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Autore: _Lady di inchiostro_    23/06/2015    5 recensioni
Vi ricordate quando Rufy fu colpito dall’artigliata di un orso, rimanendo gravemente ferito?
Ace si sentì terribilmente in colpa per quanto accaduto, arrivando persino a piangere.
Ma sarà l’unico a essere tormentato dai sensi di colpa?
***
Quelle parole non aveva solo creduto che Ace le avesse pronunciate, lo aveva fatto veramente. Gli aveva detto di resistere, lo aveva pregato di non morire, di non lasciarlo solo; si era persino sentito in colpa, aveva persino pianto per lui, forse mentre si trovava a osservare le sue condizioni.
[…]
Le lacrime scendevano ormai copiose sul volto di Rufy, che cercava di trattenere i crescenti singhiozzi. Non provò a ridestare il maggiore, non voleva svegliarlo nell’unico momento in cui la preoccupazione era scivolata via ed era riuscito a prendere sonno.
Semplicemente, non fece niente, rimanendo in piedi a guardarlo e a piangere, sentendosi sempre più in colpa.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Monkey D. Rufy, Portuguese D. Ace
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sensi di colpa


 
“È colpa mia! Io lo sapevo che combattere da soli non è una dimostrazione di forza.
Sono un buono a nulla! Sono proprio un buono a nulla!
Mi dispiace tanto, Rufy. Perdonami!”


Con ancora queste parole che riecheggiavano nella sua mente, il piccolo Rufy aprì lentamente gli occhi. Immediatamente, si rese conto che non stava compiendo quel movimento con la solita semplicità e scioltezza di sempre, causa i dolori lancinanti e gli spasmi che aveva lungo tutto il corpo. 
Mantenendo le palpebre socchiuse a fatica, cercò di osservare lo spazio in cui si trovava, nel tentativo di capire dove fosse. Dopo aver vagato lo sguardo per alcuni minuti, ancora frastornato, comprese che non si trovava nella base che aveva costruito qualche giorno prima vicino a quella di Ace e alla dimora dei banditi; no, si trovava proprio all’interno di quest’ultima, mentre fuori infuriava una tempesta come non si era vista in quel periodo. 
Un lampo squarciò il cielo, illuminando per qualche secondo la stanza, seguito da un forte tuono. Rufy guardò la scena ripetersi un’altra volta, e si chiese improvvisamente che razza di ore fossero. 
Dadan e gli altri non c’erano, forse erano nell’altra stanza a dormire: ciò lasciava suppore al piccolo che fosse notte fonda.
Provò a mettersi seduto, e ci riuscì dopo parecchio tempo: gli faceva male dappertutto, oltre al fatto che si sentiva tremendamente intorpidito. Ricordava di aver provato un dolore del genere quando Polchemy e i suoi scagnozzi l’avevano attaccato, torturandolo per estorcergli informazioni sul bottino raccolto da Ace e Sabo. Si era persino lamentato un pochino, mentre si faceva bendare da quelli che non solo l’avevano salvato, ma che sarebbero diventati i suoi fratelli.
In quel momento, piangendo e continuando a ringraziare i due per averlo aiutato, il dolore era spartito del tutto, attutito forse dalla paura di morire per davvero. Stavolta però, sebbene Rufy fosse bendato dalla testa ai piedi, le ferite facevano molto più male di quella volta.
Sussultò quando si toccò le bende che aveva in testa, mormorando un leggera imprecazione: probabilmente, la ferita era molto più profonda rispetto a quelle del busto, che si limitavano a tirare e a provocargli un prurito pazzesco.
Rufy, ancora confuso da tutta la situazione, si domandò come mai fosse ridotto in quelle condizioni, e la prima cosa che gli venne in mente furono le parole che si scambiarono lui e Ace pochi giorni fa.
 «Sabo era un bravo fratello maggiore…»
«Cosa?! Avresti preferito che fossi io a essere morto?»
«Non ho detto questo!»
