lo
sguardo,
alla ricerca di un indizio sul volto dell'altra che confermasse i suoi
sospetti. Oscar si schermì dietro una risata che
risuonò troppo nervosa.
«E
perché mai il mio mal di testa dovrebbe avere
un nome? E' solo un gran brutto mal di testa, tutto qui».
Il
sorrisetto storto e le sopracciglia alzate di rimando, le
fecero intendere che ad Othénse non la si faceva tanto
facilmente.
«Cosa
è successo tra te e Andrè?».
Dritta
al punto, come una freccia scoccata ad arte contro il
bersaglio. Tipico di lei.
Oscar sgranò gli occhi in un moto di stupore, "come
è possibile che lei
sappia...", poi si girò muovendo tre passi in direzione
della vetrata,
gemella di quella che rischiarava la propria camera, in modo da
sottrarsi al suo
sguardo indagatore.
«Proprio
nulla Hortence, non è successo proprio nulla tra me e
Andrè».
«E
com'è
che questo nulla provoca a te un gran mal di testa e rende lui l'ombra
di se
stesso? E' rincasato tardi, da solo. Sembrava portare tutto il peso del
mondo.
Ha messo un grande sforzo nel salutarmi come si conviene. Ha chiesto il
permesso di ritirarsi quasi subito, guarda caso anche lui si sentiva
"particolarmente stanco". Non ci sono cascata. A giudicare dallo
sguardo triste come non glielo avevo mai visto, la sua stanchezza mi
è sembrata
tutt'altro che fisica. D'altronde è difficile concepire che
una giornata di
svago - Marie mi ha riferito il tuo messaggio - vi riduca entrambi in
questo
stato».
Quello
che seguì fu un silenzio denso e troppo prolungato
perché
Hortence non lo interpretasse come una risposta eloquente. Si
accomodò sul
divanetto in velluto e fissò la schiena della sorella, nella
penombra intuì le
spalle leggermente curve, una postura che non le si addiceva.
«C'è
stato un tempo in cui l'ho voluto per me».
Come
previsto, la reazione fu istantanea e vide Oscar girarsi
di scatto con un'espressione incredula dipinta in viso. Ora era sicura
di
avere la sua attenzione.
«Lo
volevo
per me perché è forte, buono, leale, gentile e
naturalmente bellissimo. Da
mozzare il fiato. Non capivo perché non potevo avere lui e
dovevo invece
prendermi per forza quell'altro, uno sconosciuto di cui ignoravo tutto
tranne
il titolo, l'unica cosa che pareva contare e bastare a nostro padre.
Me lo fecero incontrare appena pochi mesi prima delle nozze, e scoprii
che non
era nemmeno piacente.
Mi
rifugiai in camera di Andrè, lui era con te,
lo aspettai per ore. Frugai fra i suoi libri, me ne vergogno, ma non
sapevo
cos'altro fare per ingannare l'attesa. Teneva una copia de "La Nouvelle
Heloise". Un libro bandito. Quando lo aprii incuriosita, da dietro il
risguardo scivolò fuori un foglio di cartoncino bianco. Lo
girai e vidi voi
due. Meravigliosi. Era un disegno a carboncino, ritraeva te in uniforme
in cima
a una scogliera, la chioma al vento, lo sguardo verso l'orizzonte.
Bella e
fiera. Lui era appena dietro di te, ti sfiorava quasi col suo corpo e
ti
sovrastava realisticamente di tutta la testa, ma non guardava il mare.
Lo
sguardo era fissato in un punto a metà fra la tua spalla e
il collo, aveva
un'espressione dolce e al tempo stesso intensa. Sembrava in attesa che
tu ti
girassi. Con una mano ti cingeva la vita in un gesto intimo e
protettivo.
Rimasi a lungo a contemplare quel particolare, la
mano disegnata in maniera
mirabile rendeva l'effetto delle dita che premevano sulla stoffa della
tua
camicia.