«Ma l’hai pensato!»

No, Rufy non avrebbe mai pensato una cosa del genere. In quelle circostanze, però, dopo che Ace gli aveva mollato un pugno – a suo avviso senza motivo –, non poté fare a meno di paragonare il comportamento duro del fratello, con quello docile di Sabo, che non lo picchiava mai. 
Solitamente, non erano da lui paragoni di questo genere, anzi li odiava. Lui voleva bene ai suoi fratelli allo stesso identico modo, non avrebbe cambiato nulla del loro rapporto speciale. Solo, forse sperava che, con la morte di Sabo, Ace si sarebbe addolcito un po’ di più, cosa che non avvenne completamente.
Difatti, dopo aver litigato ed essersi urlati addosso ogni serie di insulti, i due decisero di crearsi due basi – o “stati” – indipendenti, dove ognuno avrebbe fatto per sé. Nei giorni a seguire s’ignorarono totalmente, sebbene Rufy non facesse altro che seguire Ace, dicendo che si trovava nello stesso posto solo per puro caso. 
Ed era con Ace anche qualche ora prima, mentre entrambi stavano cacciando la loro cena… 
Improvvisamente, Rufy ricordò cosa successe, le immagini che gli attraversarono la mente con la stessa velocità dei lampi che attraversavano quella notte. 
Mise una mano tra i suoi capelli corvini, alla ricerca del suo cappello e, non trovandolo giustamente calato in testa, girò freneticamente il capo a destra e a sinistra, ignorando i dolori lancianti, per cercarlo. Lo trovò subito dopo, non appena si voltò indietro, tenuto per la tesa dalle dita di una figura a lui nota.
Rufy sgranò gli occhi non appena riconobbe nella figura in penombra suo fratello Ace. Quest’ultimo era seduto con la schiena appoggiata alla parete, rannicchiato, le braccia penzoloni e la testa appoggiata sulle ginocchia. Il piccolo serrò le labbra, fissandolo con le pupille ancora dilatate, mentre ripensava all’avvenimento accaduto solo poco prima. 
Erano nella foresta, come sempre, ed erano alle prese con un enorme orso; o meglio, Rufy era alle prese come un enorme orso, dato che Ace aveva schivato i suoi colpi con una velocità sovraumana e, stufatosi, si era appollaiato  sul ramo di un albero lì vicino, fregandosene totalmente di aver urtato ulteriormente la bestia. 
Anche se fosse stato così, quest’ultima era troppo concentrata sulla figura di Rufy, che non la smetteva di saltare qua e là per punzecchiarla, per attaccarlo nuovamente.
Intanto, Rufy era in seria difficoltà, non riuscendo a combattere nella maniera adeguata, e aveva chiesto una mano al fratello, il quale voltò la testa dall’altra parte e gli rinfacciò la questione del diventare forti da soli. 
Fu allora che l’orso colpì Rufy con una violenta artigliata, lasciando macchie di sangue sul terreno. 
Di quello che avvenne in seguito, Rufy aveva solo dei ricordi offuscati: Ace che chiamava il suo nome con voce strozzata, lui che lo trascinava malamente per portarlo via di lì, che lo scuoteva per svegliarlo, le mani che gli tremavano. Poi, ricordò che se lo mise sulle spalle e che cominciò a correre, respirando con affanno, come se fosse stato lui stesso quello a essere ferito.
 
“Cerca di resistere, okay?
Ti prego…
Ti prego, non morire!”

Di nuovo, la sensazione che ebbe non appena si fu svegliato, ritornò a opprimerlo. Come se quelle frasi che gli balenavano in mente, pronunciate con la voce di suo fratello, non se le fosse immaginate del tutto. Quest’ultima in particolare, che gli ronzava ancora in testa, ricordava distintamente che Ace l’avesse sussurrata mentre se lo caricava sulla schiena, prima che svenisse. E, non voleva sbagliarsi, sembrava che stesse per avere una crisi di pianto. 