Riposi
il disegno e il libro dove li avevo trovati non appena
udii i suoi passi avvicinarsi.
Lo accolsi in lacrime e gli chiesi di stringermi forte mentre gli
raccontavo il
mio dramma e gli confessavo che volevo lui, non quell'altro. Gli rubai
un bacio
impacciato, il mio primo bacio, e lo implorai di farmi sua,
perché sapevo che
sarebbe stato gentile e delicato. Si sottrasse subito al mio assalto.
Mi guardò
dritto negli occhi e disse solo due parole».
«Non
posso».
«Gli
chiesi se era perché non ero abbastanza
bella, ma lui giurò che no, non era per quello, mentre mi
scostava una ciocca
di capelli dal viso e mi rivolgeva uno sguardo pieno di dolcezza.
Allora gli chiesi se era per la sua posizione, e lo rassicurai che se
era per
quello nessuno lo sarebbe mai venuto a sapere, sarebbe stato il nostro
segreto.
Lui
rimase in silenzio a lungo prima di chinare il capo e
rispondere, quasi che la risposta fosse di per se un'ammissione che non
voleva
condividere con me».
«No,
non è per questo».
«Non
ebbi
bisogno di chiedergli altro. Ritornai alla sua mano stretta
alla tua vita.
Possesso. Ecco qual era il significato che la mia mente aveva carpito
ma a cui
non ero riuscita a dare un nome. Possesso. Non aveva potuto imputare
alla sua
condizione di servo l'avermi rifiutata quella notte. Non aveva voluto
usare
quella motivazione, aveva scelto di essere sincero. Ero
semplicemente la sorella
sbagliata.
Lui
era già tuo allora.
Sono
passati cinque anni, allora ne avevo appena diciassette,
lui diciotto, e non c'è stato giorno che io non abbia
pensato di tradire il suo
segreto, di rivelarti i suoi sentimenti.
Non lo feci mai per rispetto della fiducia che aveva voluto accordarmi,
rivelandomi - pur senza farlo - il suo cuore.
Non
so dirti se mi fossi davvero innamorata di lui, alla fine
non lo conoscevo a fondo quanto te. Di certo ho sperato che tu ti
accorgessi di
lui, della fortuna che ti era toccata in sorte nel poterlo avere
accanto una
vita intera. Perché io avrei comunque potuto averlo per me
una notte soltanto,
il mio destino era già segnato, la strada tracciata, ma per
te sarebbe stato
diverso. Nessuno ti avrebbe imposto mai di sposarti, avresti potuto
conoscere
l'amore vero anziché un matrimonio imposto come è
toccato a tutte noi. Certo
non avrebbe potuto essere alla luce del sole, ma sarebbe stato
vissuto ed
è questo ciò che conta alla fine.
Per
quanto mi riguarda, non sono stata troppo sfortunata. Mio
marito si è rivelato una persona gentile e rispettosa. E mi
ha dato Loulou. Gli
sono affezionata e col tempo ho imparato a volergli bene. Certo l'amore
e la
passione come li si legge nei libri sono altro, ma in fondo non ho di
che
lamentarmi.
Rispetto
la tua scelta di non condividere con me ciò che è
successo
tra voi, ma credo di non aver tradito il segreto di nessuno stasera
perché non
c'era più alcun segreto che potesse essere violato e ho
voluto dirti
apertamente qual è il mio pensiero a riguardo.
Ti
voglio bene Oscar, e ho desiderato con tutta me stessa che
tu trovassi il coraggio di cogliere un’occasione di
felicità che a me è stata
preclusa».
Senza
attendere alcuna replica che, sapeva bene, non sarebbe
arrivata, si alzò incamminandosi verso la stanza da letto
attigua
all'anticamera. Sentì i passi di Oscar muoversi in direzione
della porta e fece
appena in tempo a udire le sue poche parole prima che la porta si
richiudesse
alle sue spalle.
«Non farò mai di lui il mio amante. Mai».