In un’altra occasione, Rufy avrebbe semplicemente scosso la testa, rassegnandosi all’idea che quello era stato un sogno troppo bello per essere vero: decisamente, Ace non era tipo da implorare la gente di non morire, né da mettersi a piangere.
Questa volta, però, il piccolo ebbe il presentimento che, no, quelle frasi non fossero state il frutto della sua immaginazione, e la conferma la ebbe nel vedere suo fratello dormire per terra, dietro di lui. Avrebbe potuto benissimo riposarsi comodamente in un letto libero, nell’altra stanza. E invece era lì, in condizioni che la dicevano lunga sul suo stato d’animo. 
Rufy si morse il labbro inferiore, cercando di non emettere alcun suono, e stringendo con forza il lenzuolo che lo copriva; lo scostò subito dopo, con foga, determinato a rimettersi in piedi. 
Barcollando un poco e stringendo i denti per via del dolore, riuscì a stare in equilibrio e a dirigersi verso il corpo assopito del fratello. Quando si trovò a pochi centimetri da lui, si fermò, studiandolo con attenzione, il viso delineato da una serietà che non si addiceva al suo faccino sempre sorridente.
Da quella posizione, Rufy poteva benissimo vedere che aveva i vestiti bagnati, forse per via della pioggia che era caduta improvvisamente.
Perché non si era cambiato? Era rimasto tutto il tempo seduto lì?
Rufy si morse il labbro ancora una volta, spaccandolo e facendo uscire un rivoletto di sangue, gli occhi che già luccicavano per via delle lacrime.
Quelle parole non aveva solo creduto che Ace le avesse pronunciate, lo aveva fatto veramente. Gli aveva detto di resistere, lo aveva pregato di non morire, di non lasciarlo solo; si era persino sentito in colpa, aveva persino pianto per lui, forse mentre si trovava a osservare le sue condizioni.
E tutto questo non faceva che provocare i sensi di colpa a Rufy, adesso. Perché, se era successo tutto questo, la colpa era solo sua e della sua brutta linguaccia; perché lo sapeva che Ace non avrebbe mai permesso che lui si facesse male, ma era troppo arrabbiato con lui per difenderlo; perché era stato lui a farsi promettere da Ace che non sarebbe morto, non pensando che forse anche lui potesse provare la stessa paura di perdere un altro fratello. 
Le lacrime scendevano ormai copiose sul volto di Rufy, che cercava di trattenere i crescenti singhiozzi. Non provò a ridestare il maggiore, non voleva svegliarlo nell’unico momento in cui la preoccupazione era scivolata via ed era riuscito a prendere sonno.
Semplicemente, non fece niente, rimanendo in piedi a guardarlo e a piangere, sentendosi sempre più in colpa. Fu lo stesso Ace, poi, a svegliarsi, colto da un altro brivido di freddo per via dei vestiti ancora zuppi. 
Alzò la testa e sbatté le palpebre, cercando di mettere a fuoco ciò che gli stava davanti.
«Rufy…?» domandò, la voce ancora impastata dal sonno.
Accennò un sorriso, sinceramente felice di vederlo in piedi. Aveva seriamente temuto che non si sarebbe risvegliato più, dopo aver visto quanto sangue colava dalla ferita. Non si era preoccupato in questo modo per quel moccioso, dai tempi in cui Polchemy l’aveva rapito; e, andava detto, non era neanche paragonabile allo stato di preoccupazione che aveva avuto qualche ora prima.
Inoltre, forse per la prima volta da quando lo conosceva, Ace si era sentito in colpa nei confronti di Rufy. E l’aveva detto, apertamente, non gli importava se Mogura o qualcun altro potesse sentirlo: lui aveva permesso a quell’orso di fare del male a suo fratello perché era troppo preso dall’orgoglio per aiutarlo, rischiando di veder morire anche lui.
E non aveva fatto niente per evitarlo.  
Era quasi un miracolo che Rufy fosse vivo, e non di certo per merito suo. Si era comportato da perfetto imbecille, da fratello buono a nulla. 
Lo aveva pensato per tutto il tempo, mentre Mogura prestava le dovute cure mediche a Rufy; lo aveva pensato mentre nascondeva il viso con le braccia, mentre affondava le dita tra i capelli. E lo aveva urlato mentre stava piangendo. 
Sì, aveva pianto questa volta. Aveva avuto troppa paura, una paura che tuttora non riusciva a scrollarsi di dosso. La stessa paura che gli impediva di scollarsi da terra per allontanarsi, di ignorare i richiami di Dadan e gli altri di andare a dormire, di tenere stretto il cappello del fratello per averlo vicino. 
E, giurava sulla sua stessa vita, una paura del genere non l’aveva mai provata, per nessuno; nemmeno per Sabo, poiché sapeva che lui era in grado di cavarsela benissimo anche da solo, e si chiese se non fosse stato un errore mettere da parte le sue preoccupazioni nei suoi confronti. Forse sarebbe stato ancora vivo…
Un particolare fece distrarre Ace dai suoi pensieri, notando che il minore non faceva che tirare su col naso e asciugarsi gli occhi velocemente. 
«Rufy, stai piangendo?» Si rese conto di non averlo detto con la solita voce seccata, bensì con la voce di qualcuno che era davvero in ansia per le condizioni del fratellino, e la cosa risultò strana persino a se stesso. «Ti fa male da qualche parte?»
L’altro scosse la testa e mormorò: «Ace…»
«Ne sei sicuro?» disse, lo sguardo che squadrava ogni parte del fratello per accertarsi del suo stato di salute. «Tra le altre cose, non so se sia sicuro alzarsi con le ferite che ti ritrovi…»
Sembrava tutto così assurdo al lentigginoso: da quando era così apprensivo con il minore?
Davvero non era più così preoccupato come credeva? O forse temeva che Rufy non l’avesse perdonato, aumentando ulteriormente i suoi sensi di colpa?
«Ace» pronunciò ancora una volta il moro, stavolta con più decisione.
«Facciamo così: ti do una mano io se non riesci a stenderti» Stava diventando ridicolo, Ace lo sapeva benissimo. Insomma, non erano da lui certe cose!
Eppure, niente, i sensi di colpa non facevano che provocargli una stretta al cuore e alla bocca dello stomaco, ogni volta che il suo sguardo si posava sulla testa fasciata del fratellino.
«Ace!» urlò infine Rufy, togliendo le mani dalla faccia. «Basta!»
Il maggiore rimase sconvolto, gli occhi che – per la prima volta dopo chissà quanti anni – lasciavano trapelare un’impotenza e una tristezza immense.
Abbassò nuovamente la testa, già pronto a scusarsi con Rufy – ed era la seconda volta che succedeva in una stessa giornata, il che era veramente incredibile –, quando il fratello lo precedette nel parlare: «Smettila di sentirti in colpa! Tu non hai fatto niente, la colpa è tutta mia!»
«Cosa? Sei forse impazzito? È colpa mia se…»
«No, tu eri solo arrabbiato con me. Ti avevo offeso, mi sono messo a fare paragoni stupidi tra te e Sabo, e ho persino detto che sei un pessimo fratello. Non è vero, però, perché se lo fossi stato, mi avresti lasciato in mezzo alla foresta; invece, ti sei preoccupato per me… e hai anche pianto, cosa che non fai mai… » Scoppiò a piangere, con più forza di prima.
«Sono io che sono stato cattivo con te!» continuò, urlandolo tra i singhiozzi.
Ace rimase di sasso, assistendo alla scena quasi come se fosse la manifestazione di un autentico paradosso. In teoria, era lui che doveva scusarsi con Rufy, invece stava avvenendo l’esatto contrario, e solo perché Rufy l’aveva fatto sentire in colpa.
Si concesse un sospiro, non sapeva se di sollievo o di rassegnazione al fatto che suo fratello non sarebbe cambiato mai; forse propendeva per la prima ipotesi, perché adesso sapeva che il suo fratellino l’aveva perdonato.
«Rufy» Il piccolo smise di piangere al richiamo del fratello, mentre questo stava stendendo le braccia verso di lui.
«Che fai?» chiese, sorpreso.     
Ace spostò lo sguardo di lato: sapeva che la cosa che stava per dire era forse la più melensa di tutta la sua stramaledettissima esistenza. «Se ti abbraccio io, potrei farti male, giusto? Dunque… forse dovresti farlo tu per primo…»
Rufy, dapprima scioccato dalle parole del suo fratellone, ricominciò a piangere e si gettò tra le braccia di Ace, che era rimasto ancora seduto per terra. 
«Scusami Ace. Scusa, scusa, scusa, prometto che non ti farò sentire più così male! E poi non sei un buono a nulla, sei il miglior fratello che si possa desiderare e…» Di nuovo, il pianto prese il sopravvento sulle parole, lasciando Ace incerto se ricambiare o meno l’abbraccio.
A quanto pare, Rufy aveva sentito quello che aveva detto dopo che Mogura l’aveva curato. Non che le parole di Rufy non lo rinfrancassero, solo che non lo convincevano sul suo ruolo di fratello maggiore.
Non ne era capace, e oggi era stata una dimostrazione troppo palese, sebbene poi avesse tentato di migliorare.
Però, per quel frangente di tempo, quelle parole ad Ace andavano più che bene: gli facevano sentire che Rufy c’era, che gli voleva ancora bene, che non voleva che sparisse come tanta altra gente desiderava. 
Ricambiò finalmente l’abbraccio, un lieve sorriso che faceva capolino dagli angoli della bocca. 
«Ti voglio bene…» disse Rufy sentendosi cingere dalle sue braccia, strusciando il viso sulla canottiera di Ace.
Quest’ultimo appoggiò la guancia sulla testa dell’altro, e impose a se stesso di smettere di fare il duro almeno per una volta nella sua vita. 
Tanto, sapeva perfettamente che quel momento sarebbe rimasto solo nei ricordi suoi e di Rufy, e che il piccolo non lo avrebbe di certo sbandierato in giro.
Perciò, si concesse di rispondere in maniera leggermente diversa dal solito, mentre accarezzava delicatamente la piccola testa corvina.
«Anch’io, scemo.»  



Parla l’autrice che dovrebbe smetterla di riguardare i vecchi episodi:
Ebbene sì, torno nel fandom con un’altra storia sui due fratelli “D” (e mi sa che quella storia che avevo in programma dovrà aspettare un po’ prima di essere finita… *sigh*). Personalmente, ritengo questo momento uno dei più belli ed emozionanti di tutto il flashback: mi si stringe il cuore ogni volta che sento Ace urlare che gli dispiace di non aver difeso Rufy, che piange perché si sente debole.
Per cui, dopo aver rivisto l’episodio dell’anime per la centoventesima volta, e aver letto di nuovo il capitolo del manga, ho deciso che dovevo scriverci qualcosa su; era da una vita che volevo farlo, ho solo preso il pretesto di avere bene impresso il momento in mente e di avere a disposizione della musica che distrugge gli animi – e che quindi ispira tanto :’D.
Spero che questa mia interpretazione vi sia piaciuta: ho deciso di inserire le frasi che per me sono più significative, per poi aggiungerne una di mia invenzione.
Inoltre, spero di non aver combinato un macello con la caratterizzazione di Ace, rendendolo troppo melenso e, quindi, palesemente OOC.
Che dire, ringrazio chiunque sia arrivato fin qui e chiunque abbia voglia di farmi sapere la propria opinione: ci tengo tantissimo, lo sapete! ;)
Spero di continuare a sfornare oscenità qualche altro scritto, perché scrivere su questo fandom mi piace da morire! :33
Dunque, ci si vede alla prossima,
_Lady di inchiostro_     

  
